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L'inseguimento individuale sta ridefinendo i limiti umani
27 nov 2019
Storia del record nell'inseguimento individuale, fino ad arrivare ai recenti trionfi di Filippo Ganna.
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Filippo Ganna è un ciclista italiano di 23 anni che pochi giorni fa ha stabilito il nuovo record del mondo nell’inseguimento individuale, quella specialità del ciclismo su pista in cui due ciclisti devono percorrere la stessa distanza nel minor tempo possibile. Lo scorso 4 novembre, nella tappa di Coppa del Mondo di Minsk, in Bielorussia, l’atleta azzurro ha migliorato per ben due volte il record del mondo nell’inseguimento individuale (4’05”423 fino a quel momento) abbassandolo a 4’04”252 in batteria prima di distruggerlo in finale: 4’02”647.

Nonostante la giovane età, Ganna sembra già un atleta navigato: sono ormai passati più di tre anni dal suo primo titolo mondiale e sono ormai più di tre anni che ne ammiriamo le imprese nei velodromi in giro per il mondo. Nel 2016, a vent’anni ancora da compiere, ha vinto un po’ a sorpresa l’oro nell’inseguimento individuale ai Mondiali su pista di Londra battendo il record italiano di oltre 3 secondi. Cancellando, vent’anni dopo, il tempo di Andrea Collinelli, che con 4’19”153 si qualificò per la finale dell’inseguimento individuale alle Olimpiadi di Atlanta 1996, dove poi vinse l’oro in 4’20”893.

Come potete vedere, ci sono voluti vent’anni per scendere di soli tre secondi dal 4’19”153, che all’epoca era anche record del mondo. Già un mese dopo ai Mondiali, il record fu comunque disintegrato da Chris Boardman con il suo 4’11”114. E in realtà c’è da dire che anche il record italiano di Filippo Ganna è durato meno di un abbaio di cane, perché un mese dopo averlo stabilito ai Mondiali su pista di Londra lo stesso Ganna si è migliorato ancora agli Europei Under-23, vinti in 4’14”165. Ganna ha poi vinto l’oro mondiale anche nel 2018 e nel 2019, completando una tripletta riuscita nell’inseguimento individuale a pochi altri atleti nella storia di questa specialità, come Sir Bradley Wiggins, per dirne uno.

Foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images.

Nonostante questo, la notizia del miglioramento del record del mondo da parte di Ganna sembra già una notizia come le altre. Forse dipende dal modo in cui ormai siamo abituati a processare le notizie, e nell’eterno presente in cui viviamo immersi, nell’epoca delle notizie flash che arrivano di colpo e scivolano via come l’acqua nel nostro intestino, anche il mondo del ciclismo su pista italiano non è immune a questo rapido scorrere del tempo. A maggior ragione, quindi, è importante capire la portata storica dell’impresa di Ganna, in una disciplina che ha vissuto nel corso dei decenni una continua corsa al record in una spirale che l’aveva portata a cercare con ogni mezzo di migliorare di volta in volta il limite umano. Fino a quello che sembrava essere effettivamente l’estremo confine possibile: il 4’11”114 di Chris Boardman.

A guardarlo oggi, quel record che ha significato per quasi quindici anni un traguardo irripetibile e imbattibile dell’inseguimento individuale, possiamo già comprendere una parte di ciò che ha fatto Filippo Ganna. Che non ha solo superato un record ma ha aperto anche la strada a nuovi orizzonti. Tanto che c’è già chi, adesso, ritiene possibile scendere sotto i 4 minuti netti.

La storia del record

L’inseguimento individuale è forse la specialità più bella e affascinante del ciclismo su pista, forse la metafora più nitida in ambito sportivo dell’uomo nella sua eterna rincorsa alla velocità. Eppure da qualche anno l’inseguimento individuale è fuori dalle discipline olimpiche, per via della poco comprensibile esclusione dal programma olimpico voluta dall’UCI nel 2008, che ha spostato gli investimenti delle varie federazioni nel settore della pista in altre specialità, come ad esempio il Keirin, disciplina nata in Giappone che vede i ciclisti inseguire una motocicletta che va a una velocità gradualmente sempre maggiore prima della volata finale nell’ultimo giro (e secondo un’inchiesta della BBC, infatti, dietro la decisione dell’UCI ci sarebbero dei rapporti poco chiari proprio con il Giappone).

L’inseguimento individuale consiste sostanzialmente di due uomini in bicicletta che si inseguono su una pista ovale. Nel corso degli anni si sono modificate alcune cose, come il numero dei giri da svolgere e quindi la lunghezza della prova, ma anche il processo di omologazione della lunghezza delle varie piste non è stato così rapido e scontato. Succede quindi che nei primi anni di vita di questa specialità non fosse nemmeno così importante tenere davvero il tempo dei ciclisti in gara, ma semplicemente constatare chi arrivasse primo.

Già negli anni Settanta, però, con i velodromi coperti che iniziano a prendere il sopravvento, l’avversario da inseguire non è più il ciclista dall’altra parte della pista ma la lancetta di un cronometro. Arrivano così i primi record indoor sui 4 chilometri (la lunghezza standard delle prove di inseguimento individuale), e la breve ed evanescente gloria del nostro Orfeo Pizzoferrato, capace di stabilire per ben due volte il record del mondo indoor: nel 1976 con 4'53"18 e nel 1978 con 4'47"219, sempre a Milano nell’ex Palazzo dello Sport, oggi Palazzo delle Scintille. Il suo secondo record reggerà fino al luglio 1979, quando lo svizzero Robert Dill-Bundi stamperà il suo 4’43”890, un anno prima di vincere l’oro olimpico di specialità nel 1980 a Mosca in 4’35”66.

Ma la vera rivoluzione arriva solo negli anni Novanta, quando i britannici scoprono che il ciclismo su pista assegna parecchie medaglie e ci si tuffano a capofitto. Sono proprio due britannici a contendersi il record del mondo in quegli anni: Chris Boardman e Graeme Obree.

Chris Boardman stabilì il nuovo record del mondo nel 1992 alle Olimpiadi di Barcellona, prima scendendo sotto il muro dei 4’30” in batteria (4’27”357) e poi migliorandosi ancora nei quarti di finale con 4’24”496.

Chris Boardman con la sua Lotus Superbike alle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Si notano in particolare l’assenza dei tubi, che normalmente formano il classico triangolo nella parte centrale, e l’accorpamento dei foderi posteriori in un solo blocco (i due tubi, uno obliquo e uno orizzontale, che nelle bici normali collegano la ruota posteriore al resto della bici). Il telaio quindi ha un corpo unico costituito da un singolo tubo che collega la parte anteriore con quella posteriore, con una corposa riduzione della resistenza aerodinamica (foto di David Cannon / Getty Images).

Boardman vinse quelle Olimpiadi in sella alla cosiddetta Lotus Superbike, una speciale bicicletta pensata appositamente per lui, che rompeva completamente con la tradizione. Per la prima volta nella storia del ciclismo, il connubio fra il ciclista e la sua bicicletta assunse un’importanza davvero fondamentale. Un’innovazione che aprì la strada a un rapido sviluppo tecnologico del mezzo, con un rapido susseguirsi di clamorosi miglioramenti cronometrici.

La Lotus di Boardman era una bici monotubo, quindi con una resistenza all’aria nettamente minore. «Queste biciclette senza tubi, con un blocco unico e considerando solamente la bicicletta, hanno il 30% in meno di resistenza all’aria (rispetto alle biciclette normali, ndr)», mi disse Bert Blocken durante la nostra ultima lunga conversazione sui principi dell’aerodinamica nel ciclismo. Però «ripetendo il test con il ciclista in sella scopri che questa percentuale scende al 6%», che può sembrare una percentuale insignificante ma è invece un margine di guadagno fondamentale. Sono numeri che ci danno un’idea di cosa c’è dietro a questi record: studi, test, anni di lavoro in galleria del vento per provare a limare ogni piccolo dettaglio.

Obree, invece, divenne professionista solo nel 1993, a 28 anni, dopo aver stabilito il nuovo record dell’ora. E proprio nel 1993 vinse l’oro ai Mondiali nell’inseguimento individuale battendo il record di Boardman, anch’egli con una speciale bicicletta da lui disegnata. In quei Mondiali di Hamar, in Norvegia, vinse con uno straordinario 4’20”894, di ben 4 secondi più veloce rispetto al tempo di Boardman alle Olimpiadi del 1992. Un record, quello di Obree, che tenne fino alle già citate Olimpiadi di Atlanta vinte da Andrea Collinelli con il nuovo record del mondo, poi ritoccato (o per meglio dire: demolito) di nuovo da Chris Boardman un mese dopo, nell’agosto del 1996 ai Mondiali di Manchester.

Anche Graeme Obree, come Chris Boardman, fu un grande innovatore. Prima di diventare un professionista, Obree aveva un negozio di biciclette e sapeva perfettamente come costruirne una. Così, utilizzando pezzi rimediati, costruì la sua speciale Old Faithful con cui battè nel luglio 1993 il record dell’ora di Francesco Moser. Nel costruire la Old Faithful, Obree studiò ogni singolo dettaglio per limare anche quel poco che gli sembrava superfluo. Ad esempio, ridusse lo spessore del movimento centrale (la parte che collega la corona e i pedali con il telaio) e per farlo utilizzò i cuscinetti di una lavatrice. L’intuizione gli venne pensando che il cestello della lavatrice compie circa 1200 rotazioni al minuto. Quindi smontò la lavatrice di casa e prese i cuscinetti del cestello da montare nel movimento centrale. Obree modificò anche la forcella anteriore rendendola monobraccio (la forcella è la parte della bici a forma di Y rovesciata che scendendo dal manubrio “tiene” la ruota) e fissò con delle viti le scarpe direttamente sui pedali per evitare anche il minimo scivolamento del piede.

Graeme Obree inventò anche una nuova posizione in bicicletta, oggi nota come The Tuck, che consiste nel tenere la schiena completamente piegata in avanti sul manubrio, con le braccia strette quasi accartocciate sotto al petto. Secondo alcuni test, il connubio Obree-Old Faithful aveva una riduzione della resistenza all’aria del 15%. Fu anche grazie a questa sua ossessione per i dettagli che riuscì prima a stabilire il nuovo record dell’ora e poi a battere il record nell’inseguimento individuale.

La Old Faithful, con la “Tuck Position” di Obree, riduce di oltre il 15% la resistenza aerodinamica rispetto alle bici di allora (0.172 vs 0.204 di CdA) ed è comunque migliore anche delle attuali bici (0.188).

In questo modo, in meno di dieci anni il record del mondo nell’inseguimento individuale era stato abbassato di circa venti secondi, eroso di volta in volta da questa straordinaria corsa agli armamenti fra Obree e Boardman e tutti gli altri specialisti che spingevano sempre più in là l’azzardo tecnologico, piegando il concetto stesso di bicicletta alle loro esigenze aerodinamiche. Tutto solo per spostare il limite umano sui 4 chilometri sempre un po’ più in là.

Una sfida sempre più tecnologica e sempre meno fisica che fece riflettere l’Unione Ciclistica Internazionale sull’opportunità di vietare le nuove speciali biciclette che avevano ormai preso piede nel ciclismo su pista. È anche e soprattutto per l’introduzione di queste nuove regole più stringenti che il record di Boardman del 1996 (4’11”114) tenne per così tanto tempo. Per 14 anni e mezzo, per la precisione.

Il tempo di Boardman sembrava all’epoca talmente irraggiungibile che si era cominciato a stilare una nuova lista di record “umani”, fatti cioè senza bici speciali, e il 4’14”427 fatto segnare da Bobridge ai Campionati Australiani del 2010 aveva il primato in questa speciale classifica.

Ancora una volta, però, avevamo sottovalutato lo sviluppo tecnologico, pur se nei limiti dei regolamenti UCI, e i miglioramenti nelle tecniche di allenamento, nello studio della posizione in galleria del vento. Quando Bobridge, il 2 febbraio 2011 nel Dunc Gray Velodrome di Sydney realizza l’impensabile, scendendo a 4’10”534, fa fatica a rendersi conto di cosa fosse appena successo. «Pensavo che il cronometro si fosse fermato un giro prima, quindi l’ho guardato un po’ di volte ma poi ho visto tutti intorno a me impazziti. A quel punto sono stato sopraffatto dalle emozioni», ha poi dichiarato l’australiano.

Pochi minuti prima, Rohan Dennis aveva battuto il record “umano” di Bobridge in qualifica diventando il primo “umano” a scendere sotto i 4’14” (4’13”399). «Quando ho visto Rohan in batteria prima di me tirar fuori un 4’13”, ero seduto sulla mia sedia totalmente terrorizzato», aveva detto Bobridge, aggiungendo però che «sono un ciclista piuttosto competitivo e ovviamente non mi piace quando gli altri si prendono i miei record». Detto, fatto: 4’10”534.

A quel punto sembrava potesse partire una nuova era di record strabilianti in successione, magari proprio con i due australiani Bobridge e Dennis a contendersi il record come Obree e Boardman negli anni Novanta. Invece, forse complice anche la rimozione dell’inseguimento individuale dai Giochi Olimpici, il tempo si è fermato a quel 2 febbraio 2011, nel velodromo di Sydney. E chi si aspettava negli anni a venire un dominio di Bobridge nella specialità rimase deluso. Bobridge vincerà solo una medaglia d’oro mondiale, proprio nel 2011, prima dell’inizio del dominio di Michael Hepburn, che farà doppietta nel 2012 e nel 2013.

Il record di Bobridge ha quindi tenuto per molti anni e, così come avvenuto con Boardman, sembrava irraggiungibile. Per riuscire ad abbatterlo si è dovuto aspettare un ciclista che con la pista aveva ben poco a che fare e che forse proprio per questo non sapeva che il record di Bobridge era inarrivabile.

Ashton Lambie, per gli amici Lambs, è un ciclista del Nebraska classe 1990. Ha dei grandi baffi in stile Vittorio Emanuele II e dedica le sue giornate ad allenarsi nel Gravel, una disciplina prettamente statunitense a metà fra la mountain bike e il ciclocross. Poi, verso la fine del 2016, ha scoperto il ciclismo su pista ed è stato convocato nella nazionale USA per i Giochi Panamericani 2018 ad Aguascalientes, in Messico. Ed è proprio lì, il 31 agosto, che si compie l’impensabile.

Ashton Lambie nel marzo del 2019 ai Mondiali in Polonia (foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images).

Lambie si presenta in batteria come un perfetto sconosciuto, ha già 28 anni e pochissima esperienza su pista. «Al liceo facevo la corsa campestre ma ero un pessimo podista e odiavo correre», racconta Lambie in una lunga intervista pochi giorni dopo la fine dei Giochi Panamericani del 2018. «Mio padre aveva una bicicletta appesa al muro, una vecchia Trek da strada, così cominciai con quella e feci la mia prima century ride (una corsa di cento miglia, circa 160 chilometri, nda)» e iniziò così la sua avventura nel ciclismo ma senza grandi successi. Quindi, racconta, «ho iniziato a pensare che magari c’era qualcos’altro di più adatto a me, ed è così che ho iniziato con la pista».

Il 31 agosto 2018, ad Aguascalientes in Messico, Ashton Lambie frantuma il muro dei 4’10” e scende fino a 4’07”251. Lo fa quasi sembrare una cosa da niente e forse in quel momento neanche lui si rende bene conto della portata di quel tempo. In fondo per lui «l’inseguimento individuale è straziante da vedere. Anche quando riguardo i miei video devo lottare con me stesso per restare sveglio. È tipo “Ecco, hai fatto un buon giro. Okay, e… ecco un altro giro”».

E così arriviamo a Filippo Ganna e al suo 4’07”456. Per farvi capire quanto velocemente le cose stanno cambiando nell’inseguimento individuale, vi basti pensare che in quello stesso Mondiale in cui Ganna si avvicina prepotentemente al nuovo record del mondo, Ashton Lambie arriva quinto fermandosi a 4’12”886. Un tempo incredibile se paragonato alle prestazioni del recente passato e che solo un anno fa sarebbe valso un sicuro oro mondiale. Adesso, invece, non vale nemmeno una medaglia.

Lambie, però, non si arrende e il 6 settembre di quest’anno migliora il suo stesso record a 4’05”423 sempre ai Giochi Panamericani, stavolta in Bolivia, a Cochabamba. Ma anche questo suo nuovo record dura meno di un paio di mesi, fino allo scorso 3 novembre, quando Ganna è riuscito a scendere fino a 4’02”647 nella finale della prova di Coppa del Mondo di Minsk. Il record di Bobridge sembra ormai lontanissimo, addirittura sopra i 4’10”. Quello di Boardman è solo uno sbiadito ricordo di un’epoca lontana.

Oltre il limite

Com’è possibile che un record durato per oltre 14 anni sia migliorato così velocemente nell’arco di pochi mesi? È davvero solo questione di talento o un problema mentale, come pensiamo spesso troppo semplicisticamente? Esiste un limite insuperabile nell’inseguimento individuale?

Che ci piaccia o no, la risposta a queste domande risiede in primo luogo nell’evoluzione dello sviluppo tecnologico, sia dal punto di vista dei materiali che da un punto di vista aerodinamico. Non parliamo solo ed esclusivamente di com’è fatta una bicicletta ma anche un cambio di prospettiva nel lavoro sul ciclista e sul binomio ciclista-bicicletta. Ormai, ad esempio, è prassi allenarsi in gallerie del vento con strumentazioni sempre migliori che consentono rilevazioni sempre più precise e che quindi limano poco a poco tutto quel che possono. È un lavoro lento e delicato per togliere di volta in volta quell’1 o 2% di resistenza all’aria e alla fine, sommando tutti i piccoli accorgimenti, si arriva a miglioramenti sensibili nei tempi in gara.

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Quando l’UCI ha vietato le biciclette speciali ha dato un colpo di spugna sugli evidenti progressi che erano stati fatti negli ultimi tempi, riportando in un certo senso l’orologio della storia indietro di quasi vent’anni. Bisognava quindi ripartire praticamente da zero, mantenendosi entro determinati parametri e capire come lavorare sul miglioramento dei materiali muovendosi entro i nuovi limiti stabiliti dal regolamento. È principalmente per questo che il record di Boardman ha tenuto per così tanto.

A quel punto, quindi, si è cominciato a lavorare su ogni elemento nel dettaglio, dal tessuto dei vestiti alla forma del casco fino alla posizione in sella. È un processo lungo che richiede molto tempo e molti soldi. Ad esempio: uno studio in galleria del vento può richiedere anche più di due anni e comprende numerosi fattori invisibili alle spalle che gli consentono di funzionare, dallo studio dei modelli al miglioramento delle simulazioni CFD (Computational Fluid Dynamics, ovvero delle simulazioni di problemi di fluidodinamica su computer). E sulla quantità di investimenti non può non aver inciso la decisione dell’UCI di escludere l’inseguimento individuale dalle discipline olimpiche.

In questo contesto viene da chiedersi quanto conti effettivamente l’atleta, il soggetto al centro delle nostre narrazioni e delle fantasie dei tifosi. In uno sport così influenzato dallo sviluppo tecnologico è davvero importante chi è in sella alla bicicletta? Non è una domanda retorica, perché in un contesto in cui tutti possono limare i propri tempi al millesimo forse a fare la differenza sono veramente “le gambe”, come direbbero i vecchi cultori di questo sport. Ovvero, fuori dalla metafora: la dedizione, la voglia di soffrire e soprattutto il talento puro.

Quello a Filippo Ganna di certo non manca. Chissà, magari sarà lui ad abbattere il muro dei 4 minuti. Un traguardo che fino a pochi anni fa era del tutto inimmaginabile ma che oggi, in fondo, non sembra poi così lontano. Perché forse, semplicemente, in questo sport l’inimmaginabile non esiste.

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