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Trentacinque anni di rancore
09 feb 2018
Dal 1982 il fuoco della rivalità tra Fiorentina e Juventus non si è mai spento.
(articolo)
17 min
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Ancora il solito pezzo storico prima di Fiorentina-Juve, come ogni anno due volte all'anno? Ancora con il gol di Graziani, i fiorentini che scendono in piazza per Baggio, e poi Baggio che non tira il rigore e raccoglie la sciarpa? Nel 2018, possibile? Eppure una rivalità secolare tra undici cavalieri senza nome vestiti di viola e undici loro nemici ineffabilmente bardati di bianco e nero è un'idea di partenza superiore alla quasi totalità degli episodi pilota attualmente in circolazione. Dovrebbero metterla su Netflix, la storia di Fiorentina-Juventus, così da poter tornare a piacimento avanti, indietro, un altro po' avanti, non così tanto!, un attimo indietro.

Le gambe e la palla si muovono nel tempo e nello spazio secondo logiche innaturali, comandate dalla manopola che ruota istericamente e strapazza il nastro del beta, in perenne ricerca di qualcosa che c'è? Non c'è? Deve pur esserci, un fallo, una spinta, un'ostruzioncina. Al duecentesimo cross di Antognoni si vede qualcosa, Bertoni alza il gomito, tocca il fianco di Corti, è abbastanza?, non è abbastanza? Torniamo indietro. Ricominciamo. Si riempie di cicche il posacenere appoggiato sul bracciolo del divano. Cagliari-Fiorentina del 16 maggio 1982 è un mistero senza fine.

"Mistero senza fine bello", correggeranno i lettori più eruditi. Ma quei versi, riferiti alla donna, li scriveva Guido Gozzano, che era di Torino ed era vissuto a cavallo dei due secoli, e di Giovani e Vecchie Signore aveva forse fatto in tempo a sentir parlare. Abituata a faccende ben più cruente, la tradizione letteraria fiorentina avrebbe riservato al calcio toni molto più cupi. Dante puniva i seminatori di discordia, nell'ottavo cerchio dell'Inferno, squarciandoli a colpi di spada, rimarginandone le ferite e poi riaprendole sadicamente. Metafora più metafora meno, è quel che succede ai tifosi viola ad ogni singolar tenzone contro la Juventus.

Il sospetto

Tra questa cruda e tristissima copia

corrëan genti nude e spaventate,

sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda

e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Dante colloca i ladri nella settima Bolgia dell'ottavo cerchio, poco lontano dai seminatori di discordia. Le mani, gli strumenti del loro crimine, sono legate tra loro da serpenti vivi, che talvolta penetrano la loro carne trasformandoli in rettili che, tra un morso e l'altro, li riducono in cenere e poi li ricompongono, per l'eternità – e ai tempi dell'Alighieri l'LSD era ancora di là da venire. Il veleno che ogni tifoso fiorentino che si rispetti ha in corpo dal pomeriggio del 16 maggio 1982 non ha origini così nobili, ma non è meno straziante.

Nel 1980, su insistenza di Artemio Franchi, preoccupato dalla difficile situazione finanziaria del club, il conte Flavio Pontello aveva comprato la Fiorentina affidandone la gestione al figlio Ranieri. I Pontello erano titolari di un'affermata impresa edile fondata in Friuli alla fine dell'Ottocento: da piccolo Flavio era stato compagno di scuola di Indro Montanelli, e proprio al grande giornalista chiede un parere. Questi gli sconsiglia di darsi al calcio, ma la tentazione alla fine prevale. Due anni dopo i viola di De Sisti e i bianconeri di Trapattoni sono a 90 minuti dal regalare al calcio italiano il secondo spareggio-scudetto della storia, a 18 anni da Bologna-Inter 1964. Il 9 maggio (una settimana prima di sancire con uno svarione più che sospetto la retrocessione del Milan) il portiere del Napoli Castellini si è ricordato del suo passato torinista e aveva bloccato la Juve sullo 0-0, consentendo alla Viola di agganciarla al primo posto. Sono già stati decisi il giorno e lo stadio – il sabato successivo, all'Olimpico. Le trasferte che aspettano le due rivali sono giudicate di uguale valore, medio-basso: la Juventus è ospite del Catanzaro già salvo, la Fiorentina va a casa di un Cagliari a cui basta un punto (e forse neanche quello) per evitare la discesa in B.

Se la lotta per la salvezza assume ben presto contorni deliranti, e si concluderà sulla sirena con le prime storiche retrocessioni “sul campo” di Milan e Bologna, la volata-scudetto fa registrare calma piatta per metà partita. C'è nell'aria degli addetti ai lavori la strana e curiosa convinzione che alla fine Juve e Fiorentina pareggeranno entrambe, per il più inevitabile degli spareggi: circostanza chissà quanto gradita alla Federcalcio e a Enzo Bearzot, che per il Mondiale di Spagna ha in animo di convocare undici giocatori interessati e non sarà molto contento di vedersi intossicare mezza squadra da una settimana di stress supplementare. Nel primo tempo la radio ha raccontato di un'energica spallata dello stopper juventino Sergio Brio ai danni dell'attaccante calabrese Borghi, che le moviole della sera dissezioneranno con impassibilità da entomologo: di gomitata si trattava, e dunque di rigore. Poi, in Sardegna, succede l'Episodio Fatale: cross di Antognoni, dopo uno scontro con Daniel Bertoni il portiere cagliaritano Corti manca la palla e Graziani segna a porta vuota. Dopo un attimo d'esitazione, quanto basta per vedere la palla entrare in porta, l'arbitro Maffei fischia il fallo. Pochi minuti dopo, a Catanzaro, la Juventus guadagna un rigore questo sì piuttosto netto per fallo di mano di Celestini: lo trasforma con calma glaciale Liam Brady, nonostante già sappia di essere stato messo alla porta per Boniek e Platini, e così la Juventus vince il suo ventesimo scudetto.

Da 3:48 la precisissima moviola di Carlo Sassi, un esempio di equilibrio e obiettività che vale ancora oggi.

Qui finisce la cronaca e iniziano le congetture, che purtroppo ogni tanto fanno a cazzotti con la realtà dei fatti. È vero che Ciccio Graziani, nella prosa alla Aldo Fabrizi che da sempre lo contraddistingue, strappa un sorriso quando racconta che «quando saltava, Bertoni saltava come il figlio di Andreotti», e mima il collo incassato nel busto. Ma già la moviola di Carlo Sassi alla Domenica Sportiva fa notare il movimento dell'argentino a disturbare Corti, che Mattei ben piazzato rileva abbastanza chiaramente.

L'instabilità emotiva di una città che attendeva da tredici anni lo scudetto, che d'altra parte sta ancora rincorrendo, trasforma un episodio dubbio, ma non certo campato in aria, in un “furto” con tanti punti esclamativi. “Meglio secondi che ladri!”, coniato dalla testata locale Brivido Sportivo, sarà per gli anni a venire un motto comunale certamente non all'altezza della fama della letteratura locale: era stato assai più ironico e sferzante il conte Flavio Pontello, quando aveva osato attaccare l'inattaccabile Avvocato Agnelli, dandogli con impareggiabile alterigia del “metalmeccanico”. Persino un regista baciato dalla grazia e dall'eleganza come Franco Zeffirelli aveva perso il proprio equilibrio intellettuale: «Ho visto Boniperti in tribuna», dice in un'intervista a La Nazione allo storico scriba fiorentino Raffaello Paloscia, «mangiava noccioline come un mafioso americano». Querelato, ci rimetterà 40 milioni. Ventiquattro anni dopo, in piena Calciopoli, la Gazzetta dello Sport darà sadicamente spazio alle sue parole di rivalsa: «Il tempo mi ha dato clamorosamente ragione».

Questa, dunque, la pietra dello scandalo, il peccato originale con cui dovettero confrontarsi negli anni a venire tanti piccoli e grandi personaggi coinvolti in questa magnifica ossessione che la città più bella del mondo, senza dubbio, nutre per un insignificante stock di undici magliette senza alcun colore.

Il tradimento

Io non so chi tu se' né per che modo

venuto se' qua giù; ma fiorentino

mi sembri veramente quand' io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,

e questi è l'arcivescovo Ruggieri:

or ti dirò perché i son tal vicino.

Vicinissimi a Lucifero, nella seconda zona del nono cerchio, ecco i Traditori: dei parenti, della patria, degli ospiti, dei benefattori. Tra essi il più famoso è certamente il proverbiale conte Ugolino, traditore dei Ghibellini, immerso nelle acque gelate di Cocito. Il Poeta lo riconosce dall'accento e se ne fa raccontare la straziante sorte: essere rinchiuso in una torre e, forse, roso dai morsi della fame, divorare i suoi stessi figli (ma "poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno", secondo altre versioni, si può interpretare anche come una semplice morte per inedia). Muore un po' di fame l'ultima Fiorentina dei Pontello, dissanguata da mercati facoltosi a metà anni Ottanta e poi sempre più incline a ritrarre il braccino. Nell'estate 1989 è stata dimezzata la B-B, la coppia d'attacco Borgonovo-Baggio che aveva riportato la Viola in Coppa UEFA. Pur orfano del primo, il secondo disputa una stagione 1989-90 sensazionale, in cui stampa in faccia a Maradona il replay del gol dell'Azteca, rifatto al San Paolo ai danni della difesa campione d'Italia.

In una collana di DVD edita una decina d'anni fa dalla Gazzetta dello Sport, quello di Baggio è stato messo al primo posto tra i gol più belli della storia viola.

Complici anche i lavori di ristrutturazione dello stadio Franchi per i Mondiali, che lo rendono un orrendo scheletrone spesso semivuoto, il campionato va assai male e la salvezza arriva solo all'ultima giornata, ma in compenso la coppa UEFA – disputata sul campo neutro di Perugia – si rivela una cavalcata trionfale. Cadono l'Atletico Madrid, il Sochaux, la Dinamo Kiev, l'Auxerre e in semifinale il fortissimo Werder Brema: richiamato in panchina per l'ultimo mese, Ciccio Graziani fa in tempo a sfoggiare all'andata, in Germania, un impermeabile alla Beckenbauer che lo rende immediatamente personaggio-cult.

Al ritorno a Perugia il piccolo e biondo attaccante Marco Nappi si esibisce nel leggendario numero della foca per cui sarà ricordato in saecula saeculorum. Nessuno dà troppo peso agli scalmanati che tirano una sirena da nebbia (!) verso il portiere tedesco Reck, colpendolo alla spalla, e poi invadono festosamente il campo con qualche secondo d'anticipo. L'UEFA però chiude i cancelli del Curi per il match di ritorno: 29 anni dopo l'ultima finale europea, persa contro i Rangers Glasgow, la Fiorentina è costretta a trovarsi uno stadio ad almeno 300 chilometri di distanza. E qual è l'altra finalista? Bravi.

La scelta della società sarebbe caduta sull'amica Verona, la cui tifoseria è gemellata con quella viola, ma i chilometri sono solo 220. Bisogna emigrare al Sud, sul tappeto le ipotesi Napoli e Lecce. Nel frattempo, la Fiorentina gioca e perde 3-1 la finale d'andata al Comunale di Torino, una partita traboccante di tensione in campo e sugli spalti, arbitrata da uno spagnolo dalle generalità facilmente equivocabili. Si chiama Emilio Soriano Aladrén e nella vulgata fiorentina diventerà subito Aladròn, soprattutto per la clamorosa topica che prende sull'1-1, quando ignora la spinta di Casiraghi su Celeste Pin, decisiva per sbilanciare il numero 5 viola e favorire il 2-1 dell'ariete bianconero. Proprio Pin, solitamente piuttosto mite, uscendo dal campo urla “Ladri!” a voce talmente alta che entra nel microfono del giornalista RAI che sta intervistando Dino Zoff a bordo campo.

Tra gli episodi minori di una partita avvelenata, al minuto 2:10, una scomposta reazione ai danni di Nappi con la palla ancora in gioco, tra le mani di Tacconi: in linea teorica, sarebbe stato almeno calcio di rigore.

Dopo aver valutato addirittura la sede di Monte Carlo, dove la famiglia Pontello ha tanti amici e tanti interessi, si decide che la finale di ritorno si giocherà ad Avellino, a 513 chilometri di autostrada da Firenze. Non sembra una partita “in casa”: qualcuno tra i tantissimi tifosi juventini presenti al Partenio fa scivolare via il vessillo della Fiorentina dal pennone su cui era stato issato, incendiandolo. La partita, molto noiosa, segue il proprio corso naturale senza deviazioni, finisce 0-0 e la coppa va alla Juventus. Ma non sarà questa la notizia peggiore di quella disgraziata primavera 1990.

Ventiquattr'ore dopo, alle ore 13:48 del 17 maggio 1990, la Fiorentina annuncia la cessione di Roberto Baggio alla Juventus; il giocatore appone il suo pregiato autografo nello studio di Luca di Montezemolo in via della Camilluccia, a Roma. La cifra è causa di dibattiti ancora oggi: si parla di 25 miliardi, poi 18, poi 11 e mezzo più il cartellino di Renato Buso. La notizia era nell'aria da parecchi giorni, tanto che i più maligni avevano storto il naso sull'errore di Baggio a tu per tu con Tacconi, nella finale d'andata di Coppa UEFA. Nel pomeriggio, Claudio Pontello tiene una conferenza stampa per chiarirsi con i frastornati tifosi viola: le sue parole vengono amplificate in tutta Firenze dalle radio private. Non l'avesse mai fatto: quando annuncia che la sua famiglia ha intenzione di mantenere il controllo della società, è come se suonasse il gong che fa partire una notte irripetibile e irripetuta per la città del Giglio. Gli ultrà si radunano sotto la dimora di famiglia: “Tutte le sere, verremo tutte le sere”. Compaiono scritte sinistre sui muri: “Uccidere i Pontello non è reato”. All'alba la Questura conta cinquanta feriti, 15 arresti e 54 fermati. Il questore Filippo Fiorello commenta: «Ci sono stati molti episodi di complicità. Mentre la polizia caricava i manifestanti, dalle finestre di alcune case di piazza Savonarola (sede della Fiorentina) o viale Matteotti la gente lanciava pietre e vasi da fiori sulle forze dell'ordine. La gente ci trattava come nemici, ci offendeva, ci chiamava bastardi».

Il passare dei giorni e il montante entusiasmo sul Mondiale 1990 favoriscono un lento oblio su una storia che il nostro Virgilio Paloscia definirà come “una delle vicende più ambigue della storia del calcio italiano”: mossi dal legittimo desiderio di monetizzare, i Pontello si prestano di buon grado alla pantomima del mellifluo Antonio Caliendo, procuratore di Baggio, che spinge il suo assistito verso la Juventus dando tutta la colpa all'avidità della società viola. Sinceramente affezionato a Firenze, tanto da rifiutare di mettersi al collo una sciarpa della Juve davanti ai giornalisti, Baggio fa la figura del burattino, ma avrà un inatteso scatto d'orgoglio nella primavera successiva. Lui che è ragazzo candido, a disagio nel sentimento negativo, vive malissimo il suo primo Fiorentina-Juventus da nemico. Tra un “devi morire” e l'altro vorrebbe davvero non procurarselo quel rigore, resiste quanto può all'entrata del difensore viola Salvatori, ma Rosario Lo Bello indica ugualmente il dischetto. Tira... De Agostini, e sbaglia.

Al 64' Maifredi pone fine all'agonia, lo sostituisce con Alessio e a questo punto succede una cosa strana: tutto lo stadio si alza in piedi per applaudirlo. Fuori dal campo Baggio non è più un nemico, uno sporco juventino, ma torna il ricciolino dal ginocchio scassato che tutta Firenze aveva aspettato per mesi. Un tifoso gli lancia una sciarpa viola: diretto verso lo spogliatoio, Baggio rallenta il passo, la raccoglie, fa un saluto, reiterato al passaggio sotto la Fiesole. Dal settore ospite, livido di rabbia, si leva il coro: «Baggio puttana, l'hai fatto per la grana». Dei quattro lancinanti capitoli di questa storia, per Firenze questo è l'unico davvero a lieto fine.

La beffa

Rispose a me: «Là dentro si martira

Ulisse e Dïomede, e così insieme

a la vendetta vanno come a l'ira;

e dentro da la lor fiamma si geme

l'agguato del caval che fé la porta

onde uscì de' Romani il gentil seme.

Nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio stanno i consiglieri fraudolenti, tormentati da fiamme a forma di lingua. I più famosi sono Diomede e Ulisse, affratellati nel supplizio, puniti per l'inganno del Cavallo di Troia, a cui il Sommo Poeta fa pronunciare l'immortale orazione per esortare i compagni di viaggio a superare le Colonne d'Ercole: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

Partito la mattina del 29 agosto 2012 dall'aeroporto di Manchester, su un volo privato per l'Italia pagato dalla Fiorentina, l'attaccante bulgaro Dimitar Berbatov fa scalo intorno a mezzogiorno a Monaco di Baviera. È il terzultimo giorno di calciomercato: i viola lo attendono come ciliegina sulla torta di un mercato stile vecchi tempi, con acquisti come Pizarro, Borja Valero, Gonzalo Rodriguez, Cuadrado e altri ancora.

Il giorno prima è avvenuto lo scambio di fax con il Manchester United: 5 milioni alla società, triennale da 1,8 milioni all'anno al giocatore. La società prepara il comitato d'accoglienza all'aeroporto Vespucci, e con lei tanti tifosi: qualcuno ha anche un mazzo di fiori in mano: lo prenderà in custodia Eduardo Macia, direttore tecnico della Fiorentina, e magari nel pomeriggio ci scapperà anche il primo allenamento. L'atterraggio è previsto per le 13:30: ma a quell'ora non arriva nessuno, e neanche alle 14. Quando è atterrato a Monaco, Berbatov ha ricevuto una telefonata da Torino. E così, alle 18:30, il direttore generale Marotta annuncia l'accordo con giocatore e società: Berbatov alla Juventus per 4 milioni e mezzo di euro. Firenze vede viola, cascata con tutti i piedi in una trattativa boccaccesca, nel senso delle “beffe” di cui cadevano vittima i poveri sprovveduti nel Decamerone.

Alle 21:45 si scopre che è stata turlupinata pure la stessa Juventus: stufo dello stallo messicano venuto a crearsi, Berbatov ha definitivamente accettato la corte del Fulham, e buonanotte all'Italia. A tarda sera la famiglia Della Valle rilascia uno dei comunicati più duri mai emessi in assoluto contro la Juventus negli ultimi sette anni: «Berbatov a Firenze non è mai arrivato a causa di operazioni spericolate e arroganti di altre società, che niente hanno a che fare con i valori della correttezza, del fair play e dell'etica sportiva e che si collocano oltre i confini della lealtà». Il 30 agosto – penultimo giorno di calciomercato – Marotta corre ai ripari ingaggiando il pennellone danese Nicklas Bendtner, non quel che si dice un colpo memorabile (nove presenze, zero gol, ma strepitosi titoli di coda). Il 31 agosto i Della Valle richiamano all'ovile Luca Toni, che invece contribuirà eccome alla causa con 8 gol in 27 partite.

Il titolo del video, “Rivoglio i soldi da Berbatov”, strappa un sorriso ancora oggi.

Lo sparo

"Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia

la riviera del sangue in la qual bolle

qual che per vïolenza in altrui noccia".

Oh cieca cupidigia e ira folle,

che sì ci sproni ne la vita corta,

e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!

Nel primo girone del settimo cerchio stanno i violenti contro il prossimo, tra cui gli omicidi, immersi fino al collo nelle acque incandescenti del fiume Flegetonte. E' un esempio sufficientemente esaustivo di dannazione eterna che nel calcio ha un preciso termine di paragone. Dall'anno fatale 1982 a oggi, tra competizioni domestiche e internazionali, la Juventus ha affrontato altre squadre italiane in decine di scontri a eliminazione diretta, e a intervalli regolari tutte loro si sono prese almeno una volta la soddisfazione da raccontare ai nipoti: il Bari, il Cagliari, il Perugia, il Venezia, persino il Como in un'epocale tormenta di neve nella coppa Italia del 1986. Tra le grandi o le medio-borghesi c'è solo una squadra che, cinque volte su cinque, mischiando Italia ed Europa, ha sempre perso. Qual è questa squadra? Bravi.

Un buon esempio di questa ineluttabilità della sconfitta sta nella partita del 20 marzo 2014, ultimo giorno d'inverno, ottavo di finale di ritorno di Europa League. All'andata la pimpante Fiorentina di Montella ha strappato un inatteso 1-1 allo Juventus Stadium grazie a un lampo di Mario Gomez, oggetto misterioso della stagione dopo un grave infortunio a settembre. La prospettiva di poter giocare al Franchi per lo 0-0 non è delle più rilassanti, ma è pur sempre un bel punto di partenza. La designazione dello sceriffo inglese Webb ringalluzzisce i tifosi viola, ancora memori del maledetto Aladrén-Aladròn. Lo 0-0 rotola su una lama sottilissima, eppure non cade mai, per 69 minuti. Poi Gonzalo Rodriguez entra duro su Llorente a 20 metri dalla porta, posizione centrale. Webb tiene fede alla sua nomea di uomo di legge e sventola il rosso sul naso dell'argentino, già ammonito. Lo stato di prostrazione mentale in cui sono precipitate di colpo la Fiorentina e l'intero stadio Artemio Franchi è ben sintetizzato dai due minuti di cui ha bisogno Neto per piazzare la barriera. Come Indiana Jones non si lascia irretire dalle moine dell'arabo con la scimitarra, Andrea Pirlo si mantiene gelido: con una frustata di destro perpetua la maledizione viola mandando la palla sotto l'incrocio, proprio là dove se l'aspettava tutto lo stadio, tutta Firenze e anche qualche creatura da museo: diteci per esempio se l'espressione di questo personaggio ritratto nel Cinquecento da Giorgio Vasari, in un bozzetto a matita custodito nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, non è drammaticamente premonitrice.

Viste dalla prospettiva dei tifosi comuni, queste immagini sono ancora più drammatiche.

Tante squadre possiedono nei loro ricordi un episodio attorno al quale hanno sviluppato la propria conflittualità contro la Juventus. Tutte queste squadre hanno poi trovato nel tempo il modo per rifarsi emotivamente nei confronti dei bianconeri, vincendo più o meno trofei. Per la Fiorentina invece il tempo si è fermato alle ore 17:15 del 16 maggio 1982.

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