Una stagione, una squadra, un piccolo sobbalzo del cuore. In un viaggio dall’annata 1988-89 ai giorni nostri, ripercorriamo la cavalcata di una formazione per ogni campionato di Serie A, con un solo paletto: nessun trofeo alzato alla fine dell’anno. Squadre che hanno entusiasmato chi le sosteneva sugli spalti senza vincere nulla, semplicemente perché la vittoria non era alla portata. Salvezze raggiunte con le unghie, qualificazioni europee inattese, attimi di puro e semplice spettacolo. Per scoprire che possono essere oneste anche le fotografie in cui siamo bellissimi e perdenti.
La nomina di Sven-Göran Eriksson come nuovo c.t. delle Filippine scorre via senza grandi emozioni nei ticker delle tv che trattano di sport dal mattino alla sera. Sui giornali merita sì e no una breve, è un fatto di folklore più che una notizia, un grande vecchio che da qualche anno sembra aver deciso di non volersi prendere troppo sul serio andando da una parte all’altra del mondo. Messico, Notts County, tre mesi senza gloria alla guida della Costa d’Avorio in un Mondiale disastroso, Leicester, BEC Tero Sasana (Bangkok), Al Nasr SC, la parentesi cinese tra Guangzhou R&F, Shanghai SIPG e Shenzhen, quindi le Filippine.
Che Eriksson sia il c.t. di una Nazionale con così poco appeal, nel novembre del 2018, non desta più stupore. La percezione che il grande pubblico ha dello svedese è quella di un allenatore che ha smesso da anni, un vip uscito dal giro che ogni tanto cerca di riciclarsi come può: i conduttori in declino vanno al Grande Fratello, Svennis salta di panchina improbabile in panchina improbabile, da un Paese all’altro, da una donna all’altra.
Negli anni ’90, l’Italia ha vissuto tutta la seconda fase di carriera di un allenatore che, nel decennio precedente, era stato tra i principali innovatori a livello europeo. Con Sampdoria e Lazio, però, l’immagine del rivoluzionario era stata già sostituita da quella del fine gestore psicologico di gruppi più o meno complessi. Doveva scollarsi di dosso l’etichetta di perdente di successo, un masso piazzato sulla schiena dello svedese in un folle pomeriggio romano nella tarda primavera del 1986, nell’ultimo e drammatico atto di un’incredibile rimonta-scudetto della Roma allenata solo nominalmente da Angelo Benedicto Sormani, con Dino Viola che pur di far sedere il rampante Eriksson sulla sua panchina per il dopo-Liedholm sfidò apertamente i vertici del calcio italiano: il rettore di Torsby non aveva preso il patentino a Coverciano e nell’organigramma giallorosso figurava come direttore tecnico.
Pruzzo e compagni avevano riagguantato la Juventus a tre giornate dalla fine dopo aver girato a metà stagione a -8, colmando un canyon apparentemente infinito con una serie di prestazioni al limite del sublime. Poi, lo schianto. Roma-Lecce 2-3 è ancora posizionata parecchio in alto nella classifica dei drammi romanisti, con la sfilata prepartita di Dino Viola e del sindaco Signorello a dare il tocco surreale a uno dei tonfi meno attesi della storia del nostro calcio. Un altro anno in giallorosso prima dell’addio e del braccio di ferro con Dino Viola, che non voleva vederlo allenare in Italia nella stagione successiva. Eriksson, però, aveva altre idee.
L’occhio sgranato da serial killer ci restituisce un’immagine molto lontana dall’Eriksson serafico che siamo abituati a vedere.
Il mercato
Lo svedese è l’uomo scelto dai Pontello e da Pier Cesare Baretti – non senza qualche dubbio – per guidare i gigliati nell’era post Antognoni, andato a chiudere la sua carriera da calciatore in Svizzera. Nel primo campionato agli ordini di Eriksson (1987-88) la squadra si esprime molto bene in casa e molto male fuori. È soprattutto l’anno del dramma della morte del presidente Baretti, schiantatosi a bordo del suo Cessna 172 su un costone di roccia immerso nella nebbia sulle colline di Piossasco. A tenere alto il suo ricordo, un giovane ricciolino con la numero 10 sulle spalle. Roberto Baggio era stata la scommessa più grande dell’ex direttore di Tuttosport, incaponitosi sul talento di Caldogno nonostante gli infortuni che continuavano ad accanirsi sul suo ginocchio. Gli dicevano di lasciarlo andare, ma Baretti andò dritto per la sua strada. Il primo gol in A nel giorno dello Scudetto del Napoli, una punizione in casa di Maradona, al cospetto del più grande. Poi la buona stagione con Eriksson, qualche gol, accelerazioni improvvise, dribbling inarrestabili, tante pause.
Ai blocchi di partenza del campionato 1988-89, la Fiorentina non ruba particolarmente l’occhio. Colpa della caldissima estate di mercato, con Nicola Berti che dice no all’offerta di rinnovo. «Da ragazzino mi hanno fatto firmare un triennale che prevedeva 30 milioni di stipendio per la prima stagione, 60 per la seconda, 90 per la terza. È stata la Fiorentina a sbagliare a gestirmi», afferma il bel Nicola a inizio mercato dopo aver rifiutato il Napoli. Eriksson mastica amaro, vorrebbe trattenere Berti ma alla fine la Fiorentina deve arrendersi e cederlo all’Inter insieme a Ramon Diaz, scelto dai nerazzurri come nuovo centravanti in seguito al caos Madjer. In cambio, per il solo Berti, i viola ricevono 3 miliardi e il giovane Enrico Cucchi, protégée di Kalle Rummenigge in nerazzurro.
Baggio è ancora un punto interrogativo sul fronte della continuità. «Lo scorso anno ho segnato sette reti, sono in grado di farne almeno dieci. Vorrei finalmente capire, io per primo, quanto valgo veramente. L’etichetta di eterna promessa comincia a pesarmi un po’ troppo e spero di smentire chi pensa che non posso giocare alle spalle delle due punte, non è detto che con me in campo si debba rinunciare a un attaccante. E vi prego, non mettetemi in concorrenza con Borgonovo. Non sono una punta, io», è la preghiera del vicentino nel giorno del raduno. L’altra punta dovrebbe essere Walter Casagrande, gigante dell’Ascoli. È una trattativa logorante, la Fiorentina mette sul piatto un solo anno di contratto, offerta ritenuta offensiva dal brasiliano.
Le due parti insistono a lungo, a Eriksson piace anche Renato Buso, gioiellino della Juventus. Le scadenze del mercato sono cervellotiche, gli stranieri possono essere tesserati fino al 10 agosto, poi una nuova finestra dal 5 al 29 settembre per eventuali tagli e sostituzioni. È in quelle ore che il Bologna decide di scartare un promettente cileno, rifilato al San Gallo come un pacco postale. Si chiama Iván Zamorano, gli viene preferito il connazionale Hugo Eduardo Rubio, bivio di mercato preso contromano dai felsinei. Sempre in quei giorni, si fa strada un’ipotesi di mercato a dir poco incredibile: Roberto Pruzzo al Santos, l’ex squadra di Pelé. I brasiliani sono in Italia per una tournée e O’Rey di Crocefieschi, ritenuto di troppo dalla Roma, valuta l’ipotesi di aggregarsi al gruppo insieme ad altri disoccupati di lusso come Giordano e Bagni, nella speranza di strappare un contratto.
La Fiorentina, sfumato il duo Buso-Casagrande, prende in prova l’attaccante uruguaiano Diego Aguirre, eroe del Peñarol fresco del titolo in Libertadores agli ordini del Maestro Tabarez. L’accordo viene raggiunto ma il campionato inizia tardissimo per dare spazio alle Olimpiadi di Seul, rimaste nella storia azzurra per il tremebondo 4-0 subito con lo Zambia.
Eriksson sfrutta i turni preliminari di Coppa Italia per testare l’attaccante, a segno soltanto con l’Alzano Virescit. Il parere dello svedese è netto: Aguirre non è adatto al calcio italiano. Fa fagotto prima dell’inizio della Serie A, in programma per il 9 ottobre. Una gestione che mette i viola nel mirino della critica: «La Fiorentina è forse l’unica società ad aver affittato uno straniero per un mese, dopo averne perso un altro (Casagrande) che aveva caratteristiche tecniche assai diverse. È una vicenda significativa per chi considerava ancora la Fiorentina un club in qualche modo legato a una strategia. La Fiorentina vive esclusivamente seguendo un rigido criterio economico e ha dimostrato seri disagi di fronte a una linea tecnica ben precisa: fra Casagrande e Aguirre la differenza è enorme, ma nel mezzo ci sono stati perfino Laudrup e Madjer», accusa Alessandro Rialti dalle pagine de La Stampa.
Per evitare lungaggini, la Fiorentina si getta quindi sul mercato dei disoccupati. Tornano di attualità i sedotti dal Santos: Bruno Giordano offre più garanzie fisiche ma costa parecchio, Roberto Pruzzo ha fatto la muffa in panchina nell’ultima stagione ed è reduce da un biennio da soli 5 gol, bottino quasi offensivo per uno dei bomber più ispirati degli anni ’80. Eriksson è stato l’ultimo a scatenarne la vena realizzativa (19 reti nell’85-86) e punta sul baffo ex romanista, chiamato a coprire le spalle a quella che sarà, a tutti gli effetti, la coppia titolare. In barba alle prediche di Roby Baggio, lo svedese ha in mente per lui un avanzamento in campo. Sta per nascere una delle coppie-gol più entusiasmanti della storia viola, effimera come solo le cose belle sanno essere. Baggio-Borgonovo, la B2.
Il campionato
Se l’attacco sembra un po’ leggero, lo stesso non si può dire del centrocampo. Eriksson dà le chiavi della squadra a un giovane brasiliano dalla faccia timida, che ha già smaltito la sua stagione di apprendistato in Italia. Carlos Caetano Bledorn Verri porta in giro a testa alta il soprannome coccoloso di Dunga, la traduzione in portoghese del nome del nano Cucciolo, ma in mezzo al campo detta legge senza troppe sovrastrutture mentali. È un brasiliano europeo e non per le origini tedesche e italiane della sua famiglia, ma per il modo pragmatico di pensare calcio. Il partner perfetto per Cucchi, alla ricerca di una nuova stagione da ricordare dopo quella con la maglia dell’Empoli. Al centro della difesa c’è l’altro straniero della squadra, lo svedese Hysen, che fa coppia con Battistini.
Archiviato l’esperimento Aguirre, la Fiorentina inizia il suo campionato nel peggiore dei modi, facendo visita al Milan campione d’Italia. Giampiero Galeazzi scherza con Berlusconi all’arrivo in un San Siro in pieno restyling in vista dei Mondiali: «Presidente, dov’è la pistola? Dicono che il Milan ha già ucciso il campionato». Il Cavaliere si schernisce, sfoggia il sorriso magico, prende tempo. Sarà l’anno dell’Inter, almeno in Italia, con il Diavolo padrone d’Europa. Il punteggio è severo per la Fiorentina, un 4-0 che non lascia spazio a repliche, ma i viola tengono bene fino a un quarto d’ora dalla fine, con la tripletta di Virdis arrivata soltanto al tramonto del match dopo il vantaggio siglato da uno scatenato Donadoni in avvio.
È stato proprio il Milan a spedire a Firenze Stefano Borgonovo, ventiquattrenne chiamato alla rinascita dopo due stagioni opache al Como, 3 gol in 33 partite a cancellare il ricordo felice di un 1985-86 che lo aveva visto grande protagonista con la doppia cifra raggiunta al primo vero campionato giocato in A. Sguardo magnetico e sorriso ammaliatore, Borgonovo era stato acquistato dai rossoneri nel 1986 per quattro miliardi di lire, non una cifra da poco. A Firenze, con Baggio alle sue spalle, deve dimostrare di essere all’altezza della corazzata sacchiana, compito ingrato per chiunque.
Baggio ha ancora i lineamenti di un adolescente, tra i due ci sono soltanto tre anni di differenza ma Borgonovo sembra già infinitamente più “uomo” del compagno di squadra.
Baggio&Borgonovo vanno a segno nel primo match casalingo (giocato in realtà a Pistoia) del campionato viola, un tirato 2-1 all’Ascoli. Sono due gioielli, con Borgonovo che gira da maestro un cross tesissimo di Dunga e Baggio che, molto semplicemente, fa Baggio. Lancio di Cucchi di esterno destro messo giù dal numero 10 viola con quella classe mista a nonchalance che tante volte abbiamo visto. Il pallone si piega alla volontà del padrone, la conclusione è paesaggio che scorre via in secondo piano se paragonata alla poesia del controllo. Tandem ancora a segno a Cesena, la Fiorentina infila la terza di fila battendo il Torino prima di imboccare un periodo difficile, con due soli punti in quattro gare.
La squadra inizia a replicare l’andamento della stagione precedente: bene in casa, male fuori. Con l’anno nuovo arriva la prima sterzata, 3-0 alla Lazio (Borgonovo-Salvatori-Baggio), preludio al grande classico con la Juventus. È il 15 gennaio 1989, il big match tra Napoli e Inter si risolve in uno 0-0 che fa decisamente più comodo ai nerazzurri. Il Milan, molto indietro in classifica, spazza via il Como; la Sampdoria è corsara a Pescara, la Roma fa la conoscenza con un fantasma nato al Quarticciolo che risponde al nome di Paolo Di Canio, uomo-derby nella prima stracittadina giocata dal ritorno in A dei biancocelesti.
A Firenze è Rui Barros – Mui Bassos per i detrattori - ad aprire le marcature per i bianconeri con un colpo di testa. Dunga e Carobbi per poco non vengono alle mani, il terzino chiede il cambio a Eriksson e lo svedese cerca di riportarlo alla ragione. Baggio risponde dopo sei minuti dal dischetto, trasformando un rigore discusso e discutibile. L’equilibrio regna sovrano fino ai titoli di coda. È l’ultimo minuto, c’è un calcio d’angolo da sinistra sul quale svetta Battistini, che prolunga sul secondo palo. In mezzo all’area, con un riflesso felino, Stefano smette di essere Borgonovo e diventa, per tutti i tifosi viola, Borgogol.
Composto fuori dal campo, nelle tradizionali interviste, così come nella corsa verso la Fiesole. In Borgonovo non c’è nulla di sgraziato, di sguaiato, di sopra le righe. Un centravanti e una persona elegante.
Il post partita è tutto per Eriksson: lo svedese, prima della svolta con la Lazio, era considerato addirittura a rischio esonero: «Sembravo a un passo dal restare senza lavoro, ma erano solo voci. Ho visto una Fiorentina che ha vinto con il cuore, che è risalita dopo aver toccato il fondo. Siamo stati anche fortunati». La Fiorentina, dopo tredici giornate, ha i punti del Milan. A inizio anno sarebbe stato un pronostico da Scudetto ma sono i campioni d’Italia a essere attardati: nove lunghezze dall’Inter capolista. Senza lo squalificato Dunga, i viola non vanno oltre lo 0-0 in casa del Lecce.
A Firenze arriva la Roma, dopo mezz’ora avanti 0-2 con Massaro e Conti. Borgonovo riprende i giallorossi con altri due gol pesantissimi nell’economia del campionato: finta splendida sull’uscita del portiere a dare un tocco di nobiltà a un’indegna sagra dei rimpalli in area romanista, colpo di testa non irresistibile a punire una terribile uscita di Tancredi. La tanto attesa continuità, però, non arriva. La Fiorentina frana contro ogni pronostico a Bologna, castigata da una rete di Monza. Si tratta di una colossale occasione sprecata, visto che in quella stessa giornata restano a bocca asciutta la Juventus, fermata in casa dal Pescara, l’Atalanta rivelazione, sconfitta a Lecce, e la Roma, bloccata all’Olimpico dal Verona.
Pesa l’assenza di Baggio, fuori per squalifica, ma la partita finisce sulle cronache nazionali soprattutto per la guerriglia che si scatena all’esterno del Dall’Ara. Otto arresti, venti feriti e uno striscione disgustoso esposto dai tifosi del Bologna, che ironizzano sulla tragica morte di Pier Cesare Baretti con la frase «Viola…Con Baretti si vola».
È uno stop pesante anche perché all’orizzonte c’è una partita delicatissima contro la corazzata Inter, che vola verso lo scudetto dei record. Fiorentina-Inter vuol dire soprattutto il ritorno a Firenze di Nicola Berti, l’uomo più odiato dalla tifoseria viola. Baggio cerca di stemperare gli animi alla vigilia: «Lo incontro in Nazionale, ci parliamo spesso. Ha fatto bene ad andare a Milano per puntare allo scudetto. Io non cambierei niente di ciò che ho fatto, il rinnovo l’ho firmato perché qui ci sto bene». I 21.196 tagliandi messi in vendita vengono spazzolati nel giro di due giorni, c’è tensione nell’aria. Eriksson ritrova Baggio ma è senza Carobbi, rilevato a sinistra da Mattei. L’Inter è in formazione tipo e sblocca il risultato con un rigore di Matthaeus.
Quando Baggio pareggia, Nicola Berti è già in panchina. Trapattoni l’ha richiamato dopo mezz’ora spaccata, vedendolo spaesato e fuori partita. Nei suoi confronti, più che un coro, a inizio partita dagli spalti si era alzato un ruggito: «Questa è la storia di un mercenario che gioca solo pensando all’onorario. Lui non ha cuore, lui non ha orgoglio, lui gioca solo pensando al portafoglio. Ogni domenica gioca a Milano, Nicola Berti l’hai fatto per il grano». Nella notte che precedeva la partita, il tifoso viola Riccardo Bellini si era messo al lavoro.
Un pizzico di inventiva e tanta buona volontà per consegnare ai sostenitori della curva un foglio ciclostilato con il testo del coro da riservare al traditore. Berti in campo sbarella, annichilito da tanto astio, con la Fiesole che in uno striscione gli intima di abbassare lo sguardo, in quanto indegno di guardarla. Viene anche allontanato dalla panchina per un eccesso di esultanza al momento del gol del momentaneo 2-3 di Serena, nelle interviste di fine partita è frastornato, sbatte gli occhi davanti ai flash, pare sull’orlo delle lacrime.
«Vai via da Firenze con che stato d’animo?», gli chiede Giampiero Galeazzi. Berti dissimula ma non ha la faccia strafottente che lo ha reso uno dei giocatori più beccati dalle tifoserie di mezza Italia. Ha il volto di un ragazzo in difficoltà, che non crede alle sue stesse parole. «Normale, come sono venuto», risponde. Sa di mentire. Lo sa e arriva al punto di sciogliersi in un sorriso forzato, non riesce a sostenere il peso della pur bianca menzogna. «Bugia», afferma guardando negli occhi Galeazzi, quasi a volersi scusare. Per quanto rilevante, Berti è soltanto una parentesi del match forse più significativo della stagione viola.
Contro l’Inter schiacciasassi, la formazione di Eriksson gioca una grandissima partita e lo spettacolare 4-3 finale proietta la Fiorentina al settimo posto al giro di boa, con un bel carico di autostima. Cucchi porta avanti i suoi in avvio di secondo tempo, Serena ribalta tutto con due gol nel giro di 180 secondi. Il Trap tira i remi in barca, Verdelli per Diaz è il cambio che condanna l’Inter. Ancora Borgonovo con una zampata da bomber di razza per il 3-3, quindi la follia di Bergomi, che cerca Zenga senza accorgersi della presenza di Borgogol, appollaiato in area come un avvoltoio che sente l’odore del sangue. Di nuovo la Fiorentina che stende una grande negli ultimi minuti e in rimonta, anche Eriksson può concedersi un sorriso a fine gara.
«Abbiamo fatto la più grande partita dell’anno», dice lo svedese mentre alle sue spalle qualcuno agita quattro dita.
Il girone di ritorno inizia come quello di andata, con una sconfitta contro il Milan. Proprio lo show dei rossoneri in Coppa dei Campioni renderà utile per una qualificazione Uefa anche il settimo posto. Fiorentina e Roma procedono in maniera altalenante per tutto il girone di ritorno. I viola piazzano un colpo pesantissimo alla ventiduesima in casa dell’Atalanta, inizio di un mini-ciclo positivo: 3-0 al Pisa, altra vittoria esterna dall’enorme peso specifico a Genova, sponda Samp, con l’intuizione di Eriksson di schierare contemporaneamente Baggio, Borgonovo e Davide Pellegrini. Alla trentesima giornata, con l’1-1 in casa della Juventus, i viola sembrano in completo controllo.
Hanno tre punti di vantaggio sulla Roma e cinque sul Verona, per quel settimo posto sembra tutto fatto. Eriksson non ha però fatto i conti con la bestia nera Lecce, che torna sulla sua strada il 4 giugno del 1989. Barbas porta in vantaggio i salentini, Cucchi firma l’1-1. Ma la Roma crolla contro il Milan nel giorno dell’uccisione di Antonio De Falchi, il vantaggio viola cresce a quattro punti con sole tre gare da giocare. Basterebbe la normale amministrazione nello scontro diretto del Flaminio sette giorni più tardi, tanto più che Borgonovo apre le danze poco dopo la mezz’ora. Giannini pareggia subito, i giallorossi all’82’ sono in dieci per l’espulsione di Oddi. A 3’ dalla fine, l’imponderabile.
Una delle pochissime giocate indovinate da Renato Portaluppi in una stagione da fenomeno parastatale costringe Landucci al miracolo, Völler trova il gol-vittoria che riapre tutto di colpo. Eriksson vorrebbe gettare in campo Pruzzo, il bomber non se la sente. «Abbiamo controllato le cose abbastanza bene, nonostante questo siamo riusciti a perdere una partita che sembrava già fatta», è l’analisi dello svedese, che inizia a temere il peggio.
La paura di non farcela paralizza Fiorentina e Roma, fermate sullo 0-0 da Bologna e Verona. Quella con i rossoblù è una partita dai tratti drammatici, e non c’entra il campo. Forse memori degli striscioni dell’andata, quattro teppisti preparano un assalto al treno dei tifosi del Bologna. Il convoglio si avvicina alla stazione di Rifredi e lanciano una molotov, che entra dal finestrino. Ivan Dall’Olio viene colpito e sfigurato dalle ustioni, entrando in un calvario fatto di otto interventi chirurgici. Fuori dallo stadio è il delirio, Marcello Giannini a Novantesimo Minuto decide di dedicare soltanto 60 secondi ai fatti legati alla partita, riservando buona parte del servizio a quanto accaduto intorno al Comunale.
Si arriva all’ultima di campionato con le squadre distanti due lunghezze, entrambe alle prese con formazioni appagate. L’Atalanta già qualificata in Uefa passa in vantaggio con i giallorossi ma Giannini e Völler, ancora loro, piazzano i colpi giusti per la rimonta. La Fiorentina è di scena in casa dell’Inter e la squadra del Trap, campione d’Italia da diverse settimane, non è più in clima di regali dopo aver lasciato i due punti al Torino, in piena bagarre salvezza, sette giorni prima. Diaz e Alessandro Bianchi sono i boia che spediscono la Fiorentina allo spareggio, il clima intorno alla formazione viola non è certamente dei migliori. Non ha aiutato la gestione del caso Eriksson, per mesi separato in casa e promesso sposo del Benfica.
Inutile il tentativo della dirigenza viola di proporre il rinnovo a buoi ampiamente scappati dalla stalla. Una vicenda affrontata in maniera quasi dilettantesca. I vertici gigliati avevano convinto Eriksson a tornare sui propri passi. Lo svedese, a metà aprile, si era quindi recato a Lisbona per convincere il presidente del Benfica a rinunciare all’accordo. «Ho chiesto al presidente di rivedere in via amichevole l’accordo verbale che stipulammo qualche tempo fa ma la sua risposta è stata negativa: anche se non ho firmato niente, devo rispettare la parola data e allenerò il Benfica», aveva dichiarato Eriksson in una conferenza stampa dai contorni grotteschi il 18 aprile, soltanto nove giorni dopo il successo in casa della Sampdoria.
È in queste circostanze che la Fiorentina si avvicina allo spareggio contro la Roma. Per trovare la location adatta al match, la Lega batte svariate strade. Il timore principale riguarda l’ordine pubblico. La prima idea è Cagliari, in una sorta di antipasto di quello che sarebbe diventato il “girone delle isole” a Italia ’90 per lasciare gli hooligans fuori dalla penisola. Ipotesi Sardegna da scartare: il campo del Sant’Elia, stando alle informazioni provenienti da Cagliari, sarebbe ancora fresco di semina.
Cesena e Pescara imitano Cagliari e rifiutano, non si fa neanche in tempo a vagliare l’ipotesi Perugia che interviene il prefetto De Marinis: «Lo stadio è piccolo, la situazione incontrollabile. Non potremmo garantire una vigilanza adeguata». Ma con il club in C1, il sindaco Baglioni vuole regalare ai perugini almeno un grande incontro, dopo aver mancato la chance di ospitare i Mondiali. Non solo: il primo cittadino di Perugia spera di accogliere la Fiorentina in alcune gare della stagione 1989-90, quando i viola saranno costretti a lasciare il Comunale per i lavori in vista dei Mondiali. Quindi, Perugia. Blindata, ovviamente.
Liedholm è senza Conti, Policano e Peruzzi. Il Brasile reclama Renato e Dunga ma le società riescono ad averli a disposizione per lo spareggio. La Fiorentina si presenta priva di Hysen e, soprattutto, Borgonovo, squalificato e rassegnato al ritorno al Milan. La prospettiva di un attacco composto da Baggio e Pellegrini non convince Eriksson, costretto a lavorare sulla testa di Roberto Pruzzo, fin lì comparsa ai limiti del marginale, zero gol all’attivo, il viale del tramonto già percorso quasi per intero. «Roberto è un giocatore temibilissimo come i suoi colpi di testa, dovremo stare attenti», dice Liedholm alla vigilia. Sembra l’ennesima provocazione di un fine stratega, il tributo a un vecchio compagno di mille battaglie, reso innocuo dai segni logoranti del tempo.
I viola partono con l’obiettivo di sorprendere gli avversari, Cucchi si divora il vantaggio da due passi. Un break improvviso di Alberto Di Chiara cambia il corso della sfida e della stagione delle due squadre. L’esterno lavora il pallone sulla sinistra e lo affida ai piedi di Roberto Baggio che pennella sul palo lontano, Tancredi calcola malissimo i tempi dell’uscita e alle sue spalle spunta lui, bomber Pruzzo. Non ha bisogno di volare per colpire il pallone, è un appoggio a porta sguarnita. L’usanza di non esultare contro l’ex squadra è ancora lontana, il baffo di Crocefieschi corre e alza il braccio nella sua posa inconfondibile.
La Roma spreca di tutto, vede un gol di Di Mauro annullato per fuorigioco di Völler, prova nuovamente ad aggrapparsi al talismano Renato come al Flaminio. Non funziona. I tifosi sugli spalti non brillano per compostezza, la partita viene anche sospesa per qualche minuto, Giannini finisce sotto la doccia anzitempo. In Europa ci va la Fiorentina, e si renderà protagonista di una marcia inspiegabile, fino alla doppia finale persa con la Juve, mentre in campionato le cose andranno malissimo: retrocessione evitata per un soffio e staffetta Giorgi-Graziani in panchina.
Per il suo unico gol in maglia viola, Pruzzo esulta parecchio. È l’ultima partita della sua carriera.
Borgonovo, per nulla convinto, torna al Milan. Segnerà pochissimo in campionato (due reti) ma firmerà uno dei gol più significativi dell’era Sacchi in Europa, il pallonetto al Bayern Monaco per la qualificazione alla seconda finale consecutiva, giocata proprio contro il Benfica di Eriksson. In un raptus romantico, dopo l’addio di Baggio, Mario Cecchi Gori lo riporterà a Firenze, scoprendo sulla sua pelle che raramente è una buona idea tornare dove si è stati davvero felici.
Un’inezia nella vita di Borgogol, il cui sorriso contagioso verrà strappato via da una malattia così infame da indurlo a chiamarla la Stronza. L’epilogo amaro della vita di Stefano Borgonovo è l’icona tragica di un’annata bella e spensierata per i tifosi della Fiorentina, con il miglior Baggio in viola, una coppia-gol così leggiadra da risultare immarcabile per quasi tutte le difese avversarie (29 in due a fine stagione), un rapporto che andava oltre il campo. «E sai qual era allora la mia gioia più grande?», chiedeva Baggio in maniera retorica a quel compagno di una sola stagione nel giorno della sua morte. «Forse non te l'ho mai detto: mandarti in gol con un assist e vedere nei tuoi occhi un'infinita felicità. È il ricordo di quella felicità che oggi, caro Stefano, riesce a compensare il dolore per la notizia della tua morte».
Borgogol non è stato l’unico ad andarsene prima del tempo, ammesso che possa esistere un tempo giusto per andarsene. L’ultimo è stato Stefano Salvatori nell’ottobre del 2017, prima di lui Paolo Perugi, che di quella Fiorentina era giovane rincalzo, e ancora prima Enrico Cucchi, per le complicazioni di un melanoma scoperto quando giocava nel Bari, un neo su una coscia diventato una condanna.
Di quella Fiorentina resta il guazzabuglio di emozioni di una squadra messa insieme alla carlona, piccole parti slegate tra loro e assemblate da un allenatore che è stato prima rivoluzionario, poi gestore, infine malinconico giramondo. E quando leggeremo della prossima avventura di Sven-Göran Eriksson da Torsby, che una volta arrivava in finale di Coppa dei Campioni o vinceva scudetti e adesso con le sue Filippine ha appena battuto Timor Est per 3-2, magari non la prenderemo nuovamente come l’ennesimo giro di giostra di un malinconico tombeur de femmes.