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Nostalgia Ferrari
10 apr 2025
Quanti dei nostri ricordi sono legati alle macchine del cavallino rampante?
(articolo)
15 min
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Il primo ricordo che ho, intendo proprio il più vecchio ricordo cui mi sia dato arrivare con la memoria, è di una mattina abbastanza luminosa e pacifica, io avanti e mamma e papà dietro, scappavo in avanscoperta come un cagnolino; andavo a spasso con una Testarossa.

Sfrecciava, a patto corressi anch’io, su ogni superficie, sul cemento dei palazzi, sul vetro dei negozi, sull’asfalto che ne sbeccava lo smalto del muso e delle portiere sigillate. Era la mia Testarossa Majorette.

Cominciavo a dar contorno al fuori. La vita si estendeva oltre l’incavo sicuro del petto di mia madre. Ponevo le basi per l’esplorazione del mondo. Era il 1989. Da casa nostra fino all’asilo in via Blaserna, linea d’aria, sono trecento metri. Il ricordo comincia attraversando un paio di strade mano nella mano coi miei, per poi staccarmi via da loro appena toccato il marciapiede, trainato da un motore diverso rispetto a quello abituale della mia infantile volontà, e che voleva sfogarsi in avanti, veloce, sempre più avanti e sempre più veloce. Il motore ce l’avevo nella mano, credevo, sotto quella scocca rosso palpitante, che è il primo rosso che io ricordi.

Muso lungo e basso, il cofano smussato, i fari a scomparsa sommersi nella piccola carrozzeria di ferro, le luci di posizione sbarrate della coda: niente, o forse tutto, per me, aveva un motivo pratico in quel disegno; le aspettative estetiche sull’automobile nascevano già insostenibili. Il taxi di mio padre era una 128, giallo ocra ovviamente, dei primi anni Ottanta: me ne interessai solo vent’anni dopo in qualche altra sessione d’archeologia familiare.

Ma c’è un particolare sul quale ricordo di aver indugiato parecchio, maneggiando quel modellino accurato, un’esplorazione in punta di dita: dalle ruote anteriori fino a quelle posteriori, lungo tutta la fiancata, sulla Testarossa spuntavano fuori lunghissime branchie longitudinali, ovvero delle lamelle che emergevano dal blocco della carrozzeria, capaci di far somigliare quella Ferrari a uno squalo corazzato e dalle intenzioni indecifrabili; e io su quelle branchie o lamelle passavo le dita, lamella, vuoto, lamella, vuoto, lamella, vuoto, lamella, vuoto… Quell’alternanza di rilevi affilati e di concavità, che riuscivo a esplorare fino in fondo soltanto con l’unghia, mi procurava un eccitante solletico, lontano dalla noia delle superfici lisce e a modo, e soprattutto, osservandola, la Testarossa mi dava l’idea di un oggetto disegnato per divorare l’aria. Effettivamente, l’idea dello studio Pininfarina fu proprio quella di riuscire a incanalare in corsa il flusso del vento, che tramite le lamelle veniva convogliato fino ai radiatori nella parte posteriore dei fianchi, per il raffreddamento. Quella scalettatura metallica era un graffio dai solchi profondi scavati da artigli potenti e precisissimi. Non riuscivo a capire come fosse possibile lasciare un segno simile sulla materia.

Varcammo insieme il cancello della scuola materna, passammo per il giardino, una giungla di oleandri, limoni e ortica, la Testarossa non poggiava più su una superficie specifica: volava. Il muso piatto e incurvato verso il basso, la leggerezza del disegno che proseguiva fino alla coda larga da berlinetta, era così distante dall’organicità del paesaggio scolastico, almeno del suo giardino d’entrata, che mi faceva sentire come se stessi introducendo in un ecosistema di fiorellini un corpo alieno e vorace, ancor più che d’aria, di spazio. Non riuscivo a star fermo.

I soggetti del ricordo sono cinque, me compreso: la Testarossa, i miei, e una donna, non saprei dirne fattezze e colori, mi appare una sagoma nera come i colpevoli senza identità che si vedono a inizio puntata in Detective Conan. Ricordo che per un momento ci stringemmo tutti assieme in una specie di cerchio, ma subito io schizzai via, a far correre la Ferrari, specialmente in un lungo corridoio vetrato che collegava l’androne con la mensa, un corridoio da cui si vedevano le propaggini del giardino d’entrata, e la Testarossa veniva bagnata da un sole bianco accecante, che dava ancor più vividezza ai graffi che le avevo procurato sfiorando la carrozzeria su una quantità di superfici già incalcolabile. Di quel giorno mio padre non ricorda più nulla, tranne effettivamente che fino al primo giorno di scuola materna io me ne andavo a urlare «Testarossa, Testarossa!», persino in vasca da bagno e a tavola, tanto che mi confessò che avevo ben rotto i coglioni e lui non sapeva più cosa fare. Io con quell’automobile cominciai a perimetrare il mondo, e sicuramente lui non s’aspettava che la patente me la sarei presa solo a ventiquattro anni, sconfiggendo a suon di frizioni grattate la mia futura amaxofobia.

«E ‘sto casino?» Mi affaccio in soggiorno, ho la testa pesante per la sbornia di sonno domenicale, è quasi l’una, e vedo mia madre indicare il tavolo, la bocca aperta come a voler prolungare la o, ma senza dar fiato, gli occhi leggermente sgranati: pretende spiegazioni. Mio padre, con dei ridicoli occhiali rossi da vista in punta di naso, ha sparso senza preavviso un mucchio impolverato di VHS-C, le mini cassette da videocamera, ognuna col suo case di plastica trasparente e dorso nero. Mi avvicino al tavolo. Nel frattempo mio padre fa scena muta, mia madre ferma in posa inquisitoria come una statuina di gesso.

Prendo una delle mini cassette con la punta delle dita per non toccare troppa polvere. All’interno della custodia c’è il foglietto di carta patinata a righe che riporta un titolo scritto a penna, a metà fra commovente album fotografico e secco telegramma bellico: Estate Rapallo 91 / Cannoni lungomare. Nascoste appena sotto la superficie dei miei pensieri, certe inquadrature di quegli anni riaffiorano immediate e trasparenti, colorate di azzurro, smeraldo, oro, come quei raggi di luce che si infrangono sulla lente, costretti dal diaframma a forme spezzate d’esagono, inanellate in obliquo, intense al punto da farsi percezione. Sono le estati d’infanzia. Prendevo il sole a torso nudo su una panchina accanto a mio nonno, che mi diceva di respirare a pieni polmoni, perché «l’aria de mare è mezzo pane», e poi mi raccontava d’aver visto correre un certo giocatore americano di basket, Magic John, lì sul lungomare rapallino l’anno prima, oppure me ne andavo in traghetto con mia zia alle quattro in punto del pomeriggio verso Portofino, che giravamo a piedi mangiando il gelato e stando attenti a non scordarci l’orario di rientro – una volta, forse nel novantasei, vedemmo nella piazzetta del porto Jean Alesi spingere una carrozzina, con un’aria assente che quasi mi fece tenerezza, se non pena, perché lo immaginavo soffrire a far camminare le quattro ruote sbagliate, quelle con dentro il noioso pargoletto, invece che una F1.

Comprendo il moto nostalgico di mio padre, in effetti sempre un po’ melanconico di carattere: mi incuriosisco – fra vent’anni sarò nostalgico anch’io, e molto più di lui. Ne prendo altre. Taxi nuovo TIPO Vincenzo; Stefano mangia gelato a Ostia; Stefano SORPASSO con la FERRARI 92; Festa asilo 1990; Stefano e Nonno NINTENDO / Zelda; Maria balla Natale 93. Ho un leggero senso di nausea. Penso di voler lasciare mio padre a sguazzare da solo in quella chincaglieria familiare di vecchia plastica insozzata, io ho la PlayStation 2 in camera, dentro c’è il disco di Pro Evolution Soccer 4, e il pranzo è ancora lontano – poi ce la sto mettendo tutta per staccarmi dall’immagine di me bambino; invece no, sono stato intrappolato e ancora non l’ho capito.

«Sorpasso con la Ferrari?», chiedo, dopo essermi sforzato di ricordare – nessun esagono rosso mi fa visita. Mio padre fa finta di niente, mia madre ha capito che c’è un intento preciso e inscalfibile dietro al mutismo ostinato di suo marito, e se ne va sdegnata, in silenzio. Io, più brutale, sto per dar fiato a un ao di richiamo, perché sono in una fase adolescenziale in cui tratto mio padre con sufficienza, sento di saperla più lunga di lui, ma eccolo, espira polvere e risponde: «Sei tu, che guidi la Ferrari. A parco Rosati». Mi dà le spalle, chino sulla teca sotto il televisore, dove di mini cassette ce ne sono ancora una ventina, nascoste dietro il NES con le sue cartucce e il videoregistratore Sharp dei vecchi tempi. Faccio finta di ricordare, «Ah!», come fosse normale ricordarsi di aver fatto un sorpasso in Ferrari, a chi, poi, prima di aver compiuto dieci anni. Allora gli dico: «Vediamola». Lui, che non aspettava altro, leggero sobbalza di gioia, a molla come Super Mario quando batte moneta al blocco di mattoni, con quella sua pancia soda e vitale, e gli occhiali scivolano via cadendo a terra. «Certo che la vediamo», dice, una finta disinvoltura che rende evidente il suo piano.

«Maria, corri, vieni a vedere Stefano in televisione!» dice con una voce troppo squillante per la sua età, e mia madre rientra subito in scena come spinta da dietro le quinte, adesso ha un volto sereno e un’espressione incuriosita, e un abito nuovo – no, è soltanto la parannanzi a scacchi bianchi e rossi.

Mentre riporto a casa C. la Tiburtina è sgombra, sono le tre di notte, è una delle nostre prime uscite. Abbiamo confidenza e a turno ci concediamo qualche scherzo: lei è inglese e in italiano sbaglia otto accenti su dieci, mentre la mia pronuncia nella sua lingua mi fa sembrare Alberto Sordi davanti ai macaroni. La strada è dritta, all’orizzonte solo luci verdi. Butto giù il piede e allungo per mettere la quinta. «Io avrei voluto fare il pilota», le confesso facendo finta sia una battuta, senza nemmeno aver bevuto troppo. Lei sorride e la cosa strana è che mi crede. «Infatti guidi bene». Non me l’aveva mai detto nessuno. Sarà vero? Non mi interessa granché, anzi, mi sento immediatamente giustificato a spingere la mia Mazda2 da 75 cavalli oltre i cento all’ora. Sono abbastanza sicuro di me stesso, ogni tanto sterzo per evitare qualche macchina più lenta, senza frenare, alzo soltanto la punta del piede dall’acceleratore, quando è il momento scalo la marcia, do gas e torno in quinta: la cosa si fa ancora più strana, perché lei sembra sempre più divertita. Dove ho già vissuto questa scena?

Turbo OutRun, cabinato verticale, volante e pedaliera con acceleratore e freno. Strade dritte con angoli di sterzata minimi, il difficile era schivare le auto che per un gioco di prospettiva e algoritmi diventavano dal fondo della strada via via sempre più grandi, guadagnando pixel alla stessa velocità con cui l’auto del giocatore veniva lanciata: un delirio di colori in cui spesso ci si trovava cappottati a bordo carreggiata. In Turbo OutRun, che io giocavo nella saletta svago dell’oratorio di San Paolo, si poteva guidare con sole duecento lire, a cavallo fra Ottanta e Novanta, l’auto più potente e affascinante del mondo: la Ferrari F40.

Prosaicamente, Vincenzo, mio padre, al quale nel frattempo ho imposto di comprare una Fiat Tipo al posto della sua storica 128, così lui ha sempre insistito a dire, gliel’ho imposto, a suon di urla puerili, non ha perso l’abitudine di comprarmi automobili giocattolo, e la F40 me la ritrovo nientemeno che in guisa di Transformer, questo bolide ibrido fra vettura gran turismo e vettura da Formula 1, con assetto basso e affusolato, le prese d’aria adottate da vecchi progetti della NASA, a forma di triangolo, sulle fiancate, e quello spoiler che corre lungo tutta la coda sostenuto ai lati da due lastre che lo proiettano in altezza; questo particolare, da Vincenzo, osservando il giocattolo, fece sì che la F40 Transformer in mio possesso venisse rinominata la Ferrari cor manico, per il semplice fatto che la si poteva impugnare proprio dallo spoiler inserendo le dita nello spazio fra questo e la coda, e portarla in giro come fosse una valigetta.

In Turbo OutRun c’era al fianco del guidatore una presenza sì colorata e che conferiva equilibrio allo sprite della F40, ma che da bambino non riuscivo a capire; cosa che adesso, con uno scenario rettilineo e dinamico simile al videogioco, in una Tiburtina notturna e deserta, mi sembrava più che la ciliegina sulla torta il senso di tutto: una ragazza dai lunghi capelli biondi, che invece di darmi del cretino sembrava eccitata all’idea di scoprire quale velocità si potesse raggiungere con un’auto modesta ma leggera – mancava solo qualche cavallo motore e il tetto cabrio, ma l’adrenalina sembrava non mancare rispetto a alle corse virtuali in F40. Merito di C., inebriata quanto me.

C. rideva e ogni tanto incrociavamo lo sguardo. Perché lo scenario intorno a noi rimaneva lo stesso?, perché la Tiburtina nera non diventava la California alla golden hour o una Manhattan bluette e d’oro bianco per riflesso lunare, altro che il bianco e nero di Woody Allen, io con entrambe le mani sul volante perché sentivo che l’auto cominciava a perdere aderenza a terra, movimento ondulatorio della carrozzeria come se da un momento all’altro potesse staccarsi dal telaio, mi rendo conto che C. sta sopravvalutando le mie abilità, non sono davvero un pilota, non ero così bravo a Turbo OutRun, andavo a sbattere così tante volte che mi passava la voglia di andare fino in fondo – ma la velocità dà dipendenza, io mi ritrovo sempre a spingere a tavoletta.

La mia F40 Transformer rimase sempre e solo automobile. Aveva dettagli meno curati della Testarossa Majorette, ma era più grande. Il mio approccio con i modellini nel frattempo era diventato più riflessivo e votato alla contemplazione, tanto che spesso cercavo di ridisegnarne le linee su carta, ma non ci riuscivo – molto più frustrante che tentare di riprodurre lo swoosh o il lupetto di Gratton. Ricordo anche mi venne regalata per un compleanno, sarà stato il novantaquattro, una Porsche 911 Carrera cabrio, una scala abbastanza grande, 1/25 – si potevano muovere persino i tergicristalli. Era una Burrago. La misi su una mensola in corridoio e da lì non venne più spostata. Auto da vecchi. La F40 era la macchina venuta dal futuro, una bestia ibrida tra un’auto e un razzo, con quei fari tondi appena sotto lo spoiler che sembravano gli occhi di un pesce elettrico pronti al guizzo. Non mi ha sorpreso rivederla alle spalle di Hamilton qualche mese fa, anche perché io e Lewis, oltre ad avere in comune un certo need for speed, abbiamo anche le stesse epoche di riferimento. Lui inglese come C., che mi lasciò un paio di mesi dopo la corsa sulla Tiburtina, perché purtroppo nelle strade strette non sapevo parcheggiare, e la disperazione del mio volto nel tentativo di far manovra l’avrebbe disgustata come poche altre cose in vita sua.

Ci sono io, il giorno di carnevale, vestito da Maestro Splinter delle tartarughe ninja, quindi sono un topo marrone imbottito con una specie di kimono viola strappato. Ingombrante, eccessivo: eppure sorrido. Rimango fermo davanti alla telecamera senza sapere cosa fare, poi sbotto: «Posso andare alle corse?», «Vai!», esclama una voce maschile. Mi volto verso lo sfondo e corro, con la corsa a saltelli che a mio nonno non piaceva affatto, andava corretta, anche al più presto, diceva.

All’interno di parco Rosati, dopo il pappagallo robot di nome Charlie, una specie di animatronic abbastanza economico e lercio, che per cinquecento lire ti regalava una palla colorata da aprire per trovare al suo interno un regalino, portachiavi o peluche, sciocchezze per un bambino cresciuto come me, comunque, vi era disegnato nel mezzo del parco un piccolo circuito stile Monza, molto minimale e con quella sua forma a piede, un circuito facile, fatto appositamente per delle piccole bumper car a gettone. Le auto erano parcheggiate in fila sotto un capannone, e ogni auto era una replica di una F1 di quegli anni.

A questo punto della cassetta c’è una piccola interruzione. Mio padre ha gli occhi lucidi, mia madre piange e si asciuga con un lembo del grembiule a scacchi. «Quant’eri carino», dice nel tentativo di non rompere troppo la voce. «Ero letteralmente un topo, ma’». Mio padre ci richiama al silenzio. Il video riprende.

Sono attratto inizialmente dalla McLaren bianca a bande rosse diagonali su alettone, fianchi e muso. Ho sei anni ma so chi è Ayrton Senna. La monoposto gommata sui lati sembra davvero un pacchetto di Marlboro, che mio padre fuma regolarmente. «Prendi la Ferrari!, la Ferrari!», si sente urlare mio padre; esito, e la McLaren mi viene soffiata da un bambino più basso di me, vestito normalmente, in una tuta blu anonima, il capo rasato. Io esito ancora, mi paralizzo, mio padre insiste «La Ferrari!», quindi mi irrigidisco, poi mi sblocco ed eseguo l’ordine di scuderia.

Al centro del mini circuito, circondata dalla lingua d’asfalto come un isolotto, si alza una specie di collina, cui si arriva attraversando con attenzione la pista, quando le auto sono lontane. Dalla cima, avrà pensato mio padre, la visuale sarebbe stata perfetta; mentre mi sistemo nell’abitacolo della Ferrari di Jean Alesi, goffamente, quasi non riesco a entrare tra sedile e pedali, ma più per rigidità nei movimenti che non per via dell’altezza, la ripresa si interrompe di nuovo.

«Eccolo, eccolo», dice mio padre. Il momento che aspettava. L’inquadratura è fissa nello stesso punto di prima, ma l’obiettivo guizza via senza fermarsi e fa venire la nausea. Sembra come se avesse perso il soggetto e stia cercando di ritrovarlo disperatamente; per un attimo compare il cielo, dopo una capriola dell’obiettivo, poi ecco delle sagome d’automobile: vanno veloci come leggeri kart, una blu, una bianca e rossa, è la McLaren, e poi la Ferrari, un rosso sporco, spento, da cui spunta una testa di topo peluche, con due occhi bianchi inespressivi come due dischi di cotone appena poggiati. La collina al centro del circuito si pone davanti alla curva che tutti e tre noi piloti stiamo per imboccare. Mio padre si toglie gli occhiali rossi e s’alza in piedi, «Eccolo, tie’!»: io sono dietro la blu e la McLaren, sfiliamo via veloci, dietro la collina. Sfiliamo, sfiliamo. Scompariamo. Non si vede nulla. Mio padre batte le mani mentre la ripresa avanza con una specie di carrellata, come a volersi avvicinare alla collina, che impalla tutto. Non si vede niente. L’inquadratura traballa. Si inclina.

Ora la collina se ne sta nell’angolo alto sulla sinistra dello schermo; esce veloce un musetto rosso, poi il copricapo marrone da topo. La telecamera perde il suo ancoraggio naturale, va alla deriva, si vedono solo strisce indefinite, il video si conclude così. Il sorpasso. Le altre macchine inghiottite per sempre dalla collina.

Mi giro verso mio padre, che scuote la testa. Mia madre si alza e va in cucina. Io e mio padre siamo entrambi delusi. Non credo, però, per lo stesso motivo.

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