Luciano Gaucci era conducente di autobus ed è diventato capitano d’azienda, proprietario di un cavallo vincitore del prix de l’Arc de Triomphe, presidente di una squadra di Serie A. Ha vissuto in un castello, ed è morto in una modesta casetta sul mare a Santo Domingo. Un personaggio che incarna meglio di quasi tutti il claim americano “Go big or go home”. Un personaggio, soprattutto, che racconta meglio di quasi tutti la società e il calcio italiano degli anni ’90, con la sua genialità, la sua esagerazione, il suo senso dello spettacolo. Nella storia di Gaucci c’è tutto - la politica calcistica di quegli anni, l’ascesa e la caduta di una famiglia - ed è strano che finora sia stata raccontata pochissimo. È importante, quindi, che sia da poco uscito un documentario che ripercorre l’epopea gaucciana. Lo hanno fatto Giacomo Del Buono, Paolo Geremei e Carlo Altinier ed è uscito pochi giorni fa su Sky. Si guarda qui. Ha un titolo profondo che risuona di tanti significati: Quando passa l’uragano.
Ho intervistato i registi, Geremei e Del Buono, che in passato hanno già raccontato il calcio da una prospettiva originale, con documentari come Zero a zero o Noi siamo Ercolini. Abbiamo parlato di questo documentario e mi sono fatto raccontare qualche storia incredibile che circonda Luciano Gaucci.
Il trailer del documentario.
Perché volevate raccontare la storia di Gaucci?
Giacomo Del Buono: Io sono perugino, ho avuto per tanti anni l’abbonamento in curva. Vengo dalla provincia e quello era un modo per frequentare la città. Mi sono immedesimato nel piccolo Perugia che si scontra con le grandi. Quando c’è stata la caduta di Gaucci mi sono allontanato dalla città ma ho coltivato il mio amore per il calcio e per le squadre che non ce la facevano mai, o ce la potevano fare ma non ce la facevano.
Su Gaucci non c’era nulla in giro nonostante fosse un personaggio grandioso, pop, che permette di raccontare il calcio anni ’90 ma dal punto di vista della provincia. Ho chiamato Paolo, che mi ha detto che non solo lo dovevo fare, ma lo dovevo fare con lui.
Paolo Geremei: Mi interessava raccontare una storia vera, piena di sfaccettature, che mi ha permesso di rivivere un calcio che mi manca tantissimo. In più è una grande storia. Non è soltanto la grande epopea di un uomo, è anche il rapporto tra un uomo e il potere, e tra un uomo e i suoi figli. A me la parte genitoriale interessa molto, c’è in tutti i miei film.
Da dove siete partiti?
PG: L’idea c’era da tempo ma le produzioni non erano ancora decise. Sentivamo di non poter perdere ancora tempo, e così io e Giacomo abbiamo deciso di investire di tasca nostra per andare a Malaga a andare a intervista Alessandro Gaucci, che ora vive lì.
GDB: Una volta tornati abbiamo intervistato anche Riccardo, abbiamo fatto un teaser di tre, quattro minuti e con la società di produzione “Briciola” e siamo andati da Sky.
Qual era il rapporto tra Gaucci e Perugia? Cosa proiettavano i perugini in Gaucci, cosa ci hanno visto in quell’avventura pazza?
GDB: I perugini, come tutte le città di provincia, sono molto chiusi, sono egoriferiti e guardano con diffidenza chi arriva da fuori. Gaucci ha rotto questo muro. All’inizio lo chiamavano “il cavallaro”, poi quando si è visto che c’era davvero l’interesse a fare un progetto ambizioso hanno cominciato a sostenerlo, anche se sempre con una certa diffidenza: se vieni di là dal Tevere non sei perugino. Il rapporto più profondo con Perugia ce lo avevano i figli, che vivevano in città, mentre Gaucci arrivava e disfava. Il suo talento è stato affidarsi ai figli, che erano molto bravi.
Alessandro a Perugia era il suo factotum, aveva costruito una società perfetta. Con la minima spesa faceva la massima resa. Il motore di Gaucci erano i figli, e nel Perugia Alessandro soprattutto, che all’epoca era più che ventenne.
PG: Alcune tra le più grandi intuizioni, come Nakata, pagato 6 o 7 miliardi, erano le sue.
Il documentario racconta lo scouting con le videocassette che faceva Alessandro Gaucci con un approccio globale, cercando davvero giocatori in paesi teoricamente non calcistici. Qualcosa che effettivamente era all’avanguardia. In questa storia colpisce il cortocircuito tra le intuizioni geniali e i mezzi limitati a disposizione, l’approccio all’avanguardia su molte cose (gestione della società, scouting, marketing), ma allo stesso tempo in modo sempre molto artigianale.
GDB: Era un momento in cui a Perugia si sperimentava. All’epoca le squadre di media classifica si appoggiavano ai direttori sportivi, che a loro volta si appoggiavano a procuratori per andare sul sicuro. Il mercato seguiva logiche consolidate. Il Perugia ha rotto queste logiche. Faccio un esempio: l’avvocato del Perugia va a comprare un tappeto in uno show-room persiano e il venditore di tappeti gli dà una video cassetta con dentro le azioni di un giocatore. Gli dice: «Questo gioca nella squadra della capitale, e nell’Iran, guarda come gioca». Tempo due mesi arriva il primo iraniano a Perugia: Rahman Rezaei.
Altro esempio: quando Alessandro compra il primo cinese della Serie A aveva segnato il numero di maglia, perché non sapeva trascrivere dagli ideogrammi cinesi. Nella partita successiva però i numeri vengono scambiati e invece di arrivare il giocatore scelto ne arriva uno di 32 anni. Ma, da che era il primo giocatore cinese in Italia, non giocherà mai, perché non dovevano comprare lui.
PG: La parte artigianale è tipica di quel progetto, ma il limite più grande è il carattere di Gaucci. Il limite di Gaucci è insito in Gaucci: il suo essere uragano, sempre e comunque. È il suo limite ed è anche la sua forza. Senza la sua spregiudicatezza, il suo istinto, non ci sarebbe stato quel Perugia, e nemmeno il suo crollo.
Il documentario dice: «Le qualità che portano un uomo al successo sono quelle che ne causano la caduta». Di che qualità stiamo parlando? Qual era il talento di Gaucci che ne ha causato la caduta?
GDB: Aveva una capacità di problem solving innata, ma era anche inserito in un contesto politico ed economico che gli ha permesso di sbocciare, di fare l’imprenditore come lo faceva lui. Quando stai al pranzo con i grandi “dagli sempre ragione e paga il conto della cena”. Se tu non sei a quel livello devi fare qualcosa per loro. Lui di cene ne ha pagate tante, ma quando è arrivato il momento in cui dovevano pagare la cena a lui qualcosa si è rotto. Il suo grande limite è stato il suo essere poco riflessivo e troppo istintivo. Questo gli ha permesso grandi intuizioni, ma gli ha anche fatto perdere la percezione della realtà sul lungo periodo. Si è creato inimicizie gravi con personaggi potenti, che hanno finito per logorarlo. In quel momento il sistema economico del calcio si stava sfaldando, non si è salvato nessuno, tanto meno Gaucci, che si era fatto terra bruciata attorno.
PG: La furbizia, la scaltrezza e l’intelligenza gli hanno permesso di fare la sua scalata: da conducente degli autobus a capitano d’azienda. Però quell’istinto lo ha anche fregato.
GDB: C’è anche il quadro grande. Lui è cresciuto nel contesto della DC, quando è crollata quella politica lui non ha saputo più sopravvivere. Non sapeva più come gestire i rapporti.
Il documentario dice che Gaucci è crollato perché è crollato politicamente. La questione economica sembra secondaria rispetto ai problemi politici che aveva, che erano problemi di rapporti.
PG: Ruppe legami, litigò con tutti, non si piegò a nessun compromesso. A costo di sembrare tronfio. Voleva farsi rispettare e non guardava in faccia nessuno. Questo ha contribuito a causarne la caduta.
La fuga a Santo Domingo come l’avete letta? I figli oggi non sembrano portare rancore.
GDB: Innanzitutto perché sono passati vent’anni. E dopo vent’anni i figli hanno realizzato di aver vissuto una vita come fossero mille, e che quella è stata una fortuna, nel bene o nel male.
PG: C’è stato un momento che ha cambiato la mia percezione, e cioè quando Alessandro ci ha raccontato che Luciano gli disse: «Cosa fate qua, venite in Italia, ci arrestano a tutti» e Alessandro non volle perché aveva la coscienza pulita. Non si sa magari dov’è la deformazione della memoria, e dove sta la verità, ma forse è stata una fuga meno esplicita e più condivisa di quello che percepimmo all’epoca. Un po’ meno, ecco.
GDB: I figli non pensavano che sarebbero finiti in prigione. In quel periodo in cui tutto il calcio stava crollando nessuno andava in galera: non ci è andato Tanzi dopo la condanna, non ci è andato Cragnotti.
PG: Alessandro è del tutto pacificato col padre, Riccardo meno ma quando racconta la vita di suo padre si illumina comunque, e lo ha perdonato. E per me questa è una parte della storia interessante che il documentario racconta. Il confine tra ciò che è vero e ciò che vorremmo lo fosse è uno degli aspetti più affascinanti dei documentari. Se ti devo dire, i momenti più succosi sono proprio nel "non detto", nelle sfumature della coscienza.
Gaucci sognava di far diventare il Perugia una nuova Juventus, un nuovo Milan, una nuova Inter. Ci credeva veramente?
GDB: Un po’ voleva far parlare i giornali, un po’ ci credeva.
PG: A lui le cose erano sempre andate bene: come imprenditore, con i suoi cavalli. Sentiva di avere il tocco magico. Probabilmente nella sua mente c’era l’idea di potercela fare anche col Perugia.
GDB: Era uno che andava sempre all’attacco. Poi col tempo si è reso conto di non avere quei soldi, ma si è accontentato di dar fastidio. Compiacersi di dar fastidio alle grandi è un po’ come mettersi sullo stesso loro livello; a fare lo sgambetto alla Juventus il Perugia non ci ha guadagnato soldi, ma ancora oggi nel 2024 parliamo di Gaucci che ha fatto perdere uno scudetto alla Juventus.
Si è battuto anche per poter schierare la prima calciatrice donna. Erano provocazioni che gli permettevano di restare in prima pagina, e quindi di essere preso in considerazione. Era la sua strategia: a volte pagava, altre volte no. Lo strappo più grosso si è avuto nel momento in cui il Catania doveva retrocedere in Serie C e Gaucci mise in piedi un’estate di ricorsi e polemiche. Poi il Catania è retrocesso, lui è tornato a Perugia e nel frattempo si era consumato un grosso strappo politico, che gli è costato caro.
A sinistra Giacomo Del Buono, a destra Paolo Geremei, al centro - lo avrete riconosciuto - Fabrizio Ravanellli.
Cosa distingue Gaucci dagli altri presidenti degli anni ’90, tipo Tanzi o Cragnotti?
PG: Tanzi e Cragnotti avevano una diplomazia che Gaucci non aveva. Forse nemmeno la lungimiranza, la capacità di immaginarsi sul lungo periodo. Gaucci è più da associare a personaggi come Rozzi, Anconetani, quei presidenti meno diplomatici, più istintivi. Quei presidenti che scendono nello spogliatoio per cacciarti.
Perché in tanti provano nostalgia di quel calcio, e anche di quei presidenti, e anche di quel tipo di gestione di una squadra di calcio?
GDB: Prima di tutto perché eravamo giovani e avevamo vent’anni. Quando eri in curva avevi davanti a te una figura umana con cui relazionarti: da contestare o da elogiare. Adesso ci sono fondi dall’altra parte del mondo, prestanome, teste di legno. È diventato tutto più impersonale. Nel calcio è bello immedesimarti in figure umane. Il documentario serve anche a riportarti a quegli anni.
PG: C’è una parte romantica, che è vera, ma poi c’è anche una componente pratica, di competenza. Mi sembra che le proprietà che riescono a progettare in modo oculato oggi siano rare. Anche all’epoca c’era incompetenza, c’erano errori, si compravano i bidoni, ma c’era passione e un’autenticità verso cui i tifosi potevano riconoscersi. Oggi non sembra esserci né passione né competenza, e alcuni finiscono per disamorarsi.
Qual è la vostra “gaucciata” preferita?
PG: C’era un camion di maiali in autostrada e Gaucci se ne innamorò: «Non ho mai visto dei maiali così belli», diceva. Ha fatto fermare il camion e ha comprato tutti i maiali. È una storia raccontata da Riccardo Gaucci.
GDB: La prima è del 1997, un periodo in cui il Perugia stava giocando malissimo ed era destinato alla retrocessione. Allora Gaucci fece la sua mossa: sapendo che c’era la Nazionale etiope che si allenava vicino Perugia, provò a tesserare tutti gli etiopi col Perugia così da fargli ottenere lo status di rifugiato. La maggior parte lo ottenne, non tornarono più in Etiopia, vivono tutti sparsi tra la provincia di Perugia e quella di Arezzo, e hanno giocato in molti campionati locali. Aveva detto: «Mando tutti via, gioco con la primavera e la Nazionale dell’Etiopia». Un gesto che gli valse un premio tipo “cittadino dell’anno” ad Assisi, dato dai frati francescani.
La seconda è quando il Perugia andò in Scozia a giocare col Dundee. Alcuni tifosi molesti vennero arrestati per qualche cavolate, allora lui andò dal console italiano per liberare questi tifosi.
PG: Dopo una trasferta contro l’Acireale i tifosi non avevano più l’accordo per tornare a Perugia; lui andò al pullman che voleva scaricare questi tifosi, tirò fuori le banconote e diede cinquanta mila lire per tornare a Perugia a tutti i presenti nel pullman.
GDB: Ci vorrebbe una serie TV.
Ho trovato molto azzeccato il titolo “Quando passa l’uragano”, che ricorre più volte nel documentario. Me la spiegate dal vostro punto di vista?
GDB: C’è un’assonanza col nome e a Perugia era chiamato “Luciano l’uragano”. Dove passa l’uragano si distrugge tutto. Dove è passato lui non è rimasto niente: non le società, non il castello. Mentre passa l’uragano è la storia di Gaucci, quando passa l’uragano è finito il documentario, che finisce con una folata di vento.
PG: Quando passa l’uragano, l’uragano comunque lo hai visto. Alessandro ci ha detto che lui l’uragano lo ha vissuto, e almeno lo può raccontare. «È vero che ho le ferite che mi hanno fatto piangere, sono stato anche in galera. Intanto però quelle ferite mi serviranno per la vita». Quando passa conti i danni, ma sei anche sopravvissuto.