Intorno al settantesimo gli olè dei tifosi argentini certificano che siamo ospiti della festa di qualcun altro, più tori che toreri. L’Argentina, in vantaggio 2-0, sta dominando come raramente si vede nelle partite tra Nazionali e si permette una lunga fase di palleggio chiusa da un fallo di frustrazione di Di Lorenzo su Messi.
Le premesse erano ben diverse: quando a settembre Uefa e Conmebol si sono accordate per rispolverare questo trofeo dimenticato - una partita secca che mette davanti la vincente dell’Europeo e quella della Copa America denominata La Finalissima - era sembrato tutto perfettamente sensato.
Italia e Argentina arrivavano da due vittorie importanti e simboliche per due paesi che, a modo loro, avevano visto nel trionfo estivo un senso di rinascita più grande di quello puramente calcistico. Celebrarlo a Wembley, a casa degli inglesi, con sullo sfondo il ricordo di Maradona, il più grande calciatore della storia nato e morto in Argentina ma passato nella costruzione del mito dall’Italia, aveva poi aggiunto un grande romanticismo. Doveva essere una grande festa per due, quindi, al di là del trofeo in palio, ma gli ultimi mesi della nostra Nazionale l’hanno resa una specie di incubo. Lo si percepiva anche nella composizione degli 86 mila presenti: gli argentini esaltati, caciaroni, spinti dalla voglia di alzare un trofeo nella casa degli inglesi e con il sogno di essere di nuovo una nazione in grado di vincere il Mondiale; gli italiani meno presenti, chiazze blu scure tra il bianco e celeste, già nostalgici nei cartelloni che ricordavano l’Europeo, mesti, lì più per ricordare un passato che chissà se tornerà che non per sostenere un futuro che appare nebuloso. «Sarà la gara che concluderà un ciclo» aveva detto Mancini alla vigilia con un tono dimesso che non presagiva nulla di buono.
Il CT ha scelto di affrontare l’Argentina con la nostalgia, affidandosi ai reduci del successo Europeo per un senso di gratitudine che, a questo punto, è sembrato eccessivo. Se la presenza di Chiellini, ai saluti, era giustificata, quella di molti dei giocatori visti in campo ieri non lo era. In una squadra che l’estate scorsa poteva contare su 15-16 titolari, le assenze di Verratti, Berardi, Immobile e Chiesa hanno messo in luce una mancanza di qualità preoccupante. Dare un premio ai vari Emerson, Pessina, Belotti e Bernardeschi (tutti inadeguati ieri) a discapito di quelli che sono stati i migliori italiani della stagione (Pellegrini, Tonali, Udogie) è stato giusto? La prestazione dell’Italia dice di no.
Contro un’Argentina che ha affrontato questa Finalissima con lo spirito di chi si sta giocando un trofeo vero, l’Italia è apparsa lenta, stanca, sorpassata. Le armi su cui Mancini aveva costruito il suo primo ciclo - dominio del possesso, pressione alta una volta persa palla - non si sono viste neanche per sbaglio e alla squadra di Scaloni è bastato aggredire in avanti con il giusto piglio per innescare rapidamente Messi, Lautaro Martinez e Di Maria, che poi ci hanno distrutto con la loro qualità. Il primo gol è abbastanza esemplificativo della lentezza e prevedibilità del nostro palleggio: Bernardeschi ha ricevuto da Di Lorenzo largo a destra, spalle alla porta; l’ex Juve, dopo aver perso un tempo di gioco, ha eseguito il primo passaggio disponibile, nonostante Pessina fosse pressato alle spalle. Il centrocampista dell’Atalanta è stato costretto a ripassarla di prima a Bernardeschi, ma a questo punto Tagliafico aveva alzato la sua pressione sul nostro numero 10, recuperando un pallone che Lo Celso ha servito rapidamente a Messi. Certo, poi ci vuole la miglior partita da alcuni mesi a questa parte (a dimostrazione che gli argentini ci tenevano) di uno dei giocatori più forti di sempre, ma se fai ricevere i tuoi attaccanti in alto con l’avversario sbilanciato, il calcio diventa più semplice. Messi ha resistito alla pressione di Di Lorenzo, si è girato a sinistra, è arrivato sul fondo e ha concesso a Lautaro il più facile dei gol.
In una partita vera, insomma, l’Italia è sembrata finta. Senza Verratti, con Locatelli reduce da un infortunio ed entrato solo nel secondo tempo, tenere il pallone era ogni minuto più difficile. Strade alternative non si sono viste. Raspadori, partito largo a sinistra per poi accentrarsi e lasciare spazio a Emerson Palmieri (uno spazio di cui non sapeva cosa farsene), non ha la capacità di giocare tra le linee di Insigne e comunque è stato uno dei meno peggio. Al centro Belotti non ha tenuto un pallone, a destra Bernardeschi ha sbagliato quasi tutto quello che poteva sbagliare. Non è neanche solo una colpa dei singoli: Mancini non sembra più in grado di andare oltre la sua prima intuizione, che però non funziona più. Lo si vede anche in quelli che dovrebbero essere i calciatori meno influenzati dal contesto. Barella, schierato a sinistra forse per contenere le ricezioni di Messi, ha corso a vuoto per la maggior parte del tempo; Bonucci ha perso quasi tutti i duelli con Lautaro e anche Chiellini per la prima volta è sembrato - come effettivamente è - più vicino alla pensione che ai giorni belli dell’Europeo. Il secondo, bel gol, dell’Argentina ne è la dimostrazione: per far fuori l’Italia è bastato un lancio lungo, un passaggio in profondità e un tocco sotto.
Anche i tentativi di aggiustare in corsa, con i cambi tra primo e secondo tempo, hanno mostrato più confusione che altro. Lazzari, tranquillamente ignorato da Mancini fin qui, è stato inserito al posto di Chiellini per tornare a un 4-3-3 più canonico, con Di Lorenzo centrale e con Pessina in attacco; poi il CT ha inserito Spinazzola per Pessina per tornare al 3-5-2. Nessuno dei cambi però ha portato qualcosa alla causa e l’Italia ha mostrato il fianco all’Argentina, a cui bastava veramente poco per crearsi un tiro o comunque un’occasione pericolosa (17 totali, 10 in porta). Donnarumma, forse non perfetto nel primo tempo, ha finito per essere tra i migliori nel secondo (rischiando di essere trafitto dal fuoco amico di un retropassaggio di Bonucci) salvando il salvabile ma finendo per capitolare nei minuti di recupero su un diagonale chirurgico di Dybala, lasciato libero di fare quello che sa fare meglio, e che ha segnato il 3-0 finale, giusto per quello che si è visto in campo.
Se vogliamo trovare un lato positivo in questa serata, la brutta partita dell’Italia ci ha fatto apprezzare da vicino la qualità di giocatori come Messi e Di Maria. Vicini alla fine della carriera, con più dolori che gioie con la maglia della Nazionale, sono la faccia serena dell’Argentina di Scaloni, una squadra che sembra aver trovato linfa vitale dal trionfo continentale, a differenza nostra che sulla vittoria ci siamo adagiati. L'Argentina è una squadra solida con poche idee, ma chiare, che va in avanti invece di andare indietro. Per loro, in vista del Qatar, il problema sarà quello di venire a patti con la pressione, una pressione che questa partita potrebbe aver alzato (si dice che in Argentina preferivano perdere ieri per non crederci troppo al Mondiale) e a cui la Nazionale albiceleste non ha sempre risposto bene. Ieri Messi aveva la serenità dell’uomo compiuto, cosa che non aveva quasi mai mostrato in Nazionale, ma certo bisognerà vedere quando le partite conteranno di più di questa Finalissima.
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Per l’Italia, beh: che dire? Mancini prima della partita ha detto che «da mercoledì inseriremo dei giovani per capire quanto valgono e se potremo contare su di loro per il futuro», una frase che sembra più una minaccia che un buon augurio. Nei prossimi giorni la Nazionale giocherà contro Germania, Ungheria, Inghilterra e di nuovo Germania. Uno strapazzo che sembra più un impiccio che altro. Una rinascita è possibile? Se già l’Italia di Wembley era il trionfo di un’idea di calcio collettiva più che del talento, quella all’orizzonte non appare più ricca di possibilità. C’è poi l’orizzonte temporale da definire: si guarda al Mondiale del 2026 o all’oggi? Il calcio di Mancini vestiva bene una squadra con Verratti, Jorginho, Bonucci, Insigne e Berardi, ma di questi quanti hanno ancora qualcosa da dare alla Nazionale? I calciatori alle loro spalle hanno altre caratteristiche: Tonali è fiorito in un centrocampo a due, Pellegrini ha bisogno di più libertà, Zaniolo si è già trovato poco a suo agio nel 4-3-3 di Mancini, Bastoni è cresciuto in una difesa a 3.
È possibile una sintesi? Questo è certo, anche considerando che altri giovani stanno crescendo alle spalle (al momento non troppi, ma in Italia si finisce spesso per crescere tardi). Mancini è l’allenatore adatto a realizzare questa sintesi?
Bisogna dare al CT il credito di aver formato un ciclo vincente contro ogni previsione con la forza di idee originali e moderne, ma farlo due volte - con due squadre molto differenti - non è facile. Dopo la partita lui ha ribadito di essere l’uomo giusto: «L’entusiasmo ce l’ho, mi piace lavorare e allenare, e di idee ne ho da vendere». In un momento in cui il nostro paese non riesce a esprimere giocatori ricchi di talento, di idee ce n’è un disperato bisogno, com'è sempre stato negli ultimi anni. Se quelle di Mancini sono giuste, lo scopriremo solo seguendo questa Nazionale a cui, pur davanti a una sconfitta umiliante che segue la disfatta delle qualificazioni al Mondiale, dobbiamo concedere tempo e rispetto, lo dobbiamo, se non altro, in ricordo della magnifica estate italiana del 2021.