C’è un trait d’union che idealmente unisce le stagioni 2015-16 e 2018-19 dell’Eurolega, al di là dei sorrisi della squadra che ha vinto in entrambe le annate. Tre anni fa, il successo del CSKA Mosca a Berlino segnava l’ideale conclusione della prima era del terzo millennio del basket europeo: la rivoluzione dell’Eurolega stile campionato a 30 giornate era alle porte, e il successo di Itoudis, De Colo, Clyburn, Higgins e Hines - tra gli altri - segnava la parziale redenzione per un lustro di cocenti delusioni europee.
Questo weekend, invece, ha segnato la parola fine sul primo triennio della nuova Eurolega, e la vittoria del CSKA di Itoudis, De Colo, Clyburn, Higgins e Hines ha certificato come il trono europeo della “seconda era” si sia equamente tripartito tra le tre squadre dominatrici di questo triennio: il Fenerbahce, il Real Madrid e, appunto, il CSKA. Tutte squadre presenti a Vitoria-Gasteiz, come in ciascuna delle ultime tre Final Four, e che hanno - insieme al meraviglioso Anadolu Efes di Ataman - marchiato a fuoco questa stagione indimenticabile.
Il CSKA e la storia ribaltata
di Ennio Terrasi Borghesan
Solamente in due stagioni nell’era moderna, ovverosia dal 2001 a oggi, il CSKA Mosca non ha raggiunto le Final Four. All’ultima di queste, l’uscita nella prima fase del 2010-11, i russi reagirono con un pronto ritorno alla fase finale della competizione, e a 12 minuti dal termine della finale 2012 sul +19 contro l’Olympiacos il settimo titolo europeo sembrava a un passo. Quello che la squadra di Kazlauskas non poteva immaginare è che quei dodici minuti segnarono l’inizio di un decennio da incubo - con la splendida eccezione della stagione 2015-16 - che potrebbe essersi definitivamente chiuso questo weekend.
Milano 2014, Madrid 2015, Istanbul 2017 e Belgrado 2018 sono Final Four passate alla storia anche per le rimonte, più o meno clamorose, subite dall’Armata Rossa, che più volte ha mancato l’occasione per consacrare definitivamente una impressionante (e probabilmente irripetibile) continuità di risultati.
Lo ha fatto al termine di un weekend in cui ha ribaltato la sua storia recente ancor più del successo di Berlino nel 2016. La rimonta in semifinale contro il Real Madrid da -14 a 4 minuti dalla fine del terzo quarto, infatti, ha prodotto la terza finale delle ultime dieci stagioni, e contro l’orgoglioso Efes di Ergin Ataman la squadra di Itoudis ha dimostrato di sapere cogliere l’attimo, centrando l’ottavo titolo della sua storia, il quarto del terzo millennio.
Istantanee di un riscatto.
La bellezza di questo trionfo della squadra moscovita sta proprio nella totale differenza tra le due partite. Nella semifinale di venerdì, infatti, tutto sembrava far presagire il concretizzarsi di una nuova delusione al penultimo atto: nonostante in stagione regolare i russi avessero fatto emergere una rilevante differenza di valori tecnici nell’accoppiamento diretto, il Real era saldamente in controllo del match nonostante la brutta prova di quel Sergio Llull che invece era stato decisivo 12 mesi fa.
Contro i madrileni a decidere è stato un trio che a Belgrado, invece, incise in negativo (4/20 da 2 e 8/19 da 3 complessivo): Nando De Colo, Will Clyburn e Sergio Rodriguez hanno deciso l’approdo in finale del CSKA con 74 punti in tre (sui 95 di squadra) e in misura diversa hanno marchiato a fuoco anche l’inedita finale contro l’Efes. Nell’atto conclusivo l’apporto del francese e dello spagnolo è stato ridotto rispetto a 48 ore prima, ma nell’ultimo quarto i loro canestri sono stati fondamentali per respingere i tentativi di rimonta del tenacissimo Efes.
L’apporto di Clyburn, invece, è stato più distribuito nel corso della finale. Il meritato premio di MVP delle Final Four (70% da 3 nel weekend!) corona la stagione della consacrazione, dopo l’inserimento nel quintetto ideale della competizione.
Ma la forza del CSKA non sta soltanto nei Big 3 del weekend di Vitoria-Gasteiz. Il contributo di Cory Higgins, vice-capocannoniere della stagione europea dietro Mike James, è stato fondamentale in finale, mentre Kyle Hines e Othello Hunter hanno confermato forza, affidabilità e sicurezza sotto i tabelloni.
Un capitolo a parte lo merita Daniel Hackett, al primo trionfo europeo di una carriera che forse gli ha dato sin qui meno di quanto meritato sul campo: il nativo di Forlimpopoli ha giocato una stagione in continuo crescendo, contro l’iniziale diffidenza che era circolata attorno al suo sbarco in Russia dopo le ultime tre stagioni spese tra Olympiacos e Bamberg. C’è tanto dell’applicazione difensiva dell’ex Siena e Milano in una squadra che in finale è riuscita a limitare l’apporto di quasi tutte le bocche da fuoco avversarie, e questo successo per Hackett arriva probabilmente nel migliore momento possibile, con l’occasione di rendere ancora più indimenticabile questa stagione nel corso della prossima estate.
La vittoria del CSKA, infine, è anche il trionfo di Dimitrios Itoudis. Pluri-campione (cinque volte) da assistente di Obradovic al Panathinaikos, per lui è il secondo trionfo sulla panchina russa in cinque stagioni. Un successo sofferto, arrivato al termine di un anno iniziato con un contratto in scadenza a giugno e una neanche troppo velata condizione (o il titolo o niente) posta dalla dirigenza russa per il rinnovo negli scorsi mesi. Come per le altre tre squadre presenti in terra basca, l’estate in arrivo potrebbe essere feconda di novità a livello di roster. Questo weekend, però, ha il merito di avere ribaltato una storia che stava cominciando a fare sentire il suo peso. Al futuro, quindi, ci si penserà un domani.
A fine partita, poi, Itoudis ha riservato l’omaggio più bello a Kyle Hines, il terzo giocatore nella storia dopo Dino Meneghin e Fausto Bargna a vincere più Euroleghe con almeno due squadre diverse.
L’Anadolu Efes e un destino a metà
di Michele Pettene
Che l’Efes fosse la squadra del destino di queste Final Four 2019 l’avevano capito un po’ tutti, anche prima della semifinale di Vitoria contro il Fenerbahce.
Battezzati da chiunque come gli “underdogs” di questa edizione, la squadra bianco-rossa-blu di Istanbul aveva dato vita durante la stagione a un percorso da predestinata, tipico di quelle storie che dall’esterno sembrano incapaci di soccombere ai più forti e costellate da coincidenze astrali ed episodi a favore dal sapore “divino”, capaci di lanciarli verso una Terra Promessa mai vista prima (unica apparizione nel 2000, quando ancora il torneo era gestito dalla FIBA).
Nessuno a ottobre 2018 aveva infatti scommesso su un Anadolu Efes alle F4. Un po’ perché l’anno prima erano arrivati semplicemente ultimi in Eurolega con sole sette vittorie; un po’ perché l’allenatore era pur sempre Ergin Ataman, lo stesso dell’ultimo posto, criptico e non convincente ai più alti piani europei; un po’ perchè la rosa sembrava un po’ troppo corta (e la finale l’ha dimostrato); e infine perché questo era uno di quei club incapaci, secondo l’opinione comune, di compiere l’ultimo salto di qualità soprattutto a livello mentale.
Un atteggiamento quasi ineluttabile che magicamente è stato cancellato nella prima semifinale di queste Final Four contro il Fenerbahce, un derby di Istanbul mai visto prima a questi livelli e con tutti i sacri crismi del potenziale upset. Da buoni avversari di una squadra del destino, infatti, il Fener si presentava falcidiata dagli infortuni: senza uno dei suoi lider maximi – il nostro Gigi Datome, fermo ai box da fine aprile –, senza un’ala ex-NBA come Jeoffrey Lauvergne e con altri due membri del quintetto storico come il perenne MVP Jan Vesely e l’ala serba Nikola Kalinic talmente malconci da sembrare in dubbio per Vitoria fino all’ultima settimana.
Una condizione che, pur rafforzando le speranze dell’Efes, necessitava però di essere sfruttata nel migliore dei modi dagli uomini di coach Ataman, in un contesto inedito per tensione e importanza per quasi tutto il roster. Ma proprio nella fiducia nei propri mezzi, nell’energia e nella presenza mentale gli sfavoriti della vigilia hanno stupito maggiormente, dopo un primo quarto nel quale alcuni svarioni difensivi avevano lasciato il Fenerbahce a tirare totalmente libero (sbagliando sempre: altro segno!), facendo temere il peggio.
Ma aggrappato al suo nuovo trascinatore, il 25enne Vasilije Micic - cresciuto esponenzialmente prima alla divina scuola di Hokuto-Jasikevicius lo scorso anno allo Zalgiris e poi esploso definitivamente quest’anno - l’Efes prima rispondeva colpo su colpo al nemico sprintando appena possibile in attacco, e poi trovava sprazzi prolungati di onnipotenza offensiva nell’altro leader, il play ex-Nets Shane Larkin, semplicemente immarcabile.
Larkin e Micic, fondamentali nei primi due quarti con minutaggi prossimi al 100%, trovavano il tempo sia di mettere in ritmo i compagni (Brock Motum e James Anderson su tutti) sia di caricare di falli l’unica fonte di energia dei gialloneri di Obradovic, quel Kostas Sloukas incappato nel terzo fallo già a 3:29 dalla fine del secondo quarto.
Una sorta di silenziosa resa per i finalisti perdenti dello scorso anno, incapaci di ribattere con le altre guardie ai deflagranti show in area del duo Larkin-Micic, autori nel secondo tempo di alcune giocate da urlo, tra cui un canestro più fallo subito di Micic totalmente fuori equilibrio cadendo verso terra, nella più classica delle azioni del destino tagliagambe.
L’incredibile canestro di Micic gambe all’aria contro Sloukas.
Finiva con il Fenerbahce stremato ad arrendersi gradualmente, abbattuto dai 55 punti in coppia sui 92 totali di Larkin e Micic e una prestazione che proiettava l’Efes da invitato per sbaglio al ballo finale a contender credibile per il titolo che si sarebbe giocato contro il solito CSKA.
Come però ormai avrete capito, la cosiddetta “squadra del destino” si è fermata proprio ad un passo da una vittoria che avrebbe avuto un significato epico paragonabile solo a quello del già citato Olympiacos del 2012 (quello del buzzer beater di Printezis). Tanti i motivi della sconfitta in finale contro i russi, ma tra i principali ci duole sottolineare la performance sottotono proprio di Micic, l’uomo da 25 punti e dalla leadership illuminante solo due giorni prima.
Un impatto negativo sulla propria squadra che è andato oltre il 2/9 da tre punti o i 4 falli commessi che hanno costretto Ataman ad aumentare la frequenza dei cambi dalla panchina: il play serbo, ragazzone di 1.96 con un motore fuoriserie per arrivare fino al ferro tra stazza e ball-handling favoloso, è sembrato troppo rinunciatario, forse per l’impatto emotivo della finale o per la strapotenza tecnica evidente del compare Larkin, apparso troppo solo durante quasi tutta la partita e a cui Micic ha affidato molte delle sue responsabilità.
Non che il supporting cast sia stato più convincente, anzi. Kruno Simon, che arrivava da due “zeri” nelle ultime due partite (Gara-5 con il Barcellona e la semifinale), ha provato a suo modo a mettere la zampata vincente (15 alla fine), ma sono state troppe le volte che a una buona azione è seguito un disastro difensivo sul diretto avversario, annullando dunque gli sforzi nell’area moscovita (anche 4 rimbalzi offensivi per l’ex-Olimpia).
Ancora peggio ha fatto Adrien Moerman, titolare di una Final Four da incubo che difficilmente dimenticherà: dopo una stagione fantastica dove subito dopo Larkin e Micic è stato lui l’opzione offensiva più affidabile, l’atipico lungo francese in quasi 60 minuti di gioco tra le due gare di Vitoria ha messo insieme la misera cifra di 9 punti, di cui solo due contro il CSKA. Un rendimento catastrofico che ha rievocato gli antichi spettri della mentalità-Efes, di cui forse anche coach Ataman è parzialmente colpevole.
Quando in finale è scemata la cortina di fumo alzata a regola d’arte dai 29 punti di uno strepitoso Larkin (il nostro MVP, anche se non ha vinto il premio), l’allenatore turco si è trovato improvvisamente privo di armi offensive credibili da lanciare contro i russi, padroni dell’area e cinici nello sfruttare al massimo le troppe disattenzioni avversarie sulle situazioni da rimessa.
La finale di Larkin nonostante la sconfitta è stata me-mo-ra-bi-le.
Una difesa che è sembrata ancora una volta non adeguata a certi livelli, tra Larkin e Simon poco “mascherati” e presi di mira scientificamente dagli esterni di Itoudis, e il povero Dunston ad inseguire tutti sui pick and roll e le rotazioni sul perimetro, arrivando vicino al quinto fallo già nel terzo quarto.
In definitiva un’impresa solo a metà, con un derby storico messo con orgoglio in saccoccia ma una finale mai realmente messa in discussione, nonostante il CSKA ci abbia provato come sempre in tutti i modi (succulenti buzzer beater da tre offerti in chiusura di secondo e di terzo quarto a Larkin, per dirne due).
Le Final Four dell’Anadolu Efes rimarranno comunque indimenticabili, possibile prima pietra miliare di una squadra che poteva essere “del destino” ma che più realmente ora è di fronte a un bivio: dimostrare di poter costruire su questa stagione comunque trionfale una delle prossime “grandi” dell’Eurolega del prossimo triennio, oppure tornare nel purgatorio delle incompiute con un potenziale parziale incapace di realizzarsi totalmente. Come l’Anatolia, la regione capace di coprire solo due terzi dell’attuale Turchia, nome proprio di questo club: forse è sempre stato questo il destino a Vitoria, per l’Anadolu Efes Istanbul.
Il back-to-back mancato del Real Madrid
di Ennio Terrasi Borghesan
Nonostante sia la squadra più vincente della storia dell’Eurolega, è da 51 anni che il Real Madrid non vince due titoli consecutivi. Per larghi tratti del match di semifinale contro il CSKA era sembrato che tale tabù potesse essere davvero vicino a essere sfatato: il contributo di Campazzo, Randolph e di un gigantesco Causeur aveva portato a 14 le lunghezze di vantaggio sui moscoviti con poco più di 14 minuti sul cronometro.
https://twitter.com/EuroLeague/status/1129483110897389568
Nel terzo quarto era stato fondamentale anche l’apporto difensivo di Jeffery Taylor, già uomo chiave nella serie dei quarti di finale contro il Panathinaikos.
Il crollo delle merengues nell’ultimo quarto e mezzo di partita, invece, lascia Maccabi Tel Aviv e Olympiacos come le uniche due squadre nell’era moderna capaci di bissare il successo europeo per due anni consecutivi. Per una notte l’incredibile abbondanza del roster si è rivelata un’arma a doppio taglio: tanti dei 10 giocatori scesi in campo per almeno 15 minuti durante la semifinale hanno faticato a trovare ritmo sui due lati del campo, e le percentuali finali di Campazzo (3/10), Randolph (3/11) e Llull (1/10 da 3) ne sono, in parte, una testimonianza.
E dire che per il Real la partita si era indirizzata benissimo: la verticalità di Tavares (7 rimbalzi e 3 stoppate nel primo quarto) contribuiva a creare un vantaggio di 11 punti dopo appena 7 minuti, costringendo Itoudis a trovare la soluzione in panchina sotto forma del grande ex di giornata, Sergio Rodriguez. La migliore condizione (il Real si presentava alla semifinale sull’onda di 10 vittorie consecutive tra Liga e Eurolega) delle merengues portava ad altri due strappi nel punteggio, puntualmente ricuciti dal CSKA, prima del finale marchiato a fuoco da Nando De Colo.
https://twitter.com/EuroLeague/status/1129468526605979648
In semifinale Tavares ha confermato di avere meritato il premio di difensore dell’anno.
Chiusa la caccia al bis europeo, per il Real adesso c’è in vista l’obiettivo della Liga ACB, col primo posto in classifica ripreso ai danni del Barcellona. Rivolgendo invece lo sguardo alla prossima stagione, c’è la sensazione che possa vedere la luce la prima fase di una rivoluzione: quasi tutti i giocatori hanno una scadenza tra quest’estate e la prossima (anche coach Laso, attualmente in scadenza 2020), e l’età di alcuni “totem” come Reyes, Fernandez e Carroll è decisamente avanzata. Per fare un esempio, dei 12 a referto contro il CSKA soltanto uno - l’argentino Gabriel Deck - aveva meno di 25 anni. Primi rumors danno per possibile lo sbarco a Madrid di Nando De Colo, ma è chiaro che in ogni caso per le merengues potrebbe essere un’estate molto attiva sul mercato.
I troppi problemi difensivi del Fenerbahce
di Dario Ronzulli
Una squadra di Zelimir Obradovic che alle Final Four perde di 19 in semifinale e di altrettanti nella finalina per il 3º posto fa inevitabilmente notizia, passa quasi alla storia. Il Fenerbahce, dopo aver chiuso al primo posto la regular season e aver sofferto l’intraprendenza dello Zalgiris nel playoff, è crollato a Vitoria e lo ha fatto in modo fragoroso. Il tecnico serbo ha dovuto così rimandare l’appuntamento con la decima coppa personale.
Il Fener che si è presentato in terra basca era una squadra incerottata e in debito d’ossigeno. Hanno senza dubbio pesato le assenze di Lauvergne, per quello che avrebbe potuto dare sotto canestro, e di Datome, per quello che avrebbe potuto dare in più in termini di pericolosità dall’arco. E sempre senza dubbio le condizioni precarie di Kalinic e dell’MVP stagionale Vesely hanno contribuito a non poter essere pienamente competitivi. Questo senza nulla togliere agli enormi meriti dell’Efes, va da sé. Ma c’è dell’altro.
C’è un dato eloquente che accomuna le due partite giocate dai turchi: il vistoso calo nella ripresa. In semifinale con l’Efes la difesa, che già era andata in affanno nel secondo quarto, si è sgretolata all’uscita dagli spogliatoi mancando il timing nei raddoppi, non tenendo quasi nessun uno-contro-uno e non trovando il modo di limitare - fermare era quasi impossibile - Larkin e Micic. Sloukas e compagni erano costantemente un giro indietro, fisicamente in affanno e mentalmente non lucidi. Che l’attacco finisse poi per impantanarsi spesso e malvolentieri era cosa ovvia.
Due esempi di azioni difensive gestite male dal Fener. A 1:46 Larkin ha già fatto fuoco e fiamme quando qui riceve il pallone: eppure Vesely resta inchiodato nel pitturato e osserva placido il pick and roll dell’Efes. Il blocco di Dunston è di marmo e per Larkin ci sono metri e metri di spazio per colpire. A 2:04 Vesely stavolta sale a difendere su Micic, ma con il corpo messo malissimo e in più con un giro dorsale, giusto per perdere ancora un po’ di contatto. A completare l’opera ci pensa Guduric che si sposta a coprire una linea di passaggio già occupata da Melli. In sostanza tappeto rosso steso per il sottomano dell’ex Zalgiris.
La gara della domenica contro il Real - per quanto vada presa con le molle non mettendo in palio nulla se non l’onore - è andata in maniera simile, con il crollo nel quarto periodo in cui il Fener è andato in evidente affanno smettendo di difendere e di far circolare il pallone in attacco. I 186 punti subiti nelle due gare dicono che, al di là delle assenze, ai turchi è mancata clamorosamente l’organizzazione difensiva - una cosa che non puoi concedere a nessun avversario a questo livello.
Uno dei pochi a salvarsi è stato Nicolò Melli, o se preferite uno dei pochi dei suoi a flirtare con la sufficienza. L’azzurro venerdì è stato sempre propositivo, preoccupandosi di tappare le falle altrui senza riuscirci e dando un contributo sostanziale in attacco. Ha sofferto come tutti i suoi compagni a rimbalzo, una delle chiavi della vittoria dell’Anadolu, e le accelerazioni con cambi di direzione di Larkin.
Surclassato sul piano dell’energia e dell’atletismo, il Fenerbahce ha dovuto alzare bandiera bianca. Da una squadra come questa e da un coach come questo è lecito attendersi che trovino il modo per andare oltre le difficoltà fisiche. La sua campagna europea non sarà stata disastrosa o fallimentare - termini molto forti e di cui spesso si abusa - ma certamente non può essere considerata positiva per le potenzialità e le aspettative.
È forse ingiusto fare una valutazione complessiva basandosi su soli 40 minuti ma la formula dell’Eurolega è questa, volenti o nolenti: un imbuto via via più stretto e che mette le quattro superstiti di fronte a un giudizio spietato.
Nella prossima stagione di Eurolega
di Ennio Terrasi Borghesan
Con la Final Four di Vitoria-Gasteiz è andato in archivio il primo triennio della nuova Eurolega. In tre anni abbiamo visto tre squadre diverse chiudere in vetta la stagione regolare (Real Madrid, CSKA Mosca e Fenerbahce) e nessuna di loro, in quella stagione, si è poi aggiudicata il titolo. Contemporaneamente, però, sull’albo d’oro della competizione sono andati esclusivamente i loro nomi.
Si sono visti equilibrio e spettacolo, ma non tanta alternanza: se 9 squadre su 11 tra quelle con licenza decennale hanno fatto i playoff almeno una volta (uniche eccezioni Maccabi e Milano), soltanto due di quelle “provvisorie” (il Darussafaka 2016-17 e il Khimki lo scorso anno) si sono piazzate tra le prime otto.
Una prima sensazione, quindi, è che la nuova formula della massima competizione continentale abbia contribuito a fungere da acceleratore di crescita delle squadre “fisse”, visto che solamente Olympiacos e Panathinaikos hanno visto peggiorare i loro risultati europei in questo triennio; ma lo stesso non si può dire per le squadre “salite” dai campionati nazionali, considerando quelle tra quelle rimaste fuori dai playoff soltanto la Stella Rossa di due stagioni fa ha chiuso con un record positivo.
Il 2019-20 sancirà in primo luogo l’allargamento a 18 squadre, con l’ingresso - garantito per le prossime due stagioni - di Bayern Monaco (con la Germania che quindi avrà due posti a disposizione, come Turchia e Grecia) e ASVEL Villeurbanne: i francesi riporteranno il loro paese in Eurolega dopo tre anni d’assenza e rappresenteranno una delle novità più interessanti della stagione. Sul fronte delle licenze annuali, sono già sicuri i ritorni di Stella Rossa e del Valencia, dominatore della stagione di Eurocup. La vittoria della squadra spagnola comporterà l’assegnazione di una wild card per la quale sembrerebbe ben posizionata l’Alba Berlino - in caso di mancata qualificazione via Bundesliga - oppure una scelta tra il Partizan Belgrado e una terza squadra russa (oltre a quella che sarà la migliore piazzata ai playoff tra Zenit San Pietroburgo, Unics Kazan e Khimki Mosca).
Un record di 20-3 nella stagione, con 15 vittorie consecutive: dopo quattro successi in 16 anni, Valencia è ormai sinonimo di Eurocup.
Nelle ultime settimane, invece, si è aggiunto il caos legato alla difficile situazione greca tra Panathinaikos e Olympiacos, iniziata con il ritiro dei biancorossi dalla semifinale di Coppa di Grecia e proseguito, dopo penalizzazioni per forfait sul campo di entrambe le squadre, con la rinuncia della squadra di David Blatt a disputare la serie di playoff contro i rivali allenati da Rick Pitino. Tale rinuncia comporterà la retrocessione a tavolino della squadra del Pireo e tale sanzione potrebbe comportare, secondo il regolamento dell’Eurolega, una sospensione o revoca della licenza decennale in possesso dell’Olympiacos.
Un altro grande interrogativo è legato alla struttura della prossima stagione: il passaggio a 18 squadre porterà a 34 le giornate di stagione regolare, e saranno ben sette (verosimilmente uno al mese) i doppi turni settimanali previsti. Una struttura che è stata fortemente criticata dall’Uleb e dalle singole leghe nazionali, in particolare di quei campionati che vedranno le proprie squadre disputare ben 68 partite senza considerare i playoff.
Con l’obbligo per tutti i campionati di concludersi entro il 12 giugno 2020 per permettere lo svolgimento dei tornei pre-olimpici, e la Final Four spostata in avanti di una settimana rispetto al solito, gli incastri di calendario faranno sicuramente discutere per tutta l’estate. Sono arrivate anche nuove aperture al dialogo da parte della FIBA, ma la crescita di livello e considerazione della Basketball Champions League potrebbe fare riemergere nuove rivalità tra le competizioni.
L’eccezionale equilibrio di questa stagione, con sei squadre in corsa per i playoff fino all’ultima giornata, e lo spettacolo della Final Four di Vitoria-Gasteiz è la conclusione ideale di un triennio importante - con la speranza che anche nei prossimi anni la qualità del basket continentale continui a crescere senza perdersi in troppe beghe di potere.