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La festa mobile di Messi a Miami
29 ago 2023
In MLS quello del dieci argentino è uno spettacolo permanente.
(articolo)
8 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Wire
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E quindi sei lì nel cuore della città che non dorme mai, ci arrivi sospinto dalla corrente del traffico, ci piombi fluendo sulla Seventh Avenue, oppure sbucando dalla West 45, nel cuore pulsante di luci e di rumori. Cerchi un biglietto per Broadway, forse, e magari non sai che il vero grande spettacolo sta per andare in onda proprio sopra la tua testa, a portata di sguardo sbalordito, in una cornice piena di rosa, di codici binari, di uno, di zero.

Lionel Andrés Messi Cuccittini è la principessa delle favole che sbuca da uno dei tombini di Manhattan, è Birdman che plana sui grattacieli newyorkesi, è Capitan America – intesa come continente, prima che come Idea: onnipresente, onnipotente, ologramma che a Times Square riproduce una magia che sta andando in scena a Harrison, New Jersey, in quello stesso momento. Ma è anche la personificazione rassicurante del Big American Dream, è la favola, è la forza annichilente dell’arte – è la rutina de lo extraordinario.

Il primo gol di Lionel Messi in MLS (quello del 2-0 ai Red Bull New York) non è il primo gol di Lionel Messi con l’International de Miami, né il suo primo da quando è negli Stati Uniti. Ma è un gol che racconta con eloquenza due verità incontestabili: la prima è che ogni istante, ogni fotogramma di Lionel Messi in azione è una rivelazione prima ancora che un’attestazione di classe cristallina. La seconda, invece, è che quella di Messi negli Stati Uniti è davvero una favola nel senso più strettamente etimologico del termine: è un racconto, una narrazione, la chiusura di un cerchio letterario perfetto. Messi arriva. Messi gioca. Messi si diverte. Messi segna, senza soluzione di continuità. Messi ribadisce la caratteristica che rende da sempre gli Stati Uniti gli Stati Uniti: la terra delle opportunità, il luogo dove tutto può accadere.

E dal momento che tutto può succedere, gli Stati Uniti ne hanno rincorso l’aura aurea per quasi un decennio, senza mai arrendersi. La International Champions Cup è nata, di fatto, come pretesto per trascinare negli States Real Madrid e Barcellona, vale a dire Cristiano Ronaldo e Messi. Nel 2017, un Clásico giocato di fronte a più di sessantamila persone si era aperto con un gol di Messi. Si giocava all’Hard Rock Stadium, esattamente, proprio a Miami.

L’arrivo – tre lustri più tardi – del diez campione del mondo in Florida in questo preciso momento è puntuale come un mate al risveglio: a beneficiare della sua presenza non sarà solo l’Inter Miami, ma la MLS, e poi l’intero Paese, l’intero movimento, perché nel giro di un anno ci sarà la Copa América, e poi 365 giorni dopo la prima edizione dei Mondiali per Club a 32 squadre, e un anno dopo ancora, infine, i Mondiali. Messi come brand ambassador senza nomine ufficiali – paradossale, no?, dal momento che brand ambassador, anzi tourism ambassador, lo è davvero, ma dell’Arabia Saudita, il luogo che l’ha cercato, l’ha corteggiato, ma non è riuscito a portarlo sul proprio suolo.

Come si fa a prevedere l’impatto che ha la presenza di Messi in un Paese, in una lega, in un contesto? O meglio: come si sarebbe potuto non prevederlo?

Novantatreesimo minuto della partita di esordio di Messi con la maglia rosa di Miami. Gli avversari sono i messicani del Cruz Azul, la partita la prima della fase a gironi della Leagues Cup, una competizione che mescola il meglio della MLS con il meglio della prima divisione messicana. Leo ha fatto il suo ingresso in campo 33 minuti prima, osservato da dodici milioni e mezzo di spettatori – numeri da finale NBA – fotografato da LeBron, da Kim Kardashian, da Dj Khaled, da Serena Williams. Ora va in scena la sua personale messa laica: posiziona il pallone, facendolo rotolare leggermente tra i polpastrelli. Alza lo sguardo, con la schiena ancora inarcata: fa tre passi indietro, guarda il pallone, guarda la porta. Ripete il rituale, ancora una volta. Si aggiusta il colletto. Lancia uno sguardo all’angolo che ha scelto. Alea iacta est.

I tifosi del PSG vivono l’abbandono con la bile tracimante, Messi – e con lui Beckham, e poi Apple, e poi la MLS – ha una visione, solo apparentemente incoerente e contraddittoria: abbracciare la calma di un contesto depressurizzato per pressurizzarlo in vista di un futuro a medio-lungo raggio. Nel breve, intanto, c’è da prendere per mano una squadra ultima in classifica nella Eastern Conference, a dodici partite dalla fine della Regular Season, per provare a portarla ai play-off, e poi chissà. Nelle ultime nove partite, Miami non aveva mai vinto. Fin quando è arrivato Messi, fin quando è arrivata la rutina de lo extraordinario. Un tesoro che Miami si culla, e protegge con una guardia del corpo personale – un ex marine – che lo segue anche a bordo campo.

A Miami, Messi ha trovato una specie di Argentina-fuori-dall’Argentina: nel cono urbano della metropoli quella argentina è una delle comunità più presenti, e non è forse un caso che la AFA abbia deciso di installare proprio qua il suo Complejo Deportivo de Alto Rendimiento, avamposto di espansione e di sviluppo del controllo della federazione non solo su giovani talenti di nazionalità argentina presenti sul territorio, ma anche di argentini che – da un po’ di anni, in verità – scelgono la MLS come lega d’acclimatamento prima di un trasferimento in Europa. Ovviamente il complesso sportivo sarà anche la sede albiceleste per le prossime Copa América e Mondiali. Miami diventerà casa dell’Argentina perché l’Argentina, sineddoche di Messi, ha scelto Miami come casa.

Nell’ultima decade, la nazionalità più presente nella MLS, al di fuori di quella statunitense e canadese, è stata proprio quella argentina. Molte cinderella stories hanno avuto negli argentini i protagonisti indiscussi: Guillermo Barros Schelotto, nel 2008, ha portato il titolo ai Columbus Crew; Javier Moralez, l’anno successivo, a Salt Lake. E nel 2015 Diego Valeri ha guidato i Portland Timbers a una vittoria inaspettata, e insperata, contro i rivali acerrimi, Seattle. Nella stagione 2020 gli argentini che indossavano il manto sagrado, la maglia numero 10 del rispettivo club, erano ben otto su ventisei.

E oggi, in MLS, c’è il più diez dei diez. E non è forse un caso che la doppia cifra calcisticamente più leggendaria sia anche il numero delle reti segnate in Leagues Cup (in sette partite).

Abbiamo Messi sotto gli occhi da quanti anni ormai? Eppure anche in questa sua versione invecchiata, leggermente più lenta, la meraviglia non accenna a diminuire. Merito del calcio di punizione perfetto contro i Cruz Azul, della cavalcata e del tap-in contro Atlanta, dello show di pisaditas, serpentine, rievocazioni della sfida con Gvardiol e volées contro Orlando, dell’ineluttabilità di una punizione contro Dallas, di un’altra rievocazione – stavolta di una delle reti più iconiche della sua carriera – in tandem con Jordi Alba, di un’altra slavina su Charlotte, di un bolide preciso e letale contro Philadelphia. Poi c'è l’immancabile rete in finale, contro Nashville, il coronamento del campionario sciorinato, qualcosa di così perfettamente e compiutamente cinematografico.

La reunion con Sergi Busquets e Jordi Alba, il ritorno della liaison con il “Tata” Martino, la linea di continuità con temi conosciuti, sempiterni, e nuovi, con i quali abbiamo imparato a familiarizzare. Messi carasucia - cioè letteralmente "faccia sporca", uno che non si fa problemi a reggere la tensione emotiva di una partita - che litiga con l’uruguayano Araujo; e poi Messi capitano, trascinatore, sovrano benevolente, che cerca DeAndre Yedlin, il capitano prima del suo avvento, per alzare insieme la coppa. Il primo trofeo per Miami, il quarantaquattresimo per Leo – quello che ne fa il calciatore in attività più premiato.

«Ha detto di essere venuto qua per competere, per vincere cose e ogni volta lo dimostra», ha detto Gerardo Martino. «Non sta facendo altro che ciò che aveva detto avrebbe fatto».

Avrebbe potuto scegliere un ritorno in patria, ai Newell’s Old Boys, una specie di farewell tour nei luoghi di infanzia – che non sono mai stati i luoghi della sua infanzia, però. Anziché guardare indietro ha scelto di abbracciare una visione futuribile. Che è poi la ratio profonda della scelta, anche, di Cristiano Ronaldo in Arabia Saudita. Guardare al futuro, sposare progetti nuovi e ambiziosi: è lo zeitgeist, bellezza.

Il Barcellona, l’affare, l’aveva fiutato: gli avevano offerto la possibilità di un passaggio in MLS prima di far ritorno a una casa che invece, poi, si è dimostrata essere tutta da bruciare. Anche Apple aveva capito l'antifona: ha acquisito i diritti della MLS su base decennale, ma forse l’ha fatto perché l’affare, in fin dei conti, stava contribuendo a crearlo.

Miami, Beckham, il sogno l’hanno cullato, studiato, concretizzato. “Abbiamo preso un volo da Londra, in gran segreto, e siamo andati a Barcellona”, ha raccontato Beckham. Era il 2019, Miami non aveva ancora disputato neppure una partita: l’idea di Messi precede l’esordio delle maglie rosa. “Abbiamo incontrato Jorge Messi e gli abbiamo detto: ci piacerebbe che tuo figlio giocasse per noi, un giorno. Sappiamo che ora non può ancora essere dei nostri, ma sappiate che un giorno, ecco, ci piacerebbe molto”.

Terra dei liberi, patria dei coraggiosi: palcoscenico dei kolossal e luogo deputato all’infinitamente possibile. Oggi, negli States, che è tutto questo, almeno fin quando non si scortica la superficie ruvida delle cose, Messi è felice: paradossalmente lo è proprio nel Paese in cui, a Maradona, cortaron las piernas, tagliarono le gambe.

«Per me la felicità è sempre stata giocare al calcio. Ora posso farlo, voglio farlo, qua. Ed è stato uno dei motivi che mi hanno spinto a scegliere Miami: potermela godere, che era un aspetto che avevo un po’ perso. Le mie fughe per giocare in Nazionale erano diventate il pretesto per vivere i momenti più felici. Voglio giocare sereno: e giocherò fin quando potrò», ha detto Messi.

Che a Miami resta pur sempre Messi, quel giocatore prodigioso che – come diceva Pep Guardiola – «quando si allontana dal gioco, è proprio allora che bisogna tenerlo d’occhio. Cammina, analizza la situazione. E quando il pallone torna ai suoi piedi, ha già ormai in testa un’analisi compiuta dello spazio e del tempo. Sa esattamente dove si trova ogni giocatore, ed è lì che boooom».

Lontano – per quanto mai così vicino – dall’idea di buen retiro, Messiin Florida sta cominciando a riavvolgere il nastro dei giorni. Sforzandosi – senza sforzarsi davvero – di farci ricordare chi è stato, chi è, chi sarà per sempre.

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