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Quando corri non devi pensare a nulla: intervista a Filippo Tortu
24 set 2019
Abbiamo parlato con l’essere umano più veloce che sia mai nato in Italia.
(articolo)
13 min
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I paesaggi della valle del Lambro, nella zona di Carate Brianza, si ammirano quasi sempre da dietro a un guard rail, sull’asfalto delle strade che salgono e scendono di continuo, là dove la smania industriosa tipicamente brianzola di raggiungere i grandi centri cittadini, e quindi il lavoro, ha avuto la meglio sulla valorizzazione del territorio. Chi vi si voglia inoltrare a piedi è costretto per lunghi tratti a camminare sul ciglio della strada, al fianco delle macchine.

Ma Tommaso, con sua madre Annalisa, corre al centro della carreggiata, sull’ultima salita che porta alla stazione semideserta di Carate-Calò. «Alleniamo l’esplosività nella partenza con i 30 metri in salita, poi allunghiamo a 60, una delle discipline di Tommaso», mi dice la madre. Tommaso, 12 anni, è campione regionale di Tetrathlon, la prova multipla che oltre ai 60m prevede salto in lungo, lancio del vortex e 600m. Deve farsi trovare pronto per le gare nazionali di fine settembre, lo stesso periodo in cui si terranno i Mondiali di atletica a Doha. Tommaso ha un fisico già strutturato, per essere così piccolo: «facevo ginnastica artistica, ho lasciato per fare solo tetrathlon», spiega brevemente. È uno dei quasi 18mila abitanti di Carate Brianza, dove stare all’aria aperta e praticare seriamente molti sport sembra far parte dello scorrere naturale delle cose. La strada asfaltata in mezzo al verde sale fino a 300 metri di altitudine. Poco prima, incontra la frazione di Costa Lambro: 1412 abitanti, dice Wikipedia. Uno di questi è l’essere umano più veloce che sia mai nato in Italia, Filippo Tortu.

«Ho sempre vissuto all’aria aperta e penso che questo sia stato il primo passaggio fondamentale per costruire, all’epoca in maniera del tutto non programmata, un’intelligenza motoria che adesso mi sta molto servendo», mi dice Tortu, molto sicuro. Solo un caso, allora, i natali datigli dalla città di Milano. Da piccolo correva sulle stesse strade di Tommaso. «Verso i 13 anni mi sono concentrato solo sull’atletica».

L’anti-Agassi

«Ho iniziato a fare atletica perché lo facevano mio padre e mio fratello. Diciamo che non sono stato condizionato da nessuno dei due nelle mie scelte». Salvino Tortu, il padre ma anche l’allenatore, è stato un centista da 10”6. Giacomo, primogenito della famiglia, ha un miglior tempo di 21”05 nei 200. «Solo una cosa era obbligatoria in casa: fare uno sport. Ognuno era libero di scegliere quale». In realtà il bambino Filippo Tortu ne ha scelti molti, oltre a quello che lo rende l’eccellenza nazionale della disciplina: «Basket per 7 anni, ma anche nuoto, sci e naturalmente, essendo appassionatissimo, giocavo a calcio tutte le settimane due o tre volte. Ora non posso più fare niente di tutto ciò», puntualizza ironico, ma anche un po’ dispiaciuto.

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Jacopo e Sbrillo @tortujack @Nike #justdoit

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Racconta la sua primissima competizione in pista, a 4 anni, sempre identica: «Ero andato a una gara di mio fratello, più grande di me di 5 anni». La madre si era accorta che potevano correre anche i più piccoli e lo aveva buttato nella mischia. Da qualche parte sul web si legge che fu un trionfo sui coetanei già all’epoca, ma lui tiene a specificare: «Non ricordo neanche come sia andata». A 6 anni comincia regolarmente. Praticare diversi sport, praticarli di continuo, lo rende nel tempo sempre più cosciente di tutti i movimenti del corpo. La chiave secondo Tortu «per apprendere nuovi gesti tecnici».

Quando chiedo quanto sia difficile per un bambino di 13 anni rendersi conto delle proprie potenzialità al punto da decidere di concentrarsi su un solo sport, ancora minimizza, o meglio, normalizza il suo percorso: «A 13 anni, per carità, diciamo che ho provato a fare solo quello, ma non è stata una decisione mirata a raggiungere obiettivi già di alto livello. Semplicemente mi divertivo molto, anche complice il fatto che vincevo spesso in competizioni provinciali. Verso i 15 anni ho vinto il mio primo titolo italiano e da lì è iniziato tutto», spiega, sottolineando a più riprese: «Un processo molto naturale, nulla di programmato».

Non c’è mai stato qualcuno che lo abbia indicato da lontano in mezzo a tanti, qualcuno che lo abbia preso da una parte per dirgli “hai talento, non devi assolutamente sprecarlo”. Filippo Tortu quasi si rassicura nella convinzione di non essere un predestinato, nella tranquillità che sia la sua fatica a potergli dare i risultati a cui aspira: «Non ho mai vissuto queste cose da film. Mi vedo e sono cresciuto come un ragazzo normale».

C’è davvero qualcosa di antieroico, anche di ordinario, nella straordinarietà del primo italiano di sempre a correre i 100 metri sotto i 10 secondi (9”99, il 22 giugno 2018 a Madrid). «Per me non è un record, è semplicemente il mio miglior tempo», ha detto qualche mese dopo. Anche senza volerne forzare la narrazione epica, è più facile per chi osserva dall’esterno accettare una vita e un talento del tutto fuori dal comune, piuttosto che una quotidianità così simile alla nostra e un talento – per quanto unico – possibile soltanto grazie a costanza e lavoro.

Come si addice meglio al suo pragmatismo, la svolta della sua carriera – racconta – rimane una sola, quella professionalizzante: «A 17 anni quando sono entrato nelle fiamme gialle. Ho avuto l’opportunità di migliorare in maniera esponenziale, il mio hobby è diventato il mio lavoro». Un privilegio che Filippo Tortu percepisce profondamente: «Alla base di ogni buon risultato lavorativo, che possa essere sportivo o di qualsiasi altro ambito, ci dev’essere passione e piacere», mi dice, e gli faccio notare come questo aspetto ritorni molto spesso nei suoi colloqui pubblici: la normalità e la tranquillità come mezzi. Quasi fosse un metodo per fare bene le cose, insomma («ti dico, ho sempre cercato di viverla anche così»). Nel 2017, circa un anno e mezzo prima del record che lo ha consegnato alla notorietà, in un’intervista gli veniva chiesto di dare un consiglio a chi stesse muovendo i primi passi nell’atletica. Rispondeva: «Mio padre mi ha sempre lasciato libero nelle mie scelte, scegliete voi ciò che vi fa sentire realizzati», un suggerimento valido per chiunque, quasi un ammonimento per chi entra nel mondo dell’atletica carico di pressioni e aspettative.

«Trovo pace ogni giorno», rispondeva Andre Agassi a chi nel 2009 gli chiedeva se fosse finalmente felice, tre anni dopo il termine di una carriera tennistica leggendaria, ma impostagli dal padre e da lui mai davvero voluta. I temi sono simili: la libertà, il rapporto con il genitore e con lo sport, la felicità personale. Le risposte, opposte.

«Sei l’anti-Agassi?» suggerisco senza pensarci troppo, ma non senza un pizzico di malizia. Tortu ride e abbozza un sì poco convinto. Ci ho provato, non si lascia trascinare.

Studente-lavoratore

La prossima gara di Filippo Tortu saranno già i Mondiali di Doha, che cominciano il 27 settembre: «Non ci arrivo con la preparazione che avevamo programmato e che speravo di avere». Sta recuperando dall’infortunio che si è procurato a Stanford il 30 giugno, negli ultimi 100 metri che ha corso alla tappa californiana della Diamond League. Un settimo posto da 10”21, difeso dignitosamente contro i migliori velocisti in circolazione. Tra questi lo statunitense Justin Gatlin, secondo posto in 9”87, 37 anni. «Mediamente il picco lo raggiungi a 26 anni e a 30 cominci a sentire le fatiche. Poi c’è chi riesce a portare il suo massimo livello fino a 40, come lui», spiega Tortu, che nello stesso tempo vede già in maniera molto chiara il proprio percorso: «Dovessi arrivare anche io a 35 anni riuscendo ad andare forte, non penso che smetterei. Però sono anche consapevole che è una carriera che può durare, più o meno, fino ai 30 anni. Quindi per i prossimi 10».

Così Filippo Tortu si è iscritto alla facoltà di Economia alla Luiss, a Roma: «Ho sempre voluto continuare con gli studi, perché se si arriva a 30 anni senza avere nessun tipo di competenze se non quelle che riguardano la pista di atletica, poi può essere complicato da un punto di vista lavorativo». In effetti, per uno che considera fondamentale il «divertimento nel fare quello che si fa», anche il problema di potersi stufare si pone eccome («E l’economia mi ha sempre interessato, fin dal liceo»). Vive a Milano, quindi scende nella capitale solo per fare gli esami. Come molti altri, Tortu è giustificato a non frequentare le lezioni: è uno studente-lavoratore. Chiedo se riesca a conciliare gli allenamenti con lo studio: «Farcela, ce la si fa. C’è il tempo. Anche perché penso a chi magari si paga da solo gli studi lavorando, persone che naturalmente avranno giornate più impegnate delle mie».

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È stato un piacere incontrarti @tortufil! 🏃👍

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Spesso si guarda con stupore, quasi ammirazione, a uno sportivo che porta avanti gli studi e che si laurea. Ma gli sforzi di Tortu non sono diversi da quelli di altri, e quando è lui a farlo notare con naturalezza e disinvoltura, questa verità appare tanto lampante da sembrare ovvia. «La parola sacrificio non mi fa impazzire, nel senso che uno è consapevole che per raggiungere determinati risultati deve fare delle scelte», dice. E ribadisce: «scelte libere che uno può anche non fare». Parla di «giusto compromesso per raggiungere un obiettivo», poi spiega le rinunce: «Non vado a ballare, non bevo, non esco, mangio le cose giuste, mi alleno tutti i giorni. Lo faccio con piacere, non mi pesa». Alla fine conclude: «Sono cose che fanno tutte le persone al mondo. O meglio: quelle che si pongono degli obiettivi».

In questa chiave interpreto quel che mi dice a proposito di finire l’università: «io, comunque, ce l’ho come obiettivo». Come a dire: quindi ce la faccio. Allora, cosa farebbe Filippo Tortu nella vita se avesse investito il suo impegno altrove che nell’atletica? Risposta semplice: «Non è che non mi abbia mai sfiorato l’idea di non farcela, ma ero talmente determinato a farlo che non ho mai. Pensato. Ad altro». Scandisce bene queste ultime quattro parole con delle pause molto marcate tra una e l’altra.

Un ragazzo tranquillo, molto tranquillo

Giochi olimpici di Rio 2016, finale di salto con l’asta. Il campione in carica Renaud Lavillenie – francese che detiene anche un inarrivabile record del mondo, 6.16 metri – fissa l’asticella del primato a 5.98. A Londra, quattro anni prima, aveva trionfato con un centimetro in meno. L’atleta di casa Thiago Braz da Silva ha 22 anni, in carriera non è mai andato oltre i 5.93 metri, ma prova il salto da 6.03. Fallisce il primo tentativo, riesce al secondo. È oro olimpico (e attuale record dei Giochi).

Una volta, un po’ insolitamente, Tortu ha dichiarato di ispirarsi all’astista brasiliano: «Mi ha colpito la sua storia, la sua infanzia difficile, il fatto che si sia presentato da sfavorito [a Rio] e soprattutto l’umiltà». Su youtube si trova un colloquio di Thiago Braz, successivo alla medaglia, con un membro della IAAF (federazione internazionale di atletica). Sembra un ragazzo molto timido, nel tempo libero gli piace andare al cinema e montare video (sul suo instagram, per esempio, potete trovare quello sulla serata Monopoly con gli amici). La notorietà gli fa piacere, ma è molto evidente che non sia abituato.

Non lo era neanche Tortu prima dei 9”99. E forse per questo si rivede in Braz. Nel suo caso, però, sembra quasi che abbia fatto un corso per rapportarsi coi media e con le telecamere. Glielo faccio notare. Sorride un po’: «Il fatto di essere logorroico, come avrai sicuramente notato, mi ha aiutato. E poi, un’altra cosa, io sono molto tranquillo». Insiste: «Molto, molto tranquillo. Difficilmente le cose mi agitano o mi mettono ansia. Sul blocco devi averne il meno possibile». In questo modo l’attenzione dei media non diventa mai un peso, perché Tortu è distaccato, concentrato sul suo obiettivo: «Non sento pressioni, o meglio responsabilità, se non quelle che mi metto io».

Agli Europei di Berlino di agosto 2018, Tortu arriva quinto in 10”08: «non ho grandi delusioni, ma lì dovevo prender la medaglia», mi dice. Nell’intervista a caldo si presenta piuttosto abbattuto e, mentre sta raccontando la gara, tossisce. Il giornalista Rai allora prova a fornirgli un alibi: «Anche questa tosse, in questi giorni…». «Sì ma la tosse non c’entra un cazzo», lo interrompe Tortu. «Non volevo che sembrasse che volessi usarla come scusa. Tutta la settimana, chiunque incontrassi mi diceva “urca, come farai a correre con questa tosse?”. Conosco il mio corpo, ho provato a correre anche con 39 di febbre», spiega con sicurezza estrema. Ma si rammarica subito e aggiunge: «Sono andato appena dopo a scusarmi col giornalista». Anche qui Tortu se la prendeva con sé stesso: «dovevo semplicemente correre più veloce», diceva.

Quella di underdog sarà sempre la sua condizione sui blocchi di partenza di un mondiale (come a Doha quest’anno) o di un’olimpiade (nel 2020 a Tokyo). «Non ho mai pensato al rapporto con gli avversari. Più pensi durante la gara, peggio è», dice Filippo Tortu. Se non avesse fatto esattamente così, se avesse pensato all’inarrivabilità del suo avversario, Thiago Braz da Silva non sarebbe diventato un eroe nazionale.

Oggettività

Di un calciatore particolarmente vocato al proprio sport, si dice che “dà del tu al pallone”. Di Roger Federer, quando in campo fa esattamente ciò che pensa, che “è un tutt’uno con la racchetta”. Se Kevin Durant è girato di spalle rispetto all’area, con un uomo in marcatura, e girandosi riesce comunque a segnare, “sente il canestro”. Per lo sprinter, nulla si interpone alla realizzazione dello scopo. Per Filippo Tortu, il corpo è lo strumento: «È quello che mi piace soprattutto dell’atletica: dipende tutto da te. Ci sono dei tempi, ci sono delle misure, ci sono centesimi di secondo che non lasciano libera interpretazione».

Se Filippo cresce di un centimetro, spiegava in un’intervista il padre-allenatore Salvino, è necessario «reimpostare il corretto assetto di corsa». Il suo corpo è una macchina che va affinata alla perfezione, e Tortu dà grandi meriti alle idee del genitore: «Lui si concentra molto di più sulla qualità e sulla tecnica di corsa, che sulla quantità. Ti alleni meno e meglio». Una scelta impopolare: «Ci siamo un po’ scostati dal metodo quasi totalmente diffuso in Italia, che si basa soprattutto sulla resistenza, su lavori molto impegnativi in pista». Allo stesso tempo, una delle migliori qualità che Salvino Tortu riconosce al figlio è quella di avere «sempre il controllo sulla corsa».

Ovviamente, c’è la parte del talento e della propensione naturale. Filippo Tortu è uno sprinter più forte nella fase decontratta, nella progressione finale. Con il lavoro sulla tecnica in curva, è potenzialmente più forte sui 200, nonostante fino ad ora i risultati più evidenti siano arrivati sul rettilineo. Ma su questo punto lui e il padre sono sempre rimasti molto prudenti: «I 200 sono una gara che necessita molta esperienza, devi correrla molte volte, Voglio arrivarci più in là», mi dice il velocista brianzolo. Quando hanno potuto, i Tortu hanno sempre evitato il mezzo giro, forse per non alzare troppo le aspettative, o per continuare a lavorare in allenamento: «Quest’anno sicuramente corro ancora i 100, poi si vedrà nei prossimi anni. A Tokyo forse ci provo, se ci arrivo, ma con aspettative basse».

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Un post condiviso da Filippo Tortu (@tortufil) in data: 12 Set 2018 alle ore 1:20 PDT

Non c’è altro modo che lavorare, quindi. A Filippo Tortu del suo sport piace l’oggettività. Un’azione che produce una reazione. Dice: «Quando corri non devi pensare a nulla. È talmente veloce come sforzo, come gara, che non hai veramente tempo di cominciare un pensiero». Quel pensiero soffocato è l’ultima occasione di negare un barlume di soggettività alla sua disciplina. Cosa rimane? Una responsabilità enorme.

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