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Cosa significa correre "correttamente" nel calcio?
19 ott 2022
La corsa del calcio è troppo diversa da quella dell'atletica.
(articolo)
7 min
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Foto di Icon Sport/Sipa USA
(copertina) Foto di Icon Sport/Sipa USA
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​​Filippo Tortu, ospite di Sky Sport, ha detto che nel calcio bisognerebbe curare la “tecnica di corsa” per “correre meglio” e guadagnarne così in velocità e prevenzione infortuni. Un discorso interessante, circolato parecchio sui social network. Viene mostrato uno sprint di Mbappé, che col suo stile di corsa peculiare rievoca alcuni movimenti comuni all’atletica sport di Tortu - come le ginocchia e il bacino alti - e il discorso prosegue vertendo sull’importanza di correre “correttamente” e con una puntualizzazione sulla necessità per i calciatori e le calciatrici di lavorare in maniera individuale per sviluppare questo “fondamentale”. Un aspetto che, secondo Tortu, viene completamente trascurato. Qui c'è il video, se volete farvi un'idea.

Ecco, forse la parte migliore del ragionamento di Tortu potrebbe essere la riflessione sulla necessità di personalizzare alcuni allenamenti individuali. Le attività complementari possono essere cucite su ogni singolo, in base alle sue esigenze biomeccaniche e psicofisiche. Un lavoro che, insomma, non è adatto per essere svolto collettivamente. Ma è tutto il resto del discorso a stonare con ciò che sappiamo oggi a livello metodologico: cosa significa “correre correttamente”?

Tortu fa riferimento a una serie di accorgimenti specifici riguardo la postura, la cura della respirazione e degli appoggi, la cadenza del passo, la distribuzione del carico su più distretti muscolari e altre linee guida che, in genere, possono essere di grande aiuto per migliorare la qualità delle performance di chi corre in maniera lineare, limitando il rischio di infortuni, passando sempre però per un adattamento individuale, un’interpretazione personale.

Tortu, così come diverse persone, suppone che curando questi aspetti sia possibile creare una “tecnica di base” che funga da sostegno e sulla quale implementare poi le restanti abilità specifiche del calcio, insomma una sorta di atletizzazione generica come sfondo alle competenze calcistiche, che verrebbero poi “montate” sulla struttura supportata da questa sorta di capacità coordinativa generale.

Ci sono però alcuni problemi in questo ragionamento: la fallacia del concetto di “fondamentale”, la trasferibilità, la funzionalità.

Partiamo dall’inizio, cioè dalla differenza sostanziale tra il tipo di corsa caratteristico dello sport di Tortu e quella del calcio. Tortu, colleghi e colleghe, corrono esclusivamente per correre, per raggiungere un traguardo prima della competizione. Si tratta di sport closed-skill, cioè attività in cui l’ambiente di performance è disegnato per ricreare condizioni di svolgimento perfettamente identiche. In queste attività il gesto tecnico è il fine e non il mezzo; chi lo compie può esercitare un tipo di controllo cognitivo elaborato con l’obiettivo di conformare l’esecuzione a uno standard estetico e pratico ben preciso. Certo, ci saranno sempre differenze di interpretazione, delle sfumature motorie, e le condizioni di partenza non saranno mai perfettamente identiche. Però è la natura stessa di questo tipo di sport a richiamare un approccio standardizzato.

Nel calcio, così come in tutti gli sport di situazione, open-skill, non si può inseguire il concetto di riproduzione della gestualità tecnica perfetta, poiché le attività sono svolte in un ambiente sempre cangiante e pieno di variabili d’azione: la presenza di compagni, avversari, la necessità di utilizzo di un mezzo (pallone), le diverse combinazioni tattico-strategiche, ecc. Questa considerazione è valida sia per i “gesti tecnici” classicamente intesi nel mondo del calcio, come i passaggi o i tiri, sia per la corsa stessa.

Qui cade il concetto di “fondamentale”, di “base”: basti pensare a quanti tipi di corsa debba affrontare un calciatore in maniera completamente casuale durante la partita. Anche volendo prendere solo quelli che non coinvolgono direttamente l’uso del pallone: sprint brevi, lunghi, medi, cambi di senso e di direzione, con interferenze spaziali e di contatto, ad angolazioni variabili, su superfici non uniformi, con umidità e attrito differenti; correre dopo un atterraggio sui piedi (magari su uno solo) o rialzandosi da terra, cambiare passo accelerando o rallentando, modificare il tipo di appoggio al suolo in base al comportamento ottimale, correre per infilarsi tra due avversari entrandoci in contatto o correre in uno spazio aperto, e così via.

Anche prendendo lo stesso macroscopico gesto due volte, per esempio uno scatto breve, questo non sarà mai due volte identico, data la situazione caotica di partenza e il contesto in cui si riprodurrà. Una volta magari sarà necessario sprintare tenendo un braccio disteso per un certo tratto, oppure per arrivare in modo da contrastare, oppure per arrivare caricando un tiro…

La natura aciclica, randomica, del calcio non consente di programmare il singolo gesto da compiere. Né di identificarne il modello ideale da riprodurre, né di prevedere in quale ordine e in quale condizione verranno svolti questi atti motori. Ne consegue che anche il controllo cognitivo sarà differente: non ci sarà il tempo per “preparare” il controllo del corpo. Bisognerà invece affidarsi al pensiero autonomo, alla connessione corpo-mente, a tutti quei dispositivi neurali e neuromuscolari che non coinvolgono le funzioni cerebrali della categoria che Daniel Kahneman nel suo Pensieri lenti e veloci chiama, in maniera poco descrittiva, “Sistema 2”. Un sistema razionale, fortemente cognitivo, ad alto dispendio energetico, contrapposto al “Sistema 1”, inconscio, rapido e low-cost. Due sistemi che si intrecciano tra loro aiutandoci ad affrontare le varie situazioni della vita. Chi gioca a calcio agisce in un regime variabile, dove gli stimoli cognitivi si mischiano in un calderone di consapevolezza e inconsapevolezza.

Foto di Zac Goodwin / IPA.

Quanto senso avrebbe, alla luce di tutto ciò, far trascorrere ore ed ore di allenamento supplementare per curare un tipo di controllo motorio tipico di un contesto di azione lineare, controllato, ripetitivo, col fine di inserirlo in un contesto non lineare, non ripetitivo, dalle implicazioni cognitive miste? Si potrebbe persino rischiare di “sporcare” i processi naturali e inconsci di adattamento alle situazioni dinamiche che fanno la fortuna di chi gioca, con delle sovrastrutture complicate che richiederebbero una rigida applicazione cognitiva sequenziale. Ne risentirebbe il naturale flow dei movimenti di adattamento.

Se il problema dell’azione inconsapevole in sé potrebbe essere superato dal fatto che con l’allenamento ci si può abituare a organizzare il movimento in maniera naturale e senza controllo cognitivo, rimane insormontabile l’irriproducibilità della realtà del gioco, e quindi della combinazione e della qualità dei tipi di sforzi richiesti. Per questo l’allenamento suggerito da Tortu diventa un’utopia.

Rimane infine il concetto di funzionalità, non solo intesa come «utilità di un gesto o di una attività specificamente riferiti a un dato contesto», ma soprattutto come (auto)organizzazione personale per il raggiungimento di uno scopo. Mbappé corre più veloce degli altri perché “usa” quelle posture, o assume certe forme esteriori come conseguenza del suo focus e della sua predisposizione, oltre alle sue caratteristiche fisiche? E poi, si sarà davvero mai allenato con uno specialista della tecnica della corsa atletica, o avrà sviluppato questa sua qualità intorno all’essenziale esercizio del gioco del calcio? Tutti i calciatori più rapidi corrono allo stesso modo? Tutti i calciatori bravi a tirare le punizioni le calciano allo stesso modo?

Come spesso accade, nel dibattito ci sono ancora le scorie di una visione meccanicistica che rischiano di ridurre la natura complessa del calcio, confondendoci le idee. L’idea che la preparazione atletica possa essere scorporata dal gioco è ormai datata. Prima era più diffusa la pratica di prendere professionisti provenienti dall’atletica per formare questa “base”, su cui poi aggiungere il resto. Oggi però la specializzazione di chi si focalizza su prevenzione infortuni, miglioramenti delle performance, cura degli allenamenti individuali, dovrebbe essere scevra da certe convinzioni. E non significa che la contaminazione non possa essere utile, magari su elementi più ampi come, solo per esempio, dare una certa importanza alla respirazione. Si tratterebbe però sempre di attività complementari e non fondamentali, svolte in un’ottica sistemica.

Se si volesse affrontare la questione della sovrabbondanza di infortuni nel calcio in questo periodo, forse bisognare iniziare a rivedere le modalità di svolgimento, l’opulenza esasperante dei calendari, le difficoltà delle trasferte, e perché no magari anche alcune regole del gioco stesso. Ma per quanto attiene alla sfera pratica e tecnica, sarebbe sempre meglio abbracciare e diffondere una visione fedele e consapevole delle caratteristiche della realtà del gioco. Questo non ci toglierà comunque il piacere di trovare interessante ascoltare Tortu che parla dei suoi metodi di allenamento e delle sue esperienze pratiche.

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