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Come si allena un giovane del Milan
10 mag 2018
Intervista a Filippo Galli, direttore del settore giovanile del Milan dal 2009.
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15 min
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Filippo Galli è un pezzo della storia recente del Milan. Come calciatore, è diventato una colonna dell’era berlusconiana tra gli anni ‘80 e ‘90: dal 1983 al 1996 con la maglia rossonera ha collezionato 17 trofei, tra cui 3 Champions League.

Dopo la sua carriera in campo è entrato nell’organigramma del Milan e dal 2009 è Youth Sector Director del Milan (il suo contratto scade il prossimo luglio). Tra i suoi collaboratori ha avuto Stefano Baldini e Michele Cavalli, passati alla Juventus tre anni fa. Ho incontrato Galli a Milano per chiedergli di parlarmi della sua esperienza con le giovanili del Milan.

La prima domanda riguarda l'idea che avevamo, fino a qualche tempo fa, del Milan come di una squadra incapace di valorizzare i talenti che cresceva, che preferiva comprare giocatori già formati piuttosto che cercare perle da ripulire o farle sviluppare in casa. Oggi, invece, in prima squadra ritroviamo i prodotti del vivaio: Donnarumma, Calabria, Locatelli e Cutrone.

Ci siamo sbagliati o è solo una fortunata coincidenza, quella di aver avuto tanti calciatori particolarmente dotati più o meno della stessa generazione?

«La politica del club degli ultimi anni in fatto di scouting non ha favorito un certo tipo di lavoro, quindi quella che descrivi non è una sensazione completamente sbagliata. Dal 2012, e fino all’anno scorso, la società aveva deciso di non fare più scouting per le squadre Under 15 fino agli Under 19. Il pensiero razionale dietro a questa decisione era: una volta composte le rose dei più giovani, ci si concentra sullo sviluppo dei ragazzi selezionati fino al loro ingresso nella Primavera.

Questa politica ci ha dato l’opportunità di mettere a punto un processo metodologico, che ha innovato i sistemi di allenamento, per cercare la migliore strada possibile affinché un ragazzo possa diventare protagonista in un calcio d’élite, come è quello della prima squadra del Milan.

I ragazzi che hai citato, tutti nati tra il ‘96 e il ‘99, hanno trovato la strada verso la prima squadra grazie a questa politica . E ce ne sono altri - Vido, Felicioli, Zanellato e Crociata, giusto per fare qualche nome - che possono ambire ad un palcoscenico di primo livello».

In un’intervista al Corriere dello Sport dello scorso 8 febbraio, hai accennato al metodo integrato, secondo il quale tutte le componenti societarie compartecipano allo sviluppo dei giovani calciatori. Da dove nasce l’idea del metodo integrato che adotta il Milan?

«Esiste una letteratura in ambito di allenamento calcistico, per la quale possiamo dividere l’atleta in parti - quella tecnico/tattica, quella atletica, quella emotiva e quella mentale - che possono essere scorporate e allenate singolarmente, per poi risintetizzarle. In questo modo si otterrebbe dall’atleta una performance migliore.

Poi ci sono altri studi, per i quali è impossibile scindere e allenare le singole parti che compongono un atleta nella sua interezza, e questa è la visione che abbiamo sposato, che ci ha accompagnato nel processo metodologico. Per questo parliamo di metodo integrato: tutte le parti in un atleta sono miscelate in un modo spesso indecifrabile. Quello che a noi interessa di più è l’efficacia tecnica, cioè l’efficacia con la quale un giocatore sviluppa il gioco. Per questo prevale il lavoro con la palla, il nostro focus è sempre tecnico e tutti gli altri aspetti ne sono una conseguenza.

Quello che vale per i calciatori, vale anche per lo staff: se è vero che tutte le componenti si integrano tra loro, non è pensabile che i professionisti che lavorano con noi, ciascuno competente per la propria area, non si integrino e non si confrontino con gli altri professionisti. Se è il gioco che comanda, tutti devono avere conoscenza del gioco e voce in capitolo. Per questo facciamo momenti di formazione per il nostro staff, nei quali si fa uso della video-analisi, per migliorare la conoscenza tecnica di tutti».

Quindi la partecipazione dello staff, nell’insegnamento calcistico, è davvero attiva.

«Tutti sono autorizzati a parlare di calcio. È necessario che lo psicologo conosca le richieste che facciamo ad un calciatore durante l’allenamento e durante la partita affinché lo possano sostenere nel suo processo di crescita. Lo stesso vale per il preparatore atletico.

Non siamo autoreferenziali, chiediamo ai professionisti, anche esterni al Milan, di mettere a disposizione dei colleghi la loro competenza. Nei momenti di formazione non parliamo solo di calcio e non vogliamo omologare il nostro pensiero: ascoltare gli altri ci permette di migliorare la nostra idea, integrandone di nuove. L’obiettivo è crescere giovani calciatori, il metodo con cui lo facciamo può evolvere momento dopo momento».

Chi sceglie l’identità tattica delle squadre giovanili del Milan?

«L’identità tattica nasce dal confronto intorno al gruppo di coordinamento, del quale faccio parte, come responsabile del settore giovanile, con Edi Zanoli, in qualità di responsabile del coordinamento tecnico, e con Domenico Gualtieri, responsabile dell’area atletica. A loro devo molto, rispetto alla mia formazione professionale.

Pensiamo che il gioco col dominio nel possesso palla sia un esercizio più ricco per i nostri ragazzi. Prediligiamo un calcio posizionale, che permette ai giocatori di toccare più spesso il pallone, di conseguenza che porta loro a prendere un alto numero di decisioni. Secondo la nostra idea metodologica, c’è vero apprendimento solo nella realtà del gioco: posso mettere un bambino a giocare la palla contro il muro cento volte, ma ti assicuro che da quei cento tocchi non imparerà a risolvere le situazioni complesse che si ritroverà ad affrontare in gara. Il gesto tecnico dev’essere sempre calato nella situazione di gioco per poter assumere un significato.

La nostra è stata una costruzione per gradi, non abbiamo copiato né il Barcellona né l’Ajax. Abbiamo provato sul campo, abbiamo commesso i nostri errori e apportato continui aggiustamenti, anno dopo anno, e questa modalità di lavoro mi accompagnerà nelle prossime esperienze».

A proposito dell’Ajax, non è un controsenso che la prima squadra segua poi una evoluzione tattica diversa? O abbiamo finito per idealizzare il modello olandese?

«Secondo me è comprensibile che, quando la società si affida a un allenatore, quest’ultimo si senta legittimato a portare la sua idea di calcio. È chiaro che, idealmente, sarebbe meglio avere un allenatore che possa far tesoro di quello che avviene nel settore giovanile. O, ancora meglio, affidarsi a un allenatore cresciuto nel settore giovanile (con questo modello, il Salisburgo è arrivato in semifinale di Europa League, ndr).

Detto questo, io e il mio staff riteniamo che il lavoro che facciamo con i ragazzi sia completo dal punto di vista formativo e possa permettere loro di assolvere ad ogni richiesta tattica. Per esempio: lavorare tanto tempo sul possesso palla, non vuole dire non saper difendere. Anzi, proprio il fatto di posizionarci al meglio sul campo ci permette di avere una reazione migliore nel momento in cui perdiamo la palla. Se poi non riusciamo a recuperare il pallone, dobbiamo essere bravi a effettuare la corsa in ripiegamento, coprendo lo spazio della porta rispetto alla palla. Di lì in poi abbiamo la fase di difesa organizzata.

Oggi, soprattutto nel calcio di alto livello, viene richiesto di difendere andando in avanti, i difensori devono avere capacità di lettura del gioco più evolute rispetto ad una volta, per poter restare alti e riuscire comunque a coprire 40 metri di campo alle proprie spalle».

A questo proposito cosa ne pensi delle dichiarazioni di Giorgio Chiellini, secondo cui l’imitazione a tutti i costi del gioco di posizione non ha aiutato lo sviluppo di giovani difensori bravi nella marcatura? Dobbiamo concludere che nei prossimi anni avremo una pletora di ragazzi bravi a impostare dal basso e scarsi in marcatura? E se così fosse, costituirebbe davvero un problema?

«Dobbiamo riflettere sul fatto che è cambiato il modo di difendere: oggi un difensore deve saper impostare, deve conoscere il gioco, deve anche essere un playmaker. Il difensore dev’essere bravo ad attaccare l’avversario in avanti; dev’essere ancora più bravo nella lettura delle situazioni di gioco, deve saper decidere se continuare a salire o se tornare indietro a coprire lo spazio. Un difensore moderno non può limitarsi alla capacità di marcare, deve saper lavorare sullo spazio e sul riferimento dato dall’avversario. Difendere diventa una lettura complessa, nella quale il difensore tiene conto della palla, della porta, degli avversari e dei compagni.

In generale, è sempre questione di cosa porti in campo: le grandi squadre non possono pensare di difendere a 20 metri dalla linea della propria porta, in una zona dove avere un difensore bravo in marcatura fa la differenza. Nel calcio delle grandi squadre, che vogliono imporsi a livello internazionale, i difensori devono saper fare un altro tipo di gioco».

Tu sei stato un difensore tecnico in tempi lontani, cosa ne pensi di chi dice che l’arte difensiva si sta un po’ perdendo per strada?

«Io vedo che i giovani difensori di oggi si lasciano usare dagli attaccanti, offrono loro un appoggio fisico che un attaccante sfrutta per proteggere palla e girarsi verso la porta. Io non avevo grandi doti dal punto di vista atletico, ma avevo la capacità di usare il corpo dell’attaccante a mio vantaggio. Mi facevo sentire, e poi subito mi staccavo, così che l’attaccante non comprendesse dove realmente fossi e quale fosse la mia scelta. Erano mind games, un ribaltamento nel quale lasciavo la prima scelta all’attaccante o al centrocampista che era pronto a lanciare. Era così che riuscivo a marcare giocatori come Schachner, che erano nettamente più veloci di me. Poi era anche più facile giocare di reparto perché non esisteva il fuorigioco attivo o passivo, dietro la linea erano tutti in fuorigioco».

Torniamo ai ragazzi: i vostri si allenano al centro sportivo Vismara, mentre a Milanello ci sono soltanto la prima squadra e la Primavera. Alla Juventus, invece, tutte le squadre si allenano a Vinovo. È una mera questione logistica e quindi economica? O questa prossimità con i professionisti è davvero un fattore?

«Sicuramente, quando hai tutte le squadre insieme, hai meno problemi dal punto di vista logistico. Al Vismara il club ha dovuto dotarsi di tutte le strutture necessarie: abbiamo un campo stadio, che ha un terreno misto erba naturale e sintetico; altri 3 campi a 11 in erba sintetica, 2 campi a 7, 1 campo da calciotto in erba naturale. Abbiamo anche una palestra, dove i ragazzi di questa età lavorano soprattutto nella prima fase di recupero dagli infortuni.

Dal punto di vista sportivo, penso sia bello far capire ai nostri ragazzi che Milanello sia un qualcosa da conquistare. Milanello è un punto d’arrivo che può costituire per i nostri ragazzi una motivazione extra».

Secondo te in cosa si manifesta il talento più puro? Cosa guardi in un ragazzo quando lo studi per la prima volta?

«Facciamo scouting dall’età di sette anni, e intravedere una potenzialità futura a quella età non è semplice. Cerchiamo un qualcosa che è molto legato all’aspetto tecnico, deve colpirci la qualità nel primo controllo, la capacità di gestire la palla, quella di scelta veloce. Questi bambini particolarmente dotati spesso sono al centro del gioco, vuoi perché reclamano la palla per sé, vuoi perché sono i compagni stessi a cercarli.

L’aspetto più importante del nostro lavoro è individuare le potenzialità di un bambino e, tra queste, la capacità di relazionarsi con gli altri da un punto di vista calcistico. È un aspetto cognitivo e socio-relazionale, che gli spagnoli definiscono relazione tra beneficiario (chi riceve la palla) e benefattore (chi trasmette la palla o chi permette al compagno di riceverla), e che si traduce nell’occupazione in campo, in quella che chiamano distanza di relazione. È un aspetto centrale, che continuiamo a sviluppare lungo tutto il processo di crescita. La collaborazione calata nel gioco, per l’idea di calcio che abbiamo, è fondamentale.

Secondo me, già in un’età molto precoce, che spesso associamo all’egoismo - si dice: “Il bambino gioca da solo” - in realtà possiamo cogliere in loro la capacità di relazionarsi con gli altri e di sviluppare da subito la collaborazione, che è l’essenza del gioco di squadra».

L’attenzione all’associatività può essere un messaggio che va in contrasto con lo sviluppo della tecnica individuale?

«Nel calcio degli adulti si parla di mancanza diffusa della capacità tecnica idonea per saltare l’uomo. I difensori di oggi sono così forti fisicamente, così ben preparati, che è difficile trovare un attaccante in grado di saltarli grazie alla sola tecnica. Sviluppare un metodo situazionale e collaborativo non prevede l’annullamento dell’uno contro uno. Come nel basket, anche nel calcio sta diventando fondamentale l’aiuto di un compagno per avere successo nell’uno contro uno: con un’azione, un movimento senza palla del compagno, si distrae l’attenzione di chi difende o lo si porta a cambiare l’orientazione del proprio corpo, e chi ha la palla può cogliere l’attimo per saltarlo.

Nella nostra idea, non è funzionale allenare situazioni sterili di uno contro uno, non calate nel gioco. Il ragazzo, con la sua attenzione così focalizzata nel gesto tecnico, non riuscirebbe più a riconoscere nel compagno una risorsa. Non riuscirebbe neanche a sviluppare una propria capacità decisionale. Quante occasioni per un vero uno contro uno si creano in partita? Davvero poche, e sempre generate attraverso il lavoro della squadra. Cerchiamo di rendere consapevoli i ragazzi di questo che, per quanto sottile, è un punto di vista che nel gioco cambia molto.

Facciamo un esempio: metti il caso di un bambino molto veloce, che il più delle volte butta la palla avanti e salta l’avversario. Se do valore assoluto all’uno contro uno a prescindere dal contesto, rischio, da un lato, di alimentare la convinzione in questo bambino di essere invincibile; dall’altro, potrei creare frustrazione in un altro che non ha quella specifica qualità. In entrambi i casi, a nostro avviso, i processi di apprendimento tenderebbero a rallentare, se non addirittura a bloccarsi. Per questo il nostro obiettivo nell’attività di base dev’essere la collaborazione.

Da queste riflessioni nasce l’idea di un talento che possiede un patrimonio genetico, ma che lo sviluppa negli incontri che fa nel suo processo di crescita. Un giocatore di talento, che si pensa come tale perché aiutato dai compagni, sviluppa una capacità emotivo-relazionale che lo rende ancora più forte».

A livello professionistico, i club dispongono di grandi risorse per lo scouting. A livello giovanile come si lavora? Per quanto tempo si segue un ragazzo?

«Dall’anno scorso abbiamo un capo scout per l’area Senior-Under 20, e un altro per quella Under 19-Under 16. Loro due lavorano con un gruppo di 12 scout unicamente all’estero. Poi abbiamo un capo-scout per gli Under 15 dell’area italiana e un altro per la stessa fascia d’età dedicato alla Lombardia, dove abbiamo la forte concorrenza di Inter, Atalanta, Brescia e Novara. Dovremmo, forse, porre maggiore attenzione anche alla fascia d’età Under 18-Under 16 per intercettare sul territorio italiano i cosiddetti talenti tardivi.

Operativamente, il coordinamento tecnico segnala le mancanze nelle rose delle squadre al team degli osservatori e i nostri scout segnalano almeno tre scelte per ciascun ruolo da coprire. Ci fidiamo del fiuto dei nostri osservatori, non abbiamo stabilito dei role model, dei profili di grandi giocatori a cui ispirarci ruolo per ruolo, perché siamo dell’idea che un approccio metodologico flessibile sia in grado di valorizzare ogni tipo di talento. Noi cerchiamo giocatori da Milan, che possano avere una chance futura in un top club come il nostro o che almeno possano giocarsi la titolarità in un club di uno dei primi cinque campionati d’Europa».

Riuscite a trovare un bilanciamento tra i vostri obiettivi formativi e il risultato sportivo? Il Milan, ad ogni livello, non è forse tenuto a vincere sempre e comunque?

«La vittoria diventa importante dal punto di vista formativo solo se arriva attraverso un certo tipo di crescita. Si stabilisce un circolo virtuoso, perché la vittoria è una conferma del lavoro svolto. La parte sostanziale del nostro lavoro è rendere il ragazzo consapevole del percorso che fa, spiegando il perché delle esercitazioni che effettua giorno dopo giorno. Il risultato viene spesso scambiato per obiettivo, quando a nostro avviso è un potente strumento formativo.

Ti faccio un esempio: l’anno scorso la nostra Under 16 era quinta in classifica. In una pausa del campionato ha disputato, e vinto, un torneo in Piemonte dove tra i partecipanti c’erano due squadre professionistiche straniere e tutte squadre della nostra Lega Pro. Da quel momento nei nostri ragazzi è scattata la convinzione di poter battere ogni avversario portando il proprio modo di stare in campo. Nelle fasi finali del campionato hanno battuto l’Inter, la Juventus, un’Atalanta fortissima, il Genoa e la Roma».

In una recente intervista a So Foot, Xavi ha portato l’esempio di Mario Rosas, un giocatore che, per la comprensione del gioco e per la tecnica eccezionale, sembrava destinato ad una carriera di altissimo livello. Invece non si è mai imposto in prima squadra. Xavi non è riuscito a spiegarsi il perché, tu sapresti individuare un elemento che può fare la differenza in questi casi?

«Non conosco questo caso specifico, però posso pensare che nello sviluppo del talento l’ambiente abbia rappresentato un ostacolo. Il talento non è solo tecnica o tattica, ma è anche saper stare in un determinato contesto. Magari quel particolare contesto non ha permesso al giocatore di cogliere delle opportunità. Nel nostro settore giovanile, vediamo che l’aspetto sociale può incidere sull’evidenziarsi di un talento in tutta la sua potenzialità. Ci sono stati dei casi simili al Milan, sia quando ero in prima squadra da calciatore, che nella mia esperienza da dirigente. Tanti ragazzi diventano pronti dal punto di vista tecnico, ma non da quello emotivo. Il contesto sociale, non solo familiare, può caricare questi ragazzi di aspettative spropositate, che possono finire per schiacciare un ragazzo. Sono tutte componenti che impediscono a un talento di esprimersi».

La pressione mediatica alla quale i professionisti sono sottoposti ha raggiunto livelli altissimi, che spesso non riescono a gestire. Si inizia a pensare a come preparare un ragazzo alla pressione alla quale sarà sottoposto?

«Certamente. Siamo stati precursori per l’utilizzo di strumenti tecnico-tattici, come la videoanalisi introdotta a livello giovanile da Aldo Dolcetti, ma siamo stati anche i primi che hanno iniziato a lavorare su questi aspetti. Facciamo incontri formativi, organizzati dalla nostra area psico-pedagogica, durante i quali sono presenti anche i tecnici, perché, sempre nell’ottica dell’integrazione delle parti, anche lo staff dev’essere adeguatamente preparato. L’uso dei social dev’essere equilibrato e consapevole, perché sono alcuni degli strumenti che un professionista userà e attraverso i quali passerà la sua comunicazione. Ma farne un buon utilizzo è importante fin da subito, se ricordiamo cos’è successo all’incolpevole Donnarumma quando è stato tirato in mezzo per alcuni vecchi post (il portiere è stato coinvolto in diverse polemiche legate all’uso dei social, anche in tempi recenti, anzi recentissimi, ndr)».

Cosa si fa a livello di preparazione mentale e motivazionale? Ci sono ragazzi che sono mentalmente più pronti di altri in maniera innata?

«Sì, ci sono ragazzi con questo tipo di attitudine, più portati di altri. È compito delle persone adulte aiutare i ragazzi a mantenere la loro capacità attentiva nel tempo, costruendo un ambiente di lavoro favorevole. Lo si fa facendo giocare i ragazzi, facendoli divertire, dandogli la palla per imporre il proprio gioco, e non lasciare che passino il tempo a inseguire gli altri. Il tutto mantenendo comunque il focus anche sul risultato.

Per quanto riguarda la motivazione, io sono d’accordo con Juanma Lillo quando dice: “Non esiste motivazione estrinseca”. Perché la motivazione è solamente intrinseca, ognuno di questi ragazzi ha obiettivi personali. Il nostro lavoro è la creazione del contesto per il quale questa motivazione viene fuori e si sposa con un obiettivo comune. Quando ha un obiettivo comune, il gruppo diventa coeso e sarà facile a quel punto motivare un ragazzo a dare qualcosa in più per la “causa”.

Come prima, anche qui: la relazione è fondamentale, non solo nell’apprendimento tecnico, ma anche in fatto di motivazioni. È ciò che ti permette di superare anche i momenti in cui i risultati non arrivano e non si attiva il circolo virtuoso.

Vale anche per noi adulti. I nostri momenti di formazione non avvengono mediante una trasmissione di informazioni unidirezionale. La formazione ha valore quando c’è una relazione, quando è partecipata, quando c’è un continuo scambio reciproco che può arrivare anche al conflitto. Ovviamente il contrasto dev’essere sull’oggetto della discussione, non personale, non deve riguardare le persone. Il conflitto, una volta emerso, non deve restare fine a se stesso, ma va risolto insieme. Questo però ci porta a fare un salto di qualità incredibile nella relazione lavorativa. L’assenza di conflitto crea stupidità funzionale, un esercito di “yes man”. Le persone creative sono sempre conflittuali, se non so gestire il conflitto, mi perdo tanto del talento di una persona creativa».

A proposito di conflitti: il commissario alla FIGC Fabbricini ha incontrato il primo forte ostacolo nella figura di Gravina, presidente della Lega Pro, all’inserimento delle seconde squadre (la cui introduzione, però, è stata recentemente annunciata da Costacurta, ndr) nella piramide del calcio professionistico. È uno strumento necessario per la produzione di talenti a livello nazionale o per te ci vuole dell’altro?

«Ci vogliono maggiori occasioni che permettano ai nostri ragazzi di acquisire conoscenze. Le squadre B consentirebbero ai nostri ragazzi di entrare in un circuito professionistico, permettendo ai grandi club di controllare l’espressione di gioco adottata nelle seconde squadre, magari scegliendone una vicina a quella della prima squadra. Anche la possibilità di pescare un giocatore dalla squadra B a stagione in corso per utilizzarlo in prima squadra, costituirebbe un’opportunità straordinaria per un ragazzo.

Il problema è come in Italia interpretiamo certi strumenti: abbiamo cercato di rendere più competitivo il campionato Primavera, introducendo le retrocessioni. Abbiamo invece creato un campionato in cui si gioca un calcio che ha poco di formativo. Se le riforme continueranno ad essere calate dall’alto, e non essere sentite dagli addetti ai lavori, continueremo ad avere nessun vantaggio, o solo vantaggi aleatori».

Pensi che il “risultatismo”, cioè l’ossessione per il risultato, sia un nostro male culturale?

«Il risultato è importante, nessuno lo nega, ma il nostro vero obiettivo è quello di formare calciatori. Se gli operatori dei settori giovanili non capiscono che una “rivoluzione” può essere vera solo se parte dal basso, se davvero non entriamo tutti in questa ottica, continueremo a restare indietro. Continueremo a vantarci che siamo i più bravi perché sappiamo difendere, che Coverciano produce i tecnici migliori perché hanno maggiori conoscenze tattiche. Ma la verità è che quasi sempre, nel contesto italiano, l’aspetto tattico diventa un lavoro codificato, poco formativo, che impedisce ai ragazzi di apprendere i fondamenti del gioco a favore di una speculazione legata al risultato immediato.

Saper attaccare, sapere cosa fare quando si ha la palla, è difficile da insegnare a un ragazzo. Molto più del saper difendere. Se non cambierà la nostra mentalità, se questo interruttore non girerà, resteremo sempre un passo indietro».

La federazione belga si è fatta promotrice di un progetto che ha rivoluzionato l’organizzazione delle squadre giovanili dei top club e che ha ottenuto risultati straordinari nella produzione di talenti tecnici. Trovi impensabile che la FIGC detti ai nostri club i piani di allenamento e si occupi della formazione dei loro tecnici? È proprio impossibile, allo stato attuale, che i club facciano sistema, scambiandosi informazioni almeno a livello giovanile, per il bene del movimento e per il proprio tornaconto?

«Il problema è sempre il come si vogliono fare le cose, e su questo punto gli addetti ai lavori hanno idee diverse tra loro. Se portiamo le squadre giovanili di Milan, Inter e Juventus a giocare tutte lo stesso calcio povero di contenuti formativi, a me non sta bene.

Sarebbe già un successo se la Federazione riuscisse ad imporsi sulle squadre, però poi vediamo qual è la proposta formativa. Se mi convincono che è più formativo per un ragazzo giocare un calcio speculativo, diretto, dove si va a lottare per la seconda palla, io sono disposto a cambiare la mia idea e il mio modello di lavoro. Si può vincere una partita di calcio giocando in maniera completamente differente, non c’è un gioco migliore di un altro. Però, se parliamo di formazione, un calcio posizionale, fatto di possesso, nel quale ci difendiamo in base a come attacchiamo, e non attacchiamo in base a come ci difendiamo, prepara meglio i ragazzi.

Certo, all’inizio perderai qualche partita in più. Ma perché non rischiare? Soprattutto in questo momento storico».

Hai giocato a livelli altissimi. Tanto per fare un esempio: il tuo Milan ha preso parte a 5 finali di Champions League, vincendone 3. Tu hai giocato tutti i minuti della storica finale di Atene, quella del 4-0 al Barcellona di Cruyff. Però nel complesso hai giocato relativamente poco: in 14 anni di Milan, hai avuto una media di 15,5 presenze a stagione. Come facevi a farti trovare pronto, con il livello di performance elevato che ti era richiesto, quando venivi chiamato in causa?

«È una domanda che mi sono posto spesso. Credo che la mia forza fosse l’idea di creare in allenamento un contesto simile a quello della gara. Se non giocavo molto, l’allenamento doveva essere la mia partita. Credo che la capacità di restare focalizzato sull’esercitazione, su quello che facevo, e vivere quello che sarebbe successo in partita anche in allenamento, mi ha permesso di non essere mai fuori forma, sotto ogni punto di vista: tecnico, fisico, ma anche nella capacità di essere dentro il gioco.

Ho avuto numerosi infortuni, lavoravo in maniera massacrante, che non consiglierei a nessuno dei miei ragazzi ora. Ma all’epoca il mio coinvolgimento e le mie conoscenze erano diverse da quelli di oggi».

Quanto è stato difficile confrontarsi quotidianamente con un totem come Franco Baresi? Un giocatore si allena pensando sempre e comunque di essere il migliore? Oppure accetta il proprio ruolo, anche se è un ruolo di secondo piano?

«Ho accettato il fatto di avere Baresi prima, e Costacurta poi, davanti a me nelle gerarchie del mister. Ma allo stesso tempo ero convinto di poter dimostrare all’allenatore, ogni giorno, che poteva avere una scelta diversa rispetto a quella consolidata. C’è stata qualche occasione in cui non ho condiviso le scelte dell’allenatore, ma non ho mai fatto rimostranze. Ho usato quelle occasioni per trovare nuove motivazioni dentro di me, per tornare a lavorare con più forza. Non mi sono abbattuto neanche quando Capello provò Rijkaard al centro della difesa prima della finale di Atene, nonostante mancassero Baresi e Costacurta (entrambi squalificati, ndr)».

Davide Nicola, parlando con L’Ultimo Uomo, ha detto di apprezzare, da allenatore, i giocatori che hanno una lunga militanza in un top club, capaci di farsi trovare pronti e di riciclarsi in ruoli diversi, all’occorrenza. Tu sentivi questo tipo di fiducia da parte del mister? Era sufficiente a darti motivazioni?

«Ho sempre pensato di avere la fiducia di Sacchi e di Capello, i due allenatori con i quali ho iniziato a giocare meno. Il mio retropensiero è sempre stato che l’impegno e la perseveranza erano valori importanti per il tecnico e riconosciuti.

Solo a Brescia mi è capitata una situazione diversa. Avevo lasciato il Milan per la Reggiana, che era già in cattive acque e che retrocesse alla fine della stagione. Avevo voglia di conquistare la massima serie di nuovo, sul campo, e disputare ancora una stagione in Serie A, prima di ritirarmi. Mazzone arrivò a Brescia dopo la promozione dalla B alla A conquistata da Sonetti, e mi comunicò che non aveva intenzione di puntare su di me. Per i primi due mesi della stagione non venni preso mai in considerazione, neppure per le amichevoli. Però continuai ad allenarmi e, in autunno, entrai al posto dell’infortunato Bonera (durante Brescia-Parma del 15 ottobre 2000, ndr). Il mister riconobbe il mio valore e alla fine giocai da titolare (26 presenze tra campionato e Coppa Italia, ndr). Dopo quell’inizio difficile, con Mazzone non ebbi mai un problema».

Foto di Grazia Neri / Stringer

Hai giocato fino all’età di 41 anni, con un’annata nella Serie B inglese con il Watford, allenato da Vialli, e altre due successive nella nostra C2 con la Pro Sesto. Cosa ti ha spinto a restare in attività così a lungo, soprattutto dopo aver calcato i palcoscenici più prestigiosi d’Europa?

«Andai al Watford per realizzare un mio sogno. Ho sempre amato il calcio inglese, l’atmosfera che c’è nei loro stadi. La cosa nacque in maniera piuttosto casuale: Nicola Caricola, nello staff di Vialli, mi chiamò per avere informazioni su Igli Tare, che aveva giocato con me a Brescia. Mi disse che stavano cercando anche un centrale, e scherzosamente mi proposi. Qualche giorno dopo Vialli mi chiamò per chiedere la mia disponibilità. È stato un anno deludente per i risultati sportivi (quattordicesimo posto su 24 squadre partecipanti, ndr), ma esaltante per tutto quello che era il contesto. Giocavo al sabato e al martedì, così che alla domenica avevo la possibilità di andare a vedere le squadre di Premier League.

Ritornai in Italia, convinto a smettere. Invece ricevetti più di qualche telefonata da Stefano Eranio, e alla fine mi feci convincere. Il primo mese alla Pro Sesto feci molta fatica, perché intanto ero rimasto fermo e recuperavo anche da una frattura alla clavicola. Però poi quando tornai in forma iniziai a divertirmi. Continuai per pura passione, e mi ritirai solo per questioni personali, non legate al calcio».

Valentino Rossi ha dichiarato di aver paura di smettere. Ha detto qualcosa di simile anche Francesco Totti prima del suo ritiro. Si è veramente pronti alla vita fuori dal campo? Come ti sei preparato al dopo e come hai vissuto i primi giorni senza calcio?

«Ho vissuto quei momenti normalmente. Già durante l’ultimo anno da giocatore avevo finito il corso da allenatore UEFA B, anche se la mia idea iniziale non era quella di fare subito l’allenatore. Anzi, avevo voglia di un’esperienza fuori dal mondo del calcio. Poi, già dopo sette, otto mesi, ho sentito forte il richiamo del campo. Ho dato la mia disponibilità ad Ariedo Braida, visto che in quel momento il Milan aveva bisogno di un assistente tecnico per la squadra Primavera. E ho iniziato così, a supporto di Franco Baresi a stagione in corso. Ho lavorato due anni come assistente al capo allenatore della Primavera, e altri due come responsabile della Primavera.

Quando Costacurta decise di andare ad allenare a Mantova, sono passato a lavorare in prima squadra nello staff di Carlo Ancelotti. Dopo un anno, Galliani mi ha proposto di diventare responsabile di tutto il settore giovanile».

E nel tuo immediato futuro cosa intravedi?

«Il 1 luglio finisce il mio contratto col Milan. Sono molto legato ai miei collaboratori e insieme a loro mi piacerebbe continuare in un altro contesto il lavoro metodologico che abbiamo sviluppato insieme al Milan. La mia crescita professionale è legata a doppio filo con la loro, insieme abbiamo maturato un’esperienza e sviluppato un’idea formativa il cui valore è testimoniato dagli obiettivi che abbiamo raggiunto».

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