«Non sono mai stato come quelli là / figli di puttana o figli di papà» rimava Sfera in uno dei suoi primi successi, una delle poche cose scritte dal profeta di Ciny con le quali non mi sono trovato d’accordo.
Essere un figlio di papà, o meglio un figlio d’arte è una delle cose migliori che vi possano capitare: invece di crescere nella povertà, con la famiglia spaccata ed emarginati dai vostri coetanei, potreste avere la strada spianata fino all’Ivy League, tutte le sneakers che volete e centinaia di migliaia di follower dieci minuti dopo aver creato un profilo Instagram. È ora di dire basta all’insopportabile retorica dell’umiltà come via francescana per il successo, secondo la quale più si soffre, più si impara a soffrire e che solo uno ce la fa, ma quant’è dura la salita. Lasciamo l’alpinismo ai nostalgici: noi preferiamo l’Ubervan con una boccia di Evian tra i sedili.
Per fortuna non siamo soli in questa battaglia culturale: anche la NBA, da grande lega progressista, sta abbracciando questo cambiamento, quindi non stupitevi se nel brevissimo futuro le partite saranno piene di nomi che vi sembreranno familiari ma leggermente diversi da come ve li ricordavate, come in una carriera di NBA 2K18 andata più avanti del dovuto. Anche le superstar ci vengono incontro, dando i nomi ai pargoli come se stessero coniugando il loro secondo qualche strana declinazione latina o aggiungendo tante IIIII dopo il proprio cognome.
Ma è un mondo che ci stiamo lasciando alle spalle. Sono finiti i tempi in cui il rapporto tipo padre-figlio era quello di He Got Game. In una sola generazione, le famiglie degli atleti afroamericane sono passate da The Wire a Empire, a dimostrazione di quanto sia cambiato il paesaggio culturale intorno a loro. Finalmente anche gli uomini di colore di successo hanno diritto al capitale finanziario e sociale una volta riservato solo ai bianchi e lo stanno sfruttando per garantire un futuro alla propria famiglia (e non solo). Per chi è arrivato alla fama e al successo passando per la povertà assoluta, i padri assenti o violenti, le guerre tra gang e il razzismo, regalare una Ferrari al figlio quando compie 16 anni non è solamente una cafonata: è una dichiarazione d’intenti, lo statement di chi ce l’ha fatta. La family to feed è ora anche da guidare, da istruire, da trasformare in un brand vincente.
Così molti dei migliori giocatori del pianeta stanno personalmente crescendo i propri figli come fossero dei mini-me pronti alla conquista del cielo. Aspettatevi quindi questi privilegiati presto in NBA, perché il vantaggio competitivo del loro DNA moltiplicato per le Jordan Limited Edition che hanno in cameretta gli srotola un tappeto rosso verso la gloria troppo invitante da non essere percorso con le suole ancora incellophanate.
Se ci pensate già ora l’NBA è piena di giocatori di seconda generazione fortissimi come Steph Curry, Klay Thompson o Austin Rivers (ok, cancellate l’ultimo nome) e la situazione non potrà che aumentare. Ho provato quindi ad ipotizzare come si presenterà il roster di una squadra NBA in un futuro roseo come l’emoji della pesca. D’altronde secondo voi è meglio passare i propri pomeriggi al parlatorio del carcere o facendo dirette Facebook da bordo piscina?
Quintetto base
Shareef O’Neal
Iniziamo in ordine d’età: Shareef figlio di Shaquille il prossimo anno avrebbe dovuto giocare a UCLA, in uno dei programmi più iconici del basket collegiale (quello dove hanno militato Lonzo e LiAngelo Ball, per capirci), prima che un problema cardiaco lo fermasse per tutto l'anno. Nella speranza che tutto si risolva per il meglio il più in fretta possibile, ci sono reali possibilità di vederlo in NBA nel giro di poco tempo. ‘Reef rispetto al padre è più basso e longilineo e ha le qualità di un giocatore perimetrale adatto ad un gioco più moderno e fluido. Di Shaq Sr. conserva però la guasconeria spaccona e giocosa che lo ha reso uno dei personaggi più amati dal pubblico e una sana passione per le scarpe più strane sul mercato.
Tra tutti i figli di papà, Shareef è quello che si gode al massimo la sua posizione sociale, battuto forse solo dal fratellino Shaqir, anche perché è nell’età perfetta per farlo. Si fa mandare le scarpe da Drake, si allena con Quavo, LeBron e Chris Paul gli mandano messaggi prima di ogni partita. Quando non è stato convocato per il McDonald’s All-American la delusione è stata così grande che Kobe lo ha chiamato per consolarlo e motivarlo ulteriormente, mentre Matt Barnes ha twittato che per protesta non avrebbe mai più comprato gli Happy Meals ai suoi figli (e neanche ai figli di Fisher).
E pensare che qualche anno fa Shareef non aveva alcuna intenzione di ricalcare le orme numero 56 del padre, anzi al basket preferiva lo skateboard. Poi improvvisamente la folgorazione, anche perché è difficile rimanere indifferenti davanti alla parata di stelle che ogni giorno ti entrano in salotto. Molto probabilmente Shareef non sarà un fenomeno come suo padre e non sarà un’icona come suo padre... ma quanto ci manca un O’Neal in NBA?
Bol Bol
Anche Bol Bol il prossimo anno sarà al college, a Oregon, nella stessa Conference di Shareef. I due sono cresciuti insieme, giocando nella stessa squadra AAU e camminando sopra la concorrenza. Pur non arrivando all’altezza da record del compianto Manute, anche Bol al quadrato è una figura bidimensionale che non riesce a mettere massa muscolare neanche con tutto il pane che alza regolarmente.
La prima cosa che si capisce scrollando il suo profilo Instagram è che è un vero ossessionato di Supreme. Se pensiamo che il padre uccideva leoni nella savana, il solo fatto che il figlio sia un hypebeast tutto gucciato è un vero trionfo del capitalismo. Per farvi capire quanto Bol Bol sia già un vero capo: quando si è trovato a scegliere il suo futuro universitario non ha avuto molti dubbi e ha scelto i Ducks di Oregon. Un programma serio e vincente, allenato molto bene da Dana Altman e che negli anni ha formato un discreto numero di prospetti per i pro come Jordan Bell e Dillon Brooks. Ma non sono state queste motivazioni a convincerlo, bensì altre ben più concrete. Ha scelto Oregon perché è il college ufficiale della Nike, è il college dove insegnava Bill Bowerman quando ha disegnato le prime scarpe da corsa ed ha il palazzetto dedicato al figlio del finanziatore più generoso, un certo Phil Knight. “Quando sono entrato nello spogliatoio quello che ho visto mi ha mandato fuori di testa: era pieno di Custom Nike introvabili come le Jordan 4 Oregon Retro che ha recentemente messo LeBron. Stavo impazzendo, per un ragazzo fissato con le scarpe quello era il paradiso”. Ora che la NBA ha finalmente tolto qualsiasi restrizione sulle scarpe da gara, Bol Bol è pronto a portare tutto questo fuoco sui 30 parquet più eleganti d’America. Destinazioni preferite? A Houston con P.J. Tucker, maestro jedi delle PE, o con qualsiasi Ball (discreta preferenza verso LaMelo) per l’asse playmaker-pivot più logopedistico di sempre.
Foto di Sam Forencich/Getty Images.
LeBron James Jr.
Ora che la carriera di LeBron Sr. ha preso la parabola discendente che porta a Los Angeles, possiamo occuparci di chi ha invece tutto il proprio futuro davanti, ovvero Bronny. Nel recente show di HBO “The Shop”, LeBron ha ammesso di essersi pentito di aver dato a suo figlio il suo stesso nome, perché lo ha caricato di aspettative che forse il figlio non sarà in grado di rispettare. Infatti se c’è qualcosa di straordinario della carriera di LeBron è stato il modo con il quale ha fatto sembrare la cosa più normale del mondo non solo rispettare, ma addirittura stracciare tutte le narrazioni che erano state costruite su di lui fin da quando aveva 15 anni.
Fare meglio di quanto ha fatto LeBron in NBA sembra davvero qualcosa di impensabile: significherebbe scolpire un’era evolutiva del gioco a propria immagine e somiglianza. Davvero: non può succedere. Poi guardiamo la stagione di Bronny a North Coast Blue Chips dello scorso anno e cominciamo a vacillare: non è che forse LeBron ha paura che possa diventare il secondo James più forte della sua famiglia? Bronny compirà 14 anni il prossimo mese, ma in campo da l’impressione di essere già pronto per qualche categoria superiore. Davanti agli occhi del padre e di CP3 ha guidato la sua squadra al Titolo Nazionale USBA (ad essere sinceri nella squadra di Bronny gioca anche il miglior prospetto della sua classe, Mikey Williams).
Il prossimo anno giocherà a Sierra Canyon High School, una delle factory per la Division I ma soprattutto la scuola dove sono andate KENDALL E KYLIE JENNER. Gary Payton, rivelandone la destinazione, ha di fatto spoilerato la firma di LeBron con i Lakers, che ormai ha come obiettivi litigare con gli altri genitori durante le partite di Bronny e girare Space Jam 2. Riposandosi in California, The King Father vorrebbe provare a giocare una partita in NBA con suo figlio prima di abdicare definitivamente lo scettro: se Silver decidesse di modificare la regola vigente riguardo il limite d’età per firmare un contratto professionistico, Bronny avrebbe la possibilità di fare il salto prep-to-pro nel 2022, proprio quando scadrebbe il contratto firmato da LeBron con i Lakers. Una combinazione che sembra scritta da un premio Oscar e sarebbe un fenomenale lancio per la campagna di LeBron in vista delle presidenziali del 2024.
Chris Paul II e Zion Wade
Scendendo sempre di più d’età troviamo i giovani virgulti dei due futuri Hall of Famer, rispettivamente di 9 e 11 anni. In verità Dwyane ha un altro figlio, Zaire, di 16 anni che presto verrà conteso dai più prestigiosi programmi collegiali d’America e ha serie possibilità di diventare pro. Qui ad esempio imbarazza uno a cui i Knicks danno 18 milioni di dollari l’anno (un altro figlio di papà, tra l’altro).
CP2 e Zion invece sono saliti all’onore delle cronache quando lo scorso anno hanno recitato in un finto NBA Show durante le Finals. La chimica e la professionalità dei due giovani interpreti hanno rubato il cuore degli spettatori e hanno reso Chris e Dwyane i due genitori più orgogliosi d’America. Non va sottovalutato anche come in 90 secondi di show Chris Jr. e Zion abbiano azzeccato più fatti di Charles Barkley in anni di Inside the NBA. Se e quando i due avranno una reale possibilità per arrivare alla lega dei loro padri lo sapremo solo tra qualche anno; nel caso riuscissero a tener fede al patronimico, però, il sogno è ovviamente quello di vederli, insieme a Bronny, in una nuova versione Reloaded della Banana Boat.
Panchina
Jabri Abdur-Rahim
Il figlio di Shareef è una delle migliori ali piccole della sua classe e ha già ricevuto borse di studio dagli atenei di mezza America. Non ha minimamente lo swag degli altri ereditieri: il suo Instagram è più triste di quello condiviso da una coppia. Ma se dobbiamo considerare davvero le qualità cestistiche di questi figli di papà, Jabri è quello che ha più possibilità di avere una carriera migliore del suo illustre genitore.
Cole Anthony
In realtà il prospetto migliore con un cognome pesante in circolazione è Cole Anthony, il pargolo del veterano NBA e stella a UNLV Greg Anthony. Cole però non ha nulla di tenero o infantile: è una delle point guard migliori uscite da New York negli ultimi anni e ha costruito gran parte della propria reputazione mangiando il cuore di ogni avversario. È un Alpha Dog cingolato che arriva al ferro e molti vedono in lui le qualità di un giovane Russell Westbrook. Sarà un sicuro protagonista della prossima stagione NCAA, e nonostante non abbia ancora scelto la sua destinazione finale potete scommettere tranquillamente su un suo futuro in NBA. Quindi qual è il vero problema? Il padre che dice di lui: “Il miglior complimento che ricevo è quando mi dicono che mio figlio gioca con la fame di chi è povero”. Dannazione Greg, non hai capito niente.
Jaxon Williams
Domanda seria: quanto abbiamo bisogno di un nuovo Williams in NBA per sconfiggere la nostalgia dei passaggi di gomito del padre? Invece di perdere la vista su quei mixtape con quella grafica brutta e consumata tutta anni ‘90, meglio buttarsi su quelli di White Chocolate Jr., con i beat trap e gli slomo ad ogni no-look. L’ultimo anno Jaxon lo ha trascorso a Montverde Academy, una delle Prep School migliori d’America, dove si è esibito in giochi di prestigio con la palla tra le mani, crossover e passaggi dietro la schiena così riconoscibili da valere come test del DNA in sede legale. Jason solitamente è a bordo campo, tra l’incazzato e l’orgoglioso, a seguire ogni evoluzione del figlio e, quando non è lui l’allenatore, a discutere con gli allenatori. Per ora Jaxon è molto sfrontato quanto tranquillo sui social (solo un profilo Twitter molto mesto) ma ha solo quindici anni, quindi gli diamo tempo. Le cose però devono cambiare in fretta perché non potrei tollerare che il figlio di Jason Williams non sia un profeta dello swag.
Dennis Rodman Jr.
Il figlio di Dennis Rodman invece è un glitch del sistema che non dovrebbe esistere. Però esiste, e in questo studio serio e rigoroso non può non essere preso in considerazione. Intanto della vita del Verme Jr. sappiamo davvero poco, talmente poco che ho temuto fosse stato spedito a fare le scuole obbligatorie a Pyongyang come tributo. Invece pare abbia frequentato un High School californiana prima di trasferirsi a JSerra High, mettendo insieme risultati più che positivi. Da quello che siamo riusciti ad intuire il suo comportamento fuori dal campo è molto diverso da quello del suo illustre padre, quindi scordatevi gli elicotteri nella notte direzione Madonna o i capelli color frozen yogurt: potremmo dire che ha preso tutto dalla madre se solo sapessimo chi sia la madre (in realtà lo sappiamo: è una certa Michelle Moyer e sembra un tipo molto tranquillo che fa canzoni pop-folk). Le cose più importanti di Dennis Jr. sono in ordine decrescente che è il più grande fan di LeBron James al mondo, ha giocato insieme a Nico Mannion nella stessa squadra AAU ed è spesso chiamato con il suo diminutivo D.J. Rodman, che è già il miglior beatmaker cloud-rap in circolazione.
Riley Curry
Qualche tempo fa su The Players’ Tribune è uscita un’intensa lettera di Steph Curry nella quale il due volte MVP riflette su che tipo di futuro stiamo costruendo per i nostri figli, e soprattutto per le nostre figlie. Riley Curry è diventata nel corso delle varie Finals tra Warriors e Cavs una delle storie preferite dai giornalisti, avidi di qualcosa che non fosse la legacy di LeBron e dei Dubs che “rovinano il basket moderno”. Le sue interruzioni durante le conferenze e le strette di mano con il padre dopo le vittorie l’hanno trasformata in una Internet sensation dove si sprecava la definizione di virale. Non c’è dubbio che Riley diventerà una donna di successo visti gli esempi professionali dei genitori, entrambi straordinari nel trasformare il proprio nome in un brand planetario: ma quanto sarebbe incredibile se tra un paio di decenni diventasse la faccia della WNBA?