Un'altra fine del mondo si sta avvicinando: quella del 2013. Per prepararsi alla solita eventuale apocalisse, l'Ultimo Uomo ha chiesto ad alcuni collaboratori di meditare su tutte le cose mortali che si lasceranno alle spalle, e loro si sono confessati classificando il meglio e il peggio del 2013. In questa prima parte: l'Head of Content di VICE Italia, Lorenzo Mapelli, ha classificato i video rap che più ha visualizzato; Fabio Severo, curatore del blog fotografico Hippolyte Bayard e nostro consulente editoriale, ha scelto gli scambi più entusiasmanti dell'anno tennistico; Dario Vismara, il nostro espertissimo di basket e redattore di Rivista NBA, ha raccolto i suoi momenti cestistici indimenticabili; la giornalista Camilla Spinelli ha classificato i calciatori più forti che non hanno ancora scelto in quale Nazionale giocare; Giulio D'Antona, giornalista culturale fondatore di Cadillac Magazine eperverso appassionato di elenchi ha elencato i migliori elenchi del 2013; lo scrittore Nicola Bozzi ci ha parlato di Netflix, la sua rivelazione dell'anno; infine lo scrittore Cristiano De Majo ha classificato le cose consumate dallo scrittore Cristiano De Majo nel 2013.
Buona lettura.
Ecco la seconda e la terza parte della lista della fine del mondo.
I 5 video rap del 2013 che ho visto e ascoltato di più
di Lorenzo Mapelli (@sexypeople)
1. Yung Lean - Ginseng Strip 2002
Una delle rivelazioni dell'anno, Yung Lean è un ragazzo svedese di 17 anni che ha compiuto una piccola rivoluzione: è uno dei pochissimi "rapper" europei—forse l'unico di recente—ad essere stato riconosciuto e apprezzato in America. Il video, così come la traccia, devono sicuramente qualcosa all'estetica di Lil'B, ma è tutto molto più casalingo, europeo e adolescenziale. L'apice viene raggiunto nella scena in cui, nella sua cameretta con parquet, Yung Lean cerca di sistemarsi il suo berretto di lana della Polo (minuto 1:36).
Verso preferito: «Bitches come and go (bro) / But you know I stay»
2. Booba - Maître Yoda
L'essenza del tronista-criminale che ha fatto di Booba una star emerge con tutta la sua prepotenza in questo video girato tra Pattaya e la banlieue parigina da Chris Macari, l'Hype Williams francese. La base cupa, ma elegante nella sua arroganza, si sposa perfettamente con le location tailandesi fatte di spiagge paradisiache e decadenza da turismo sessuale colonialista. Il tutto è arricchito dall'impercettibile product placement del terribile marchio di Booba (Unkut), gli effetti da video rap del 2005, e il maestro Yoda che non c'entra davvero un cazzo.
Verso preferito: «Même dans la merde jamais découragé / Ribery m'envoie Zahia pour m'soulager»
3. Lil Bibby - For The Low
Si parte con la maglietta nera con scritta bianca FENDI, e da lì si prosegue in discesa con tanti pixel giganti e uno dei ritornelli più belli dell'anno: «I got snow, I got dro, everything for the low/ Everything must go, every fiend must know», una specie di strillo del fruttivendolo che annuncia le offerte del giorno alla sua clientela di tossici. Un classico Chiraqiano.
Verso preferito: «They like Bibby you intelligent, coulda' been a president / I'd rather be a dope boy, I really love selling shit»
4. R. Kelly - Genius
Non rap. Non video. La mia canzone preferita (insieme a questa con Future) dall'ultimo album di R.Kelly, l'ennesima in cui the boy Kells canta di come sia un drago a scopare, un genio addirittura. Non ci sarà mai dato sapere se Robert sia effettivamente un "gran scopatore", come dicono le sue canzoni, o se invece, come dicono i documenti del processo in cui è finito sotto accusa per pedo-pornografia, sia solo un mostro che preferisce urinare su delle adolescenti. Quello che sappiamo per certo è che solo un genio vero può cantare per più di 20 anni le stesse identiche cose e nonostante ciò continuare a scaldare cuori in questo modo.
Tornando a noi, il fatto che nell'embed ci sia una foto non è un errore: l'immagine di copertina è semplicemente perfetta, nessun video potrebbe accompagnare meglio la canzone.
Verso preferito: «I’m blessed with the insight to please your body / Girl tonight you’re lying with a sex genius»
5. JAY Z - Picasso Baby
Ci sono tanti motivi per cui il video di Picasso Baby non poteva mancare in questa lista. In primo luogo lui, Jay-z, e la sua capacità di innovare e abbattere barriere non tanto musicali, quanto socio-culturali. In secondo luogo, la location: nessuno avrebbe mai pensato di utilizzare un museo come il MOMA…. sto scherzando. Detesto questo video e tutto ciò che rappresenta. È senza dubbio il video peggiore dell'anno.
Gli scambi più belli del 2013
di Fabio Severo (@FabSevero)
La stagione maschile di tennis non lascia molti match da conservare negli annali, almeno non secondo la formula qualità tecnica + livello agonistico + importanza dell'occasione = partita memorabile. Ogni volta è mancato un ingrediente: Andy Murray ha vinto Wimbledon 77 anni dopo l'ultimo britannico (Fred Perry), ma la sua vittoria in 3 set contro Novak Djoković non è stata una partita mozzafiato, solo una vittoria per tre (sofferti) set a zero. Nadal ha vinto l'ottavo Roland Garros ed è diventato l'unico tennista a aver conquistato otto titoli di uno stesso torneo dello Slam, ma in finale ha passeggiato su David Ferrer; poi ha vinto l'US Open completando un comeback senza precedenti dopo sette mesi di infortunio, ma la finale contro Djoković neanche ha sfiorato le vette pugilistiche delle loro sei ore in finale in Australia l'anno scorso. Nessun nuovo campione è emerso, qualche vecchio campione è calato, il dramma e il talento si sono distribuiti più o meno casualmente tra turni intermedi di grandi e piccoli tornei. La partita dell'anno è stata l'ottavo di finale in Australia tra Djoković e Stanislas Wawrinka, vinta per 12-10 al quinto dal primo, ma si trattava solo di un quarto turno; poi c'è stata la semifinale a Wimbledon tra Djoković e Juan Martín del Potro, vinta dal primo per 6-3 sempre al quinto. Infine la semifinale dell'US Open di nuovo tra Djoković e Wawrinka, vinta per 6-4 da Nole ancora una volta all'ultimo set. Insomma, se c'è da combattere sulla distanza in piedi resta sempre solo uno, salvo che si trovi di fronte Nadal: al Roland Garros hanno giocato in semifinale, ha vinto lo spagnolo 9-7 all'ennesimo set decisivo. Chi comanda l'abbiamo capito, e nell'anno che verrà nulla sembra poter cambiare; nel frattempo allora ecco i dieci punti dell'anno (più due menzioni d'onore), scompaginando le gerarchie di dominio per fantasticare un po', immaginando cosa accadrebbe se alcuni di questi giocatori potessero ripetere sempre queste fiammate di "bellezza cinetica" [cit.]. Bellezza che si è spesso rivelata fine a se stessa, ma che importa.
1. Novak Djoković v Stanislas Wawrinka. Australian Open, ottavi di finale. 21 colpi
La cosa più incredibile di questo punto non è neanche lo scambio in sé, ma il fatto che Wawrinka sia riuscito a giocare per ore a questo livello. In uno stato di sublime trance agonistica e sempre sul punto di fondere, lo svizzero minore ha continuato a creare gioco di fronte al muro di gomma serbo, che qui dimostra tutta la sua inumana difesa e lettura del gioco. Se Wawrinka fosse così a ogni partita sarebbe top 3 da anni, poi è ovvio che spesso e volentieri quei rovesci lungolinea gli escano di due metri: è impossibile correre così tanto e spingere così tanto e chiedere così tanto ai propri colpi ogni punto, ogni partita, ogni torneo.
2. Juan Martín del Potro v Andy Murray. Indian Wells, quarti di finale. 4 colpi
«Se guardate con attenzione il replay, vedrete una scia di vapore che segue la palla.»A ogni sport il proprio gergo da telecronaca: nel tennis il tono bombastic non funziona tanto bene, ma il dritto in corsa di Delpo è unico, nessuno genera simili velocità su uno spostamento laterale. Sa fare poche cose, ma le fa benissimo: va poco a rete, evita le smorzate, non varia il gioco ma ha un dritto piattissimo eroico, l'opposto della gestione arrotina del margine di errore e le parabole alte prodotte dalle corde e dai telai moderni. Prende la mira, rischia grosso, però lo fa con la sicurezza di chi sa come si vince. Avesse più soluzioni tecniche forse non sarebbe così esplosivo. Il più alto giocatore ad aver mai vinto uno slam, vorrà dire qualcosa. «Questo dovrebbe valere due punti», dice l'altro telecronista dopo il suo passante incrociato a 170km/h.
3. Rafael Nadal v Grigor Dimitrov. Monte Carlo, quarti di finale. 12 colpi
Di fronte al campione in carica degli otto anni precedenti, il bulgaro clone di Federer Grigor Dimitrov annulla un match point a Nadal sotto 4-5 e 30-40 nel terzo set, sulla sua amata terra monegasca, lentissima: uno scambio in cui a ogni colpo lo spagnolo lo spinge un po' più indietro, costringendolo a colpire sopra la spalla con i suoi rimbalzi abnormi. Sbattuto da una parte all'altra, Dimitrov salta su un'ultima palla e scarica un dritto vincente lungolinea da più di due metri dietro la riga di fondo. Colpo della disperazione, frutto delle allucinazioni da crampi in cui Baby Fed è ormai caduto. Non si vincono così le partite, ma è bello vedere il cupio dissolvi che lascia spazio a questi colpi a occhi chiusi. "Go-for-broke", dicono gli americani, bisognerebbe trovare un equivalente nostrano.
4. Andy Murray v Richard Gasquet. Miami, semifinale. 19 colpi
«Richard Gasquet si trasforma in Super Saiyan, crea materia oscura e colpisce questo stupendo rovescio a 165 km/h. Se guardate bene vedrete che la pallina abbatte il muro del suono.» L'utente che ha caricato il video su YouTube descrive accuratamente ciò che accade in campo alla fine di questo scambio. Quello di cui non parla è la malcelata superbia con cui Gasquet guarda la traiettoria del suo rovescio, voltandosi subito dopo e gesticolando stizzito verso un raccattapalle. Percentuale di riuscita di un simile colpo: 1%. L'unica motivazione per tentarlo è il disprezzo assoluto per la banale pugna, l'egocentrismo del voler sempre decidere come si vuole vincere, ma anche come si vuole perdere. Gasquet purtroppo è maestro soprattutto nel secondo campo.
5. Dustin Brown v Lleyton Hewitt. Wimbledon, secondo turno. 7 colpi
Tedesco-giamaicano con i dread, fa serve & volley su prima e seconda e per anni è andato in giro per l'Europa in camper, a giocare tornei da due soldi: ovviamente quando Dustin Brown ha battuto Lleyton Hewitt al secondo turno di Wimbledon erano tutti lì a lodare la sua coolness. Qui lo vediamo vincere il primo set con una volée in tuffo da Holly e Benji del tennis, con annessa esultanza calcistica. Brown ha un gioco all'avventura, senza calcolo, costretto ad andare avanti perché indietro non ci sa stare. Quando funziona è uno spettacolo, ma a questi livelli non riesce quasi mai. Basta osservare la sua risposta al servizio di Hewitt che prepara la discesa a rete: non è una profondità calcolata, è solo una sassata. Il problema con Brown (n. 111 a fine anno grazie al terzo turno raggiunto a Wimbledon) è l'esito dei suoi arrembaggi: una volta sulla linea, quella dopo sui teloni. Quest'anno ha vinto due partite nel circuito maggiore, su cinque giocate. «Ho pianto come una ragazzina», ha detto dopo la vittoria su Hewitt. «A Rasta man run di world!», ha twittato poi dagli spogliatoi.
6. Mikhail Youzhny v Benjamin Becker. Doha, primo turno. 30 colpi
Persi tra i banneroni degli sponsor del ricco torneino in Qatar che apre il tour a gennaio, due tennisti minori che ormai non vincono più regalano a qualche sceicco annoiato e a molte sedie vuote uno dei migliori scambi dell'anno, giocato come se tutta la stagione dipendesse da quel punto, con l'entusiasmo di due ultratrentenni freschi di vacanza con tutto l'anno davanti, e non ancora nelle giunture. Uno incrocia e l'altro va lungolinea, uno taglia sotto e l'altro fa una smorzata, poi pallonetto, gancio di spalle in recupero, dritto al volo e infine Youzhny che passa cross-court di rovescio senza neanche guardare: come un'esibizione, ma giocato davvero. Uno alza il pugno, l'altro sorride, tre-quattro applaudono e dopo nessuno se lo ricorda più fino alle classifiche di fine anno, quando tutto fa brodo.
7. Rafael Nadal v Ernests Gulbis. Roma, ottavi di finale. 6 colpi
«Jesus.» Questa volta il telecronista non ha punch line per il missile di dritto tirato (dopo altri due) da Ernests Gulbis a Roma contro Nadal. Il lettone miliardario rappresenta quella tipologia di atleti convinti profondamente di essere i più forti, a prescindere dai risultati ottenuti. Il che genera quasi sempre due tipi di risultati: grandi vittorie, penose sconfitte. Gulbis sinora ha vinto qualcosa e perso molto, ma è bello vederlo letteralmente sfondare la copertura del campo di Nadal. D'altronde le poche sconfitte a sorpresa di Rafa sono arrivate solo da avversari invasati, che hanno tirato vincenti per tutta la partita. Come Gulbis in questo caso: 59 per lui, 13 per Nadal. Non è bastato. «Nadal non ha fatto niente di speciale, ma è un campione», il finto complimento di Gulbis dopo la partita. «Talent ain't enough», la scritta sulla T-shirt Nike di Nadal durante molte conferenze stampa di quest'anno.
8. Rafael Nadal v Novak Djoković. Montreal, semifinale. 11 colpi
Come si sceglie il punto dell'anno tra Nadal e Djoković? Hanno giocato sei volte, vinte tre a testa, giocato 18 set: ci sono i 54 colpi della finale dell'US Open, la mini-maratona su cui è stato scritto tanto ma che rimane uno scambio di resistenza e di controllo, un paziente lavoro per piegare l'avversario e conquistare terreno, con poche acrobazie o invenzioni. Allora tanto vale prendere il controverso scambio di Montreal, dove Nadal in recupero su una smorzata colpisce al volto Djoković, che lo aspettava a rete. Tensione, faccette, scuse non accettate. D'altronde il senso della loro rivalità, che è diventata la più lunga di sempre per numero di match (e che lo resterà per chissà quanto), è sempre stata e rimarrà una sola: prendere a pallate l'avversario. Almeno questo scambio non dura 54 colpi.
9. Novak Djoković v Stanislas Wawrinka. Australian Open, ottavi di finale. 20 colpi
Il match point dell'anno, forse anche dell'anno scorso e quello prima. Scambio lungo, Wawrinka verso la fine tira prima un rovescio incrociato poi un dritto lungolinea come solo i campioni tirano sotto match point, colpi che avrebbero chiuso lo scambio contro chiunque (tolto Nadal). Sul primo Djoković recupera con la sua scivolata trademark, quell'aberrazione atletica (scivolare sul cemento) che ha cambiato il gioco imponendo agli avversari di fare cose nuove, non previste e mai pensate, per non vedersi tornare la palla indietro; sul secondo altro recupero abnorme di rovescio, in slice, una palla corta che costringe Wawrinka a scendere a rete, frettolosamente. Piazza un attacco sempre nell'angolo sinistro profondo quanto basta, che gli avrebbe dovuto permettere almeno di giocare una volée. No. Djoković, con quel muoversi fluido e strappato insieme, mistero atletico che appare naturalissimo e al tempo stesso costruito in laboratorio, si raccoglie attorno alla palla e incrocia di rovescio passandolo con un angolo strettissimo. Wawrinka neanche ci mette la racchetta e va giù in ginocchio, Djoković alza le braccia con l'occhio sgranato, la faccia di chi si è preso quello che gli spettava sin dall'inizio.
10. Roger Federer v Victor Hanescu. Wimbledon, primo turno. 7 colpi
Si poteva scegliere qualcos'altro, uno scambio più lungo, almeno qualche dritto dei suoi. Ma questa discesa a rete di Federer sull'erba vergine di inzio Wimbledon racconta meglio la stagione grigia del Maestro, ormai numero 6 del mondo. Nell'occasione ha battuto Hănescu in 68 minuti, un tempo brevissimo per una partita al meglio dei cinque set, e poi nel secondo turno ha perso contro il numero 116 Sergiy Stakhovsky. Subito fuori, e da campione in carica: Federer arrivava (almeno) ai quarti di uno slam da trentasei tornei consecutivi, insomma da nove anni. Per quasi tutta la stagione ha faticato a mettere due o tre ottime partite in fila, il gioco che andava e veniva anche nell'arco di pochi game. Schiena sofferente, cambi di racchetta abortiti, sconfitte con sconosciuti, Djoković che gli dice che non è più veloce come una volta. Un pasticcio, mentre lui continua a non tirare mai una racchetta per terra, a scuotere giusto un po' la testa o fare qualche pugnetto sui punti belli. E allora ricordiamolo così, che fa una volée di puro riflesso "al passeggio", con l'aria di chi scaccia una mosca mentre fa il giro delle stanze del castello. Il resto dell'anno è stato un po' un inutile affannarsi, in fondo.
Fuori concorso
Radek Stepanek v Fabio Fognini. Cincinnati, primo turno. 0 colpi
«Fabio, Radek l'ha sentito, tutti l'hanno sentito. Forse non eri attento, ma io l'ho annunciato.» Fabio Fognini è riuscito a perdere una partita non facendo giocare una sola palla all'avversario nell'ultimo game. È andata così: Fognini serve per rimanere nel match, fa un doppio fallo e spara via la palla, poi ne fa un altro e la rispara via. Tra un punto e l'altro l'arbitro gli dà un warning, che al secondo ball abuse diventa un punto di penalità (Fognini non ci crede, da cui il rimbrotto paterno dell'arbitro). Quindi 0-40, con Fabio molto incazzato che commette apposta un doppio fallo di piede e se ne va. Ovvio che l'ATP abbia sul sito un suo profilo che si intitola Understanding Fabio.
Tommy Haas v Gaël Monfils. Halle, quarti di finale. 9 colpi
Solo Gaël Monfils. C'è una clip di un quarto d'ora di conferenza stampa in cui prova a spiegare perché l'ha fatto, e non si capisce lo stesso.
I 5 motivi per cui ricorderò il 2013 in NBA
di Dario Vismara (@Canigggia)
1. E se quel tiro fosse uscito?
Del tiro di Ray Allen, se seguite anche solo tangenzialmente la NBA, sapete già tutto, quindi non vale neanche la pena dilungarsi sul perché è la storia dell'anno: nel momento stesso in cui è finita gara-6 delle scorse Finali è diventato uno dei tiri più importanti e iconici della storia della NBA, uno di quelli che vengono chiamati “Instant Classic”. Ma cosa sarebbe successo se quel tiro fosse uscito e i San Antonio Spurs avessero vinto il titolo? So che è brutto da dire, ma gli Spurs quel titolo non lo avrebbero vinto comunque: sarebbero stati gli Heat, o ancora di più LeBron James, a perderlo, o almeno così ce lo avrebbero raccontato. Nei mesi successivi non si sarebbe parlato d'altro che degli ultimi 3:48 dell'ultimo quarto, in cui James—dopo essere andato in «modalità Mostro di Fumo di Lost» (© Bill Simmons) con 13 punti, 2 rimbalzi, 2 assist e una stoppata nei precedenti otto minuti senza fascetta—ha perso tre palloni (due nell'ultimo minuto) e ha sbagliato due delle tre triple tentate, tra cui quella che poi ha originato il tiro di Ray Allen. Ecco un breve riepilogo delle frasi che avreste letto su James e gli Heat in varie salse e forme se avessero perso: “LeBron non è clutch”, “LeBron nel 2012 ha battuto una squadra giovane, quel titolo non conta (ed era pure anno del lockout, quindi con l'asterisco)”, “LeBron non è il più forte giocatore del mondo”, “L'esperimento Heat è fallito”, “Dwyane Wade è finito”, “Chris Bosh è overrated” (questa potreste leggerla comunque in giro per il web), “Erik Spoelstra è un incapace”, “Il vero Ray Allen quel tiro lo avrebbe messo”.
Al contrario, Gregg Popovich avrebbe cementificato il suo status di leggenda vivente (e tanti saluti alle domande sui “falli alla europea”), Tim Duncan quello di “miglior ala forte di tutti i tempi” (primo tempo da 25 punti con 11/13 al tiro, ma chi se lo ricorda più?), Tony Parker avrebbe incorniciato la foto della sua tripla in step-back in faccia a LeBron con cui aveva pareggiato la partita, Kawhi Leonard avrebbe potuto seriamente vincere il titolo di MVP delle Finali e Manu Ginobili avrebbe vinto il quarto anello della sua inimitabile carriera. Questo è il mondo in cui viviamo: un singolo tiro è in grado di ribaltare il destino e il giudizio sulla carriera di un giocatore, di un allenatore e di un'intera squadra, come se tutto quello che è successo prima non fosse mai accaduto. “You are only as good as your last game”, sei tanto forte quanto l'ultima partita che hai giocato. Ed è tanto bello da vedere quanto ingiusto da vivere.
2. Il più grande esperimento fallito di tutti i tempi?
I Los Angeles Lakers della stagione 2012-2013 avrebbero dovuto essere al posto degli Spurs alle Finals, almeno considerando i pronostici di inizio anno. D'altronde, come è possibile che una squadra con quattro Hall of Famer come Steve Nash, Kobe Bryant, Pau Gasol e Dwight Howard non lotti per il titolo? La realtà delle cose ci ha raccontato che non sono nemmeno riusciti a riprendersi il predominio sulla città di Los Angeles, con quattro derby persi in stagione contro i Clippers di Chris Paul (uno che sarebbe dovuto diventare un Laker, ma questa è un'altra storia) e hanno dovuto fare i conti con tre allenatori cambiati—dopo aver sedotto&abbandonato nientepopodimenoché Phil Jackson—, infortuni e problemi fisici per tutti i giocatori del roster in vari tempi e modi, la morte del proprietario Jerry Buss e la battaglia fratricida tra i figli Jimmy e Jeanie per il controllo della franchigia, un rapporto mai decollato tra Bryant e Howard (d'altronde, uno si alza alle 4 per allenarsi e l'altro gioca coi Lego in albergo...), la convivenza difficile tra D'Antoni e Gasol, sconfitte a raffica, l'infortunio al tendine d'Achille di Kobe, eccetera eccetera... Quando i Lakers implodono, lo fanno sempre in maniera spettacolare, ma più spettacolare dell'anno scorso—considerati nomi, premesse e aspettative di inizio anno—è difficile da trovare nella storia della NBA. Forse solo i Lakers del 2004 con Bryant, Shaq, Gary Payton e Karl Malone si avvicinano, ma almeno loro alle Finals ci erano arrivati; questi invece hanno conquistato i playoff solo all'ultima partita di regular season e sono usciti per 4-0 in una serie non-competitiva con gli Spurs. Quando gli abbiamo chiesto quale fosse stato il problema nella scorsa stagione, a inizio anno Mike D'Antoni ha risposto che “tutti volevano bere e nessuno voleva portare l'acqua”, facendo anche intuire che i giocatori si odiavano neanche troppo velatamente nello spogliatoio. E come ciliegina sulla torta come dimenticare che Howard, colui che avrebbe dovuto rinverdire la legacy dei grandi centri della storia dei Lakers (Mikan-Chamberlain-Jabbar-O'Neal), pur di portare i suoi talenti da un'altra parte ha rinunciato a 30 (tren-ta!) milioni di dollari? Tutto questo mentre dall'altra parte dello Staples Center i Clippers vivevano la miglior stagione della loro storia, pur uscendo in maniera abbastanza clippersiana al primo turno dei playoff, riuscendo a rifirmare Chris Paul per i prossimi cinque anni (e senza che questa venisse considerata una notizia!). E nonostante ciò, tutta la NBA non faceva altro che parlare dei gialloviola: le gerarchie in campo saranno anche cambiate, ma come dice il maestro Jimmy Goldstein, «It's still Lakers town».
3. The Battle of the Boroughs
A proposito di rivalità: il 2013 verrà ricordato anche come l'anno dell'inizio di quella tra i New York Knicks e i nuovi arrivati Brooklyn Nets. Le premesse di fine 2012 sono state incoraggianti, ma è nella scorsa estate che si è iniziato a fare sul serio. Ad aprire le danze ci ha pensato Jason Kidd—che nella scorsa stagione ha chiuso la sua carriera da giocatore vestendo il blu&arancio, portando i Knicks a 54 vittorie e (ehm) battendo i Nets con il tiro decisivo del primo derby—quando ha attraversato il ponte di Brooklyn per sedersi sulla panchina dei Nets così, da un giorno all'altro, senza dire niente a nessuno, come se fosse una semplice transizione tra difesa e attacco con la palla in mano, investendo anche dei soldi e diventando azionista della franchigia dell'oligarca russo Mikhail Prokhorov. La rivalità è andata in crescendo con l'arrivo a Brooklyn di Kevin Garnett e Paul Pierce, due terzi dei Big Three che a Boston hanno scritto più di una pagina di storia NBA, ma anche due che con New York hanno sempre avuto un rapporto conflittuale, in particolare il secondo che ha esordito dicendo «Tutti sanno quanto io disprezzi i Knicks, ma ora siamo ad un livello superiore. È tempo che i Nets prendano il controllo della città», facendo sembrare il «chi non salta rossonero è» di Thohir un buffetto tra bambini. Parole che hanno provocato la reazione della linguaccia di J.R. Smith, guardia di New York, che gli ha dato della «persona triste», che «non sa di cosa sta parlando» e che le sue parole «avrebbero avuto delle conseguenze». Due squadre con ambizioni da titolo divise da una trentina di minuti di metropolitana nella città più famosa (e mediatica) del mondo: tutto sembrava pronto per una grandissima rivalità, no? Già, peccato che poi al primo intertempo della stagione abbiano combinato 16 vittorie e 30 sconfitte (9-14 Nets, 7-16 Knicks) e una serie di figuracce in giro per gli States di cui si fatica a trovare un corrispondente nella storia NBA. Com'è che faceva quel coro da stadio? «Volevano vincere, volevano vincere...» Ecco, Knicks e Nets in questo momento—con i due monti salari più alti della NBA (88 milioni New York, addirittura 102 Brooklyn, senza contare le costosissime luxury tax) e senza scelte al Draft per i prossimi cinque anni circa—sono proprio in quella condizione lì.
4. Il modello Indiana e l'ascesa di Paul George
La NBA è un mondo straordinario perché chi ha i soldi non è detto che vinca. Anzi. Basta vedere le situazioni appena descritte delle squadre di New York e poi guardare ai piani alti della classifica, dove gli Indiana Pacers hanno il miglior record della Lega con 20 vittorie e 3 sconfitte al momento in cui scrivo. Il lavoro dei Pacers si è concretizzato solo quest'anno fino a diventare un modello per le altre squadre, ma ha radici che partono da più lontano. Indiana fa parte di quelle che vengono chiamate “small market teams”, ovvero squadre con un bacino di interesse (principalmente mediatico/televisivo, ma anche di sponsor e marketing) ridotto rispetto ai mastodonti di L.A., New York o Chicago. A differenza di altre squadre di mercati minori, come ad esempio gli Oklahoma City Thunder, i Pacers sono inoltre riusciti a costruire una squadra da titolo senza mai scegliere in alto al Draft o aver preso un giocatore-franchigia tra i free agent. Questo significa che non hanno mai potuto scegliere una superstar, il Kevin Durant o il LeBron James di turno, ma che hanno fatto di necessità virtù e costruito la squadra un pezzo per volta, ricostruendo dalle ceneri della squadra distrutta nella famigerata rissa del Palace di Auburn Hills del 2005 ( qui un'eccezionale ricostruzione dell'episodio). Uno dopo l'altro sono arrivati Roy Hibbert (scelto alla 17 da Toronto e inserito in uno scambio per Jermaine O'Neal) nel 2008, Paul George (decima scelta) e Lance Stephenson (40esima) nel 2010, David West (free agent) e George Hill (scambiato per la scelta poi diventata Kawhi Leonard) nel 2011, ovvero i membri del quintetto che ora terrorizza la NBA intera con la sua difesa. Anche l'allenatore, Frank Vogel, è un prodotto interno, essendo stato promosso a capo allenatore nel 2011 (da lì in poi 131 vittorie e 77 sconfitte in regular season e 18-17 ai playoff). Il caso più emblematico è quello della stella di questa “squadra che si è fatta da sola”, ovvero Paul George: arrivato da un college semi sconosciuto (Fresno State) come guardia alta 2,05 e dalle braccia chilometriche, anno dopo anno è migliorato fino a diventare ora uno dei primi cinque giocatori della NBA tanto in attacco quanto in difesa, e un più che degno candidato MVP se la stagione finisse oggi. L'artefice di tutto questo è niente meno che Larry Bird, che se riuscisse nell'impresa di portare al titolo questa squadra rischierebbe di diventare un dirigente tanto bravo quanto lo era da giocatore (già sapete) e allenatore (Finali del 2000 perse contro i primi Lakers di Shaq e Kobe). Negli ultimi due anni si sono fermati solo a cospetto del Re e del resto degli Heat, ma facendoli sempre soffrire, perdendo rispettivamente in 6 e 7 gare: se si rincontrassero di nuovo nei prossimi playoff, come appare probabile, il pronostico potrebbe addirittura vederli favoriti.
5. Il culto pagano del miglior tiratore di sempre
Per seguire la NBA si può essere tifosi di una squadra, ovviamente, ma è ancor più facile diventare tifosi di un singolo giocatore. D'altronde, il lavoro di marketing sulle superstar da parte della Lega è ineguagliato e ineguagliabile da chiunque altro negli sport di squadra. Se ci fosse una classifica di “tifosi guadagnati nell'ultimo anno solare”, nessuno avrebbe guadagnato più fan di quanti ne ha conquistati Stephen Curry nel 2013. Prima dell'ultima stagione, il numero 30 di Golden State era considerato un buonissimo giocatore, un ottimo tiratore, ma troppo fragile fisicamente per “reggere” in NBA, specialmente con quelle caviglie sempre a rischio. Nell'ultimo anno, risolti un po' di problemi fisici e irrobustito il corpo (le braccia, viste da vicino, sono impressionanti), è sostanzialmente diventato un videogioco: tira con una semplicità impensabile anche al più alto livello del mondo e sta frantumando ogni record di triple a segno, sia su singola stagione (272 l'anno scorso, primato di ogni epoca in NBA), che in carriera (717 finora, solo altri tre giocatori—Ben Gordon, Nick Van Exel e Kyle Korver —hanno segnato più di 700 triple nei primi 5 anni di carriera, ma ci sono riusciti giocando quasi 100 partite più di Curry e nessuno tirando sopra il 42%). Ma al di là dei numeri, è l'entusiasmo che Curry ha creato attorno al suo nome e alla sua persona a stupire: non esiste al mondo un singolo appassionato di NBA che non lo apprezzi, molto semplicemente perché rende divertente l'esperienza di vedere una partita di pallacanestro e oltretutto lo fa giocando in una squadra ultra-offensiva e spettacolare come i Golden State Warriors, con un palazzetto meraviglioso e dei colori fantastici (perché essere fighi in California viene un po' più semplice rispetto a Milwaukee). Alcune sue prestazioni, come i 54 punti al Madison Square Garden con 11/13 da tre o alcune partite degli scorsi playoff, sono già consegnate alla storia tra le più assurde prestazioni balistiche di un singolo giocatore, e la cosa bella è che non segna tutti i suoi punti venendo “assistito” da altri, come altri grandi specialisti del passato, ma creando tutto dal palleggio, come un moderno Allen Iverson che però tira il 45% da tre. Ecco, Curry e Iverson forse hanno poco a che spartire da un punto di vista puramente cestistico (se non l'altezza ridotta), ma questa cosa è simile: il culto pagano che si è sviluppato attorno a loro non aveva e non ha eguali nel resto della NBA.
I 3 calciatori che nel 2013 non hanno ancora nazionalità, e un quarto che l’ha cambiata di recente
di Camilla Spinelli(@CamillaSpinelli)
I criteri di convocazione della FIFA sono stati modificati nel 2004. Fino a quella data un calciatore poteva essere convocato da due Nazionali nell’arco della carriera, a patto di possedere la doppia cittadinanza. Dal 2004, invece, la FIFA ha aggiunto alcune modifiche:
- un giocatore può giocare per una Nazionale, diversa da quella del paese di nascita, solo dopo aver vissuto in quel paese per un minimo di 5 anni o grazie ad un genitore o un nonno nati lì;
- se un calciatore ha giocato per una Nazionale maggiore in gare ufficiali, a meno di casi particolarissimi, non può cambiare Nazionale. (Un caso che ha fatto discutere è stato quello di Thiago Motta che ha potuto rispondere alla convocazione di Prandelli solo dopo la conferma da parte della federazione brasiliana di non aver utilizzato la Nazionale maggiore alla CONCACAF Gold Cup del 2003, in cui fu schierato);
- a livello giovanile i calciatori possono essere convocati da più Nazionali, senza che questo vada a inficiare sulla carriera nella Nazionale maggiore.
Ecco i Top 3 casi (ancora da risolvere) del 2013, e 1 risolto.
3. Gedion Zelalem
Zelalem è un centrocampista con ottime intuizioni offensive, molti commentatori inglesi vedono in lui le giocate e i movimenti di Cesc Fàbregas. Ha sedici anni, gioca con la maglia dell’Arsenal, non ha ancora debuttato in Premier ma si è fatto conoscere durante la torunée asiatica della scorsa estate. Nato a Berlino ma figlio d’immigrati etiopi, a soli 9 anni si è trasferito negli Stati Uniti alla Walter Johnson High School in Maryland, per poi arrivare ai Gunners nel gennaio scorso. Nei prossimi cinque anni, se la sua carriera continuerà in Inghilterra e se confermerà le sue qualità, avrebbe la possibilità di giocare con la Nazionale inglese ma, grazie alle sue radici africane, potrebbe scegliere di indossare i colori dell’Etiopia. In questi ultimi mesi sono arrivate anche le dichiarazioni di Sewnet Bishaw, selezionatore etiope, che ha suggerito a Gedion di rappresentare i colori del paese d’origine dei propri genitori. Non scordiamoci però dei suoi anni trascorsi negli Stati Uniti visto che il papà, in un’intervista al Washington Post di qualche mese fa, non ha allontanato del tutto la possibilità di vederlo in futuro con la Nazionale a stelle americana. Aspettate, ma lui è nato a Berlino! E allora ecco che la Nazionale tedesca sarebbe pronta ad accoglierlo a braccia aperte.
E per il momento lui sembra aver scelto la Germania. Durante lo stop dei campionati di novembre scorso, Zelalem è stato convocato dall’Under 17 dove ha anche avuto modo di scattare una foto e condividerla subito su Twitter insieme a quello che considera il suo mito, anche lui figlio di questa globalizzazione del calcio: Mesut Özil.
2. Tom Rosenthal
Il papà Ronny, il primo calciatore straniero a essere stato comprato da una squadra di Premier per più di 1 milione di sterline, è israeliano mentre la mamma è belga. Tom, diciotto anni, è belga e gioca nelle giovanili del Watford. In questa stagione, dopo aver segnato un gol pazzesco con la maglia della Nazionale minore del Belgio—che secondo molti ha ricordato addirittura Maradona per tecnica, velocità di pensiero ed esecuzione—è entrato subito subito nel gruppone di quei giovani calciatori che sono tuttora convocabili da diverse Nazionali. La federazione Inglese è alla spasmodica ricerca di una new generation e, per questo motivo, nei suoi piani rientrerebbe anche Rosenthal. Il problema è che lui sembra fortemente intenzionato a preferire il Belgio, una Nazionale in ascesa e piena di talento, che ha una programmazione di lungo periodo decisamente più solida di quella inglese. L’Inghilterra, infatti, ha la stessa percentuale di immigrati della Germania—il 12% della popolazione totale—ma, rispetto alla Mannschaft, si è accorta con molto ritardo della potenziale forza di questa fetta di popolazione.
E la Nazionale israeliana, in tutto ciò? Ci sono segnali di interesse. Insomma, anche questo sembra un caso di quelli che richiederanno l’intervento dei caschi blu.
1. Adnan Januzaj
Se i casi di Zelalem e Rosenthal vi sembrano complicati, allora Januzaj… Il campioncino di 18 anni ha impressionato tutti durante Manchester United-Sunderland di inizio campionato: per una settimana i giornali inglesi in pratica hanno parlato solo di lui. È nato a Bruxelles ma in questo momento potrebbe scegliere:
- il Belgio, il paese dove ha vissuto gran parte della sua vita prima di trasferirsi a Manchester;
- l’Albania, paese di origine della madre e luogo dove i suoi genitori sono cresciuti;
- il Kosovo, visto che è il paese di orgine di Abedin, suo padre (ma la FIFA non ne riconosce ancora la nazionale);
- la Turchia, i suoi nonni sono turchi;
- l’Inghilterra, ma è a Manchester solo da 2 anni quindi dovrebbe aspettarne altri 3 prima di essere considerato selezionabile. Tra l’altro, Roy Hodgson sembra intenzionato a reclutarlo nel più breve tempo possibile.
La famiglia e il procuratore però hanno fatto più volte sapere che la Nazionale kosovara sarebbe la sua prima scelta se solo la FIFA le riconoscesse lo status in breve tempo. Per adesso sembra una possibilità da escludere e l’Inghilterra potrebbe essere l’opzione più sensata.
Mentre in molti cercano di trovare un senso a questa specie di puzzle, in Albania non hanno perso tempo e hanno cominciato a etichettare Adnan come traditore. L’argomento è arrivato fino ai talk show in prima serata. Per capire da dove nasce tutto questo interesse verso la questione bisogna tornare agli anni della guerra nella ex Jugoslavia, anni in cui la famiglia di Adnan ha svolto un ruolo di primo piano per fermare l’escalation di violenza e razzismo contro gli Albanesi in Kosovo. Alcuni membri della sua famiglia, si arruolarono nel KLA, il Kosovo Liberation Army e dopo la morte del nonno di Adnan, suo padre riuscì a volare in Belgio e mandare a casa i soldi per permettere al resto della famiglia di vivere e combattere. Insomma gli Januzaj sono un po’ degli eroi, in Albania, e se non giocasse per la Nazionale albanese sarebbe un po’ un dolore per federazione e tifosi.
Anche se l’impresa sembra quasi impossibile, la federazione kosovara non sembra voler mollare la presa. L’obiettivo continua a essere quello di ottenere il riconoscimento dalla FIFA e, chissà, vedere proprio Januzaj giocare con la fascia da capitano.
Bonus: Diego Costa
«Penso che dobbiamo rispettare la sua decisione. Non è stato preso in considerazione e per questo motivo ha deciso di giocare per la Spagna. Ho l’impressione che abbia fatto la scelta giusta dato che non è stato considerato adeguatamente.» Pelè commenta così la scelta di Diego Costa di giocare per la Spagna dopo aver già indossato la maglia del Brasile proprio nel 2013 e aver ottenuto la cittadinanza spagnola (ha raggiunto infatti i cinque anni di permanenza in Spagna). Quelle giocate dall’attaccante dell’Atletico Madrid con la Selecão però erano solo due amichevoli, quindi si può. Diego Costa ha motivato la sua scelta affermando che la Spagna è il paese dove si è sentito realizzato professionalmente e, come ha sottolineato anche Pelè, finalmente considerato. Scolari infatti non ha mai preso sul serio l’attaccante che, prima del Marzo 2013, non era stato convocato dai verdeoro—anche a causa, c’è da dire, di un infortunio al crociato che lo ha tenuto fuori gioco per mesi.
La federazione brasiliana ha fatto di tutto per mettere in cattiva luce la scelta di Diego Costa, arrivando ad affermare che alla base della decisione ci sarebbero principalmente motivi economici (anche se non ci sono prove a suffragio di questa tesi) e addirittura richiedendo inutilmente al Ministero della Giustizia brasiliano la revoca della cittadinanza per il calciatore. Il punto è che anche se non rientrano in gare ufficiali le amichevoli hanno comunque un peso per il ranking FIFA. La vittoria della Svizzera per 1-0 proprio contro il Brasile è stata fondamentale per la Nazionale allenata da Hitzfeld, permettendogli di diventare testa di serie del sorteggio mondiale. Questo elemento, secondo la federazione brasiliana, avrebbe dovuto pesare nella decisione della FIFA prima di dare l’ok definitivo al calciatore.
In sintesi, i brasiliani dopo essersi accorti troppo tardi del talento di Diego Costa, hanno cercato inutilmente di montare un polverone per ostacolare il matrimonio tra l’attaccante e la Spagna, che diventa ancor più forte in vista di Brasile 2014.
La lista delle liste. Ovvero: essere così attratto dagli elenchi da decidere di elencare i migliori elenchi
di Giulio D'Antona (@GiulioGDAntona)
1. Time's top ten everything
Mi sembra giusto partire dall'infinitamente grande, ma anche infinitamente classico. Ecco la classifica omni-comprensiva del Time nella sua forma 2013, divisa per sezioni ragionate e racchiuse in una sola spettacolare pagina che rimanda a centinaia di altre. Categorie e sottocategorie, da Arte e intrattenimento (spoiler: capeggia il faccione di Walter White e il primo film è deludente) alle Scienze, passando per le migliori fotografie e gli animali più influenti dell'anno. Se fossi un paraculo avrei potuto usare solo questa lista.
2. La storia (e il futuro) del mondo in 100 oggetti
BBC, già qualche anno fa, ha messo in piedi questo progetto mastodontico costruito in forma di podcast in collaborazione con il British Museum—e già questo è bellissimo—in cui si racconta la storia dell'umanità partendo dalla prima cosa archiviata: un utensile di pietra di due milioni di anni fa. Le puntate sono cento e per chi volesse ascoltarle è una grande esperienza. Ma a rendere tutta questa storia ancora più interessante è che qualcuno l'ha presa come spunto per provare a costruire, con le stesse modalità in cui BBC e BM hanno raccontato il passato, il racconto del futuro. Per ora è un invito su Kick Starter ma profuma di grandezza.
3. La meta-lista dei migliori libri secondo tutti
A tirare le somme sui libri migliori dell'anno sono capaci tutti. Per questo Linkiesta ha pescato in tutte le classifiche uscite per i maggiori siti, giornali e periodici di lingua inglese. Cito questa lista non per vicinanza professionale, quanto per vicinanza ideologica. Sono tutti libri anglosassoni e quasi nessuno è ancora uscito in Italia (tranne il primo, a gran ragione) e sono una cosa su cui mi sento abbastanza preparato da dare un giudizio, fosse anche solo il fatto di immedesimarmi nella meta-lista.
4. I peggiori film secondo Rotten Tomatoes
Anche questo è un classico. In realtà di questi film ne ho visti pochi—e questo non vuol dire che io abbia buon gusto più di quanto voglia dire che ho poco tempo per andare al cinema—però ho visto quello in quinta posizione, che qui non nominerò per pudore.
5. Le migliori copertine di periodici
Quella di coverjunkie.com è una lista che appaga due delle mie passioni morbose: l'attrazione per gli elenchi già nominata e l'amore per le serie di cose colorate messe in file ordinate. L'impatto visivo, unito alla pienezza di titoli, in una lista è fondamentale. Anche considerando che la prima copertina del New Yorker a comparire non mi fa particolarmente impazzire. Ma è la vita.
6. La non-lista sulle serie TV di Emily Nussbaum
Emily Nussbaum, a mio avviso, è un genio. Non è soltanto una delle firme più autorevoli in circolazione parlando di serie TV, ma è anche una delle poche persone in grado di trovare sempre un taglio trasversale per parlare delle serie senza perdersi nel labirinto della banalità televisiva. Lo fa per il New Yorker, naturalmente. Ogni anno in questo periodo Nussbaum scrive un pezzo in cui spiega pazientemente e nei particolari perché odia le liste e non compilerà la lista dei migliori show dell'anno. Quest'anno ha cambiato un po' il tono e ha dato effettivamente un elenco di titoli, ma con meravigliosa, improbabile e scattante sufficienza.
7. 144 Episodi di Buffy in ordine di gradimento
Sempre parlando di Serie TV, io non sono un fan di Buffy. Anzi non credo di averne mai visto per intero nessun episodio, il che per i fan di Buffy è un affronto senza pari. Però mi piace il fatto che BuzzFeed abbia compilato questa lista apparentemente inutile.
8. I 10 migliori libri sulle comuni
Così come mi piace che Ewan Morrison, sul Guardian, abbia fatto una lista dei dieci migliori libri che parlano di comuni—intese come comuni hippie—, tema che preso così non mi fa né caldo né freddo, ma che messo in elenco assume un suo perché.
9. Tutti i riferimenti culturali che potreste esservi persi nei video di Lady Gaga
Ecco, a me Lady Gaga fa molta simpatia e un po' di paura. Non la capisco fino in fondo, ma mi dicono che è molto brava e continuano a metterla in frasi in cui compare anche il nome di Madonna—vorrà pur dire qualcosa. Comunque ho trovato questa lista di BuzzFeed dove si elencano tutti i riferimenti culturali dei suoi video, prendendoli uno per uno, e sono sorpreso. Mi spaventa sempre di più, ma la sento molto vicina.
10. Il miglior cibo americano, classificato e mappato
L'ultima lista della mia lista delle liste è un tesoro. È una delle liste meglio compilate dell'era del Web e ha il potere di essere chiara, diretta e con un retrogusto tradizionale che sotto le feste non guasta mai. Un piatto per stato e un bonus surreale. Non credo ci sia altro da aggiungere perché lo spunto è talmente semplice da risultare ridondante, però ci sono cose come il fuckin-steamed-fickin-cheesburger che fanno ringraziare il cielo di vivere nell'era della comunicazione globale. Viene da deadspin.com.
Il vincitore dell’anno: Netflix
di Nicola Bozzi (@schizocities)
Sarò banale, ma la banalità spesso è una conquista: nel 2013 Netflix è entrata di prepotenza nella mia vita, così come in quelle di molti altri, rendendola migliore di almeno lo 0,5%. È una percentuale a caso, ma intendo dire che compagnie come Netflix aggiungono qualcosa di palpabile alla nostra esperienza, anche se non fondamentale. Tutti a dire che Steve Jobs ha cambiato il mondo, ma alla fine il suo apporto alla società è stato convincere un numero di persone senza precedenti che spendere di più per un servizio leggermente migliore valeva la pena.
Netflix, un po' come iTunes e Spotify Premium, è uno di quei servizi che ti rende le cose così facili da farti superare l'ossessione per la free culture, cosa spesso micragnosa più che idealista. Nato in USA (dove scaricare online pare sia più rischioso che in Europa), il servizio ha reso il consumo di film talmente comodo, efficiente ed economico che dal 2010 a oggi si è allargato a Canada, Latino America, Regno Unito, Irlanda e, da pochi mesi, Olanda. In questi paesi il sito è sinonimo con streaming online, mentre negli States ti mandano proprio i DVD a casa per posta, ma la costante è che paghi poco e guardi quanto vuoi.
Vivendo ad Amsterdam ho avuto quindi il privilegio—per il momento negato ai miei amici sul suolo natio—di arrendermi al paywall e cedere alla pigrizia. Preferire lo streaming a pagamento a quello gratuito non è necessariamente un tributo a chi spende milioni per ogni episodio, ma più un riflesso di convenienza: fatta eccezione per i torrent (che poi quelli davvero rari vanno a 1kb al giorno), guardarsi la roba online è un'esperienza raccapricciante. Scatti, link rotti, quei bannerini infidi che ti parte la musica medievale mentre stai guardando Game of Thrones e pensi sia lui e invece è la pubblicità di un gioco di ruolo sfigatissimo sullo sfondo.
Per qualcosa come 8 euro al mese, invece, Netflix ti permette di guardare un sacco di film, serie, documentari—e basta alla fine, ma almeno in principio si tratta di veramente tanti film, serie e documentari. Il Netflix olandese non è ancora carico carico come quello americano (al quale volendo si può anche accedere usando un account internazionale con connessione VPN, però non ho capito se è legale o no), ma in generale esserne cliente ti garantisce tutta una serie di bonus che alla lunga fanno la differenza: qualità dello streaming, salvataggio della timeline di tutti i film o gli episodi che non hai finito di guardare, voto agli episodi, suggerimenti, etc. Insomma, a conti fatti il prezzo è esiguo.
L'aspetto più lodevole di Netflix, almeno da quest'anno, è però il contenuto originale che produce. Anche se io personalmente sono gasato anche dal suo arrembaggio alla stand-up comedy (gli ultimi special di Aziz Ansari, Marc Maron e Doug Stanhope sono usciti lì), sono le serie quelle che davvero hanno fatto fare il salto a una compagnia che prima era associata solo alla diffusione. Per prima cosa ci sono le (molte) nomination ai Golden Globes, o l'Emmy vinto da House of Cards, che testimoniano come Netflix si sia già messa sullo stesso piano di HBO, AMC e simili. Una differenza non troppo banale rispetto ai competitor nel broadcasting, però, è che la compagnia ha scelto di fare leva sull'aspetto compulsivo del guardarsi le serie online, incoraggiando quello che gli americani (amanti dei trattini) chiamano binge-watching, e che da noi invece è conosciuto come “farsi la maratona”. In pratica, quando esce una stagione di una serie prodotta da Netflix, gli episodi sono già tutti su. Te li puoi così sparare comodamente in vena, senza stare a incallirti le dita sul tasto refresh per una settimana ogni volta. Certo, poi devi aspettare un anno per la stagione dopo, ma nel frattempo puoi incanalare la tua ansia in altre direzioni.
Il trailer di OITNB
Per il momento le due serie simbolo di Netflix sono senz'altro House of Cards e Orange is the New Black. Siccome la prima non l'ho vista vi parlo della seconda, che tanto sicuramente qualcun altro vi parla anche della prima. Un po' di trama, con spoiler minimi: la storia è quella di Piper, una biondina newyorkese con un nascente business nel marketing di saponi biologici. Nel primo episodio, in modo relativamente sereno, Piper se ne va in prigione. Il motivo è una condanna a 15 mesi per aver trasportato dei soldi per una sua ex (Piper ha un passato lesbico) trafficante di droga. Lei entra convinta di fare la cosa giusta, cioè di pagare il suo debito con la società e cancellare così il proprio passato, per poi tornarsene a casa dal marito amorevole (uno scrittore abbastanza mollaccione interpretato da Jason Biggs di American Pie, che lei pensa sarà così dolce da sospendere persino la visione di Mad Men in sua assenza). Ovviamente, però, le cose vanno in un altro modo (a partire da Mad Men).
Di Orange is the New Black se n'è parlato tanto per vari motivi, uno dei quali è che è scritto da Jenji Kohan, creatrice di Weeds (una specie di Breaking Bad al femminile dove già alla protagonista toccava farsi un po' di tempo in gabbia). Kohan è cresciuta a Beverly Hills e viene da una famiglia dove tutti hanno più o meno vinto un Emmy, ma il fatto che abbia pescato dalle memorie di una Piper vera dà al tutto un altro livello di credibilità. E poi, se si diceva che il pubblico medio di Girls sono i quarantenni maschi, l'idea di una prigione femminile a maggioranza lesbica ha sicuramente il suo appeal oltre chi si identifica direttamente con la protagonista.
Per quanto mi riguarda, il pregio principale di OITNB è il modo in cui l'esperienza prigione (per certi versi stereotipata, a partire dal viscidume di alcuni membri dello staff carcerario) passa in secondo piano rispetto al rapporto tra i personaggi. Per quanto biondina fighetta, Piper ci mette relativamente poco ad ambientarsi: la violenza è cosa più rara di quello che ci si aspetterebbe da una serie del genere (niente Oz, per dire) e la struggle quotidiana è più legata al mantenimento di rapporti preesistenti, come quelli col tipo (che si rivela un po' mezza sega, ma in modi non narrativamente banali come il tradimento) e con le altre detenute (tra cui – sopresona del primo episodio! - c'è pure la sua ex trafficante, interpretata da quella di That 70's Show che non è Mila Kunis).
Un bel mixone
Le compagne di sventura di Piper sono il bagaglio più prezioso della serie: spaziano da una severa cuoca russa all'inquietante e schizzatissima Crazy Eyes, da un'ex tossica scarmigliata ma amichevole all'invasata di Gesù. C'è pure un trans nero che si occupa del make up e due latinas, madre e figlia, che si prendono a schiaffi tra loro. Non si sa cos'abbiano fatto tutte queste galeotte per stare dentro, ma tramite flashback vari la Kohan ci butta qualche pulce nell'orecchio e ci fa intuire che il potenziale corale della serie inizierà a esprimersi a partire dalla seconda stagione (tra l'altro già messa in saccoccia prima ancora che venisse rilasciata la prima).
Ecco, di OITNB è meglio recuperare la visione adesso perché, come spesso succede, mi sa che dalla prossima infornata in poi la carnazza sul fuoco aumenterà esponenzialmente.
Dicevamo i contenuti originali, ma Netflix non disdegna neanche quelle semi-originali. Nella fattispecie, la compagnia è riuscita ad aggiudicarsi la quarta stagione di Arrested Development, serie di culto andata in onda dal 2003 al 2006 su Fox e poi cancellata dalla rete. Ai tempi anche l'autore Mitchell Hurwitz aveva preferito staccare la spina alla propria creatura piuttosto che rischiare di vederla infiacchirsi di anno in anno su Showtime, che si diceva interessata a raccoglierla. In vista di una versione cinematografica, però, ha poi deciso di sgranchirsi con una nuova e, parrebbe, ultima fatica su Netflix.
Il trailer della quarta stagione
Per quelli che non conoscono Arrested Development, una premessa: la serie, che ruota attorno alle sventure dei Bluth, una scassatissima famiglia di ricchi da poco squattrinati, si merita assolutamente l'Olimpo della comicità, lassù con Seinfeld e il The Office inglese. Se queste sono capolavori di osservazione e critica della banalità, la serie di Hurwitz si contraddistingue per una spinta inventiva che non trova eguali al di fuori di un cartone animato. Nonostante non manchino dettagli realistici e riferimenti all'attualità, anche abbastanza sofisticati, la vera prodezza della serie sta nel margine di verosimiglianza che si dà, l'equilibrio prescelto tra il raccontare una storia e il delirio totale. Questo viene ottenuto tramite una fitta rete di richiami che non fungono solo da tormentoni, ma sono parte integrante della trama. Per esempio: se un personaggio si dipinge il corpo di blu per un'audizione in un episodio, poi negli altri la casa avrà ancora tracce di vernice blu che saltano fuori inspiegate; se uno perde una mano in bocca a una foca, nelle altre puntate lo si vede con un fintissimo uncino da pirata. E poi c'è la macchina di famiglia, la quale si porta a spasso con conseguenze ridicole la scala che i Bluth usavano per salire sul proprio jet privato, ora pignorato.
Qualche esempio di gag ricorrenti in AD
Ciascuno dei molti personaggi di Arrested Development è un coacervo di nevrosi, invidie per i propri cari e malcelata duplicità. Il capo famiglia George è un truffatore latitante che ha inguaiato la propria famiglia; i suoi tre figli—Gob, Buster e Michael—sono rispettivamente un mago fallito, un semi-ritardato e un padre soffocante; la figlia Lindsay è una milf che tenta di tenere in vita un matrimonio senza speranza con il gay represso e aspirante attore Tobias (interpretato da David Cross). In fondo all'albero genealogico ci sono George Micheal (figlio di Michael) e Maeby (figlia di Lindsay), cugini con un rapporto particolare che lavorano per un chiosco di banane al cioccolato, forse l'unico asset della famiglia rimasto in attivo.
Le prime tre stagioni ruotano attorno ai numerosi tentativi di Michael di rimettere insieme la compagnia del padre e disciplinare gli altri parenti, ma onestamente della trama ricordo abbastanza poco. Quello che rimane di Arrested Development sono un gusto particolare e il linguaggio degli episodi, montati in stile documentario e accompagnati dalla voce narrante di Ron Howard, la quale aggiunge uno strato narrativo comicamente raffinato. Anche le scritte in sovraimpressione, oltre a contribuire a un'estetica molto riconoscibile (a partire dal font e dal fade-to-white dei titoli di testa), danno ulteriore spessore e ritmo al tutto, un po' come i commenti in alcuni fumetti di Robert Crumb, che spiegava dei dettagli con delle freccine.
Alla fine, comunque, forse proprio per quest'autoreferenzialità e meta-narratività, gli ascolti di AD sono calati di anno in anno, spingendo la Fox a dire: “È stato bello, basta così”. Chi non ha mai smesso di credere nella serie è stata la critica però, e nel ripescare questa chicca Netflix ha furbamente mostrato di essere interessata alla qualità prima di tutto. Da loro, in sostanza, non solo si possono esplorare nuovi territori (vedi la prison dramedy a tinte queer di cui sopra) ma si rivendicano anche i virtuosi spadaccini sconfitti dagli spietati cannoni del prime time.
Quanto alla quarta stagione di Arrested Development, la storia si è fatta ancora più concettuale: ogni episodio racconta la stesso arco di tempo seguendo ciascun Bluth per conto suo, più da vicino, sviluppando alcuni temi (il matrimonio di Lindsay e Tobias, la magia di Gob) e aggiornandone altri (George Michael entra nel business del software). Se iniziate a guardarla senza conoscere le altre vi perdete quasi tutto l'umorismo, ma tanto si fa presto a recuperarle, Netflix o meno.
Come ho consumato il 2013
di Cristiano De Majo (@cristianodemajo)
Nel 2013 ho letto molti libri, visto pochissimi film, ascoltato due dischi, guardato parecchia televisione, ma neanche una serie completa.
Insieme ai miei figli, ho sviluppato una insana passione per le perfette riproduzioni in plastica di animali della Schleich e ho letto un numero infinito di volte la serie di Cappuccetto (Bianco, Verde, Giallo) scritta e disegnata da Bruno Munari (Corraini).
Sul finire del 2013 mi sono appassionato a certe questioni legate alla figura del lupo. Ho letto un bellissimo libro di Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe(Feltrinelli), dove ho trovato un’interpretazione di Cappuccetto come fiaba eminentemente sessuale ed edipica che mi è sembrata illuminante.
Dell’inizio del 2013 ricordo poco o nulla. Ricordo invece che in primavera ho acquistato, dopo forse quindici anni, un paio di Vans e ho cambiato partito rinnegando il mio decennale legame con le Converse All Star basse e bianche. In quelle stesse settimane ascoltavamo in macchina Random Access Memories dei Daft Punk e io continuavo a rimettere "Instant Crush" la traccia numero 5. In autunno, con grande disappunto di tutti, l’unico disco che volevo mettere in macchina era, invece, Gould che suona Beethoven, uscito da Repubblica. Ho provato una grande emozione percorrendo la tangenziale di Napoli, di sera, affacciato sulla distesa di luci della periferia orientale, mentre dalla casse uscivano le note della Sonata al chiaro di luna.
Nel corso del 2013 ho continuato i miei studi personali sul lupo e ho scaricato su kindle The Bloody Chamber(Penguin), raccolta di racconti di Angela Carter in cui in chiave erotica-gotica vengono reinterpretate le fiabe della tradizione europea. Mi sono comprato altre camicie a scacchi e altri calzini di spugna American Apparel e ho continuato a mettere la pasta d’acciughe Balena sull’insalata. Ho rivisto Tutti gli uomini del Presidente provando grossi rimpianti per non avere fatto il giornalista in una redazione e nostalgia per tutti gli open space in cui non ho lavorato. Facile vittima dell’estetica metà anni Settanta di film come Tutti gli uomini o I tre giorni del Condor o La conversazione ho acquistato una giacca di velluto a costine marrone chiaro apposta per quando voglio sentirmi Robert Redford. Nel 2013 ho visto le partite dell’Inter con sentimenti in bilico tra resa e disinteresse e, mentre si faceva sempre più forte la mancanza della cattiveria slava, erigevo idealmente busti di Stanković e Mihailović in bronzo. Sono stato, infine, sopraffatto dal calcio della spending review: molti gol, zero spettacolo.
Sono stato a Bruxelles, dove ho fatto shopping da Hema (uno strano e utilissimo incrocio olandese tra Muji e l’Upim), mangiato indimenticabili crocchette di gamberi e pensato che Ixelles sia un bel quartiere dove vivere. Vizi: nel 2013 non ho smesso di fumare tabacco Lucky Strike e ho bevuto discrete quantità di birra (Peroni o Budweiser) e vino rosso per lo più altoatesino, e ho fumato poche canne e visto sempre meno pornografia: sarà vero che sto diventando adulto? Ma ricordo bene questo sito che mi è piaciuto per l’equilibrio perfetto tra feticismo, realismo amatoriale e attenzione ai dettagli. Restando in tema pornografia, qualcuno mi ha consigliato di vedere quella che mi è sembrata la migliore pubblicità di un libro mai vista e cioè il video della pornostar Stoya che prova un orgasmo mentre legge il libro pubblicizzato.
L'orgasmo come arte
Nel 2013 ho scoperto che un ragazzo di vent’anni di oggi, con buone letture e una triennale in lettere in tasca, non sa cosa siano i paninari. Ma sono stato nel più piccolo spazio espositivo d’Italia e forse del mondo, il Museo Apparente, che è una galleria napoletana che ospita giovani artisti italiani ed europei e consiste in un capanno prefabbricato in legno tipo quelli che si trovano da Leroy Merlin.
Nel 2013, ho finalmente letto un libro di Zecharia Sitchin. La Bibbia degli Dei (Piemme), dove senza alcun rigore scientifico eppure con apparenze incontrovertibili ci viene spiegato che, attraverso un’interpretazione corretta dei testi Sumeri, sarebbe provata la discendenza dell’uomo da demiurghi extraterrestri, gli Annunaki, che bisognosi di forza lavoro crearono con l’ingegneria genetica l’uomo attraverso un’ibridazione tra ominidi e Annunaki stessi. Mentre leggevo, completamente persuaso da questa teoria, usciva la dichiarazione di Eugene McCarthy, ricercatore americano esperto di ibridazione animale, che affermava di avere le prove che gli esseri umani sarebbero degli ibridi: «Un incrocio tra un maiale e la femmina di uno scimpanzé».
Credo, infine, di non essermi mai perso nel 2013 una puntata di Chi l’ha visto?
Credito immagine di copertina: Trittico del Giudizio Universale di Hieronymus Bosch, dettaglio, olio su tavola, 1482 circa, Accademia di Belle Arti, Vienna.
Ecco la seconda e la terza parte della lista della fine del mondo.