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Credere ancora in Florian Thauvin
26 ago 2024
26 ago 2024
Il lungo percorso che lo ha portato alla grande prestazione contro la Lazio.
(copertina)
IMAGO / ABACAPRESS
(copertina) IMAGO / ABACAPRESS
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Più bello l’assist di esterno per Lucca o il gol di punta? Preferite l’eleganza e la morbidezza di quel piede sinistro in grado di telecomandare i palloni, o la rabbia e l’ostinazione con cui resiste alla trattenuta di Guendouzi a centrocampo e si infila nel cuore dell’area della Lazio come una pallottola?

Chi avrebbe detto, anche solo due settimane fa, che ci saremmo fatti questo tipo di domande riguardo Florian Thauvin? Un altro di quei giocatori il cui talento sembrava svanito come un bel sogno al mattino - ti sembra di poterlo afferrare di nuovo, di poterci tornare a vivere dentro, ma ormai è tardi, quel mondo lì non c’è già più - arrivato in Italia a 31 anni, dopo una stagione e mezza passata in Messico come un personaggio di Bolaño. Tanto per cominciare: cosa ci era andato a fare, in Messico, se non per finire la propria carriera in un posto esotico? E cosa è venuto a fare, adesso, in Italia, a Udine?

«Sarei potuto andare in Arabia Saudita, in MLS», ha detto lui «Ma tornando qui [in Europa, ndr] volevo dare un messaggio forte: guardate ho scelto la Serie A, in Italia, un campionato famoso per il livello atletico, dove si lavora duramente, voglio dimostrarvi che sono in forma, che mi sto preparando bene e che voglio tornare in alto».

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Per capire con chi ce l’abbia Florian Thauvin, a chi voglia dimostrare (ancora) il proprio valore, bisogna conoscerne la storia. Almeno un po’. Va ricordata quanto meno la partita contro il Rennes - marzo 2016 - che il Marsiglia stava perdendo in casa 3-0, e non era ancora finito il primo tempo. Thauvin sta per battere una punizione vicino al fallo laterale. Il Velodrome fischia tutti (tranne Steve Mandanda), e fischia soprattutto Thauvin.

È tornato da poco, dopo essere stato ceduto al Newcastle (non per suo volere ma per necessità del club) e aver passato cinque mesi in palestra per provare a convincere Steve McClaren di essere all’altezza della Premier League. L’anno prima ancora, con Marcelo Bielsa in panchina, la sua efficacia offensiva è crollata da un anno all’altro. Nessuno metteva in dubbio la sua applicazione ma sembrava aver raggiunto un limite, che era un limite fisico ma che diventava anche tecnico e spostava il suo livello complessivo più in basso di quanto ci si aspettava.

Nel marzo del 2016 l’Olympique Marsiglia è in una profondissima crisi tecnica e societaria - che si risolverà nell’autunno successivo, con l’acquisto del club da parte di Franck McCourt - e Thauvin è il capro espiatorio perfetto. Oltre ai fischi vola anche una bottiglietta d’acqua, che lo colpisce al centro della schiena.

Thauvin allarga le braccia e si allontana, lentamente, con le spalle incassate, chiuse, che tradiscono tutta la sua timidezza. «Al Velodrome non riuscivo a lasciarmi andare, ad essere me stesso. Mi tenevo le emozioni dentro, non ero del tutto libero», dirà anni dopo «Fino a quando mi hanno mancato di rispetto».

Qualche minuto dopo il lancio della bottiglietta, gli arriva una palla più o meno in quella stessa zona - che è la sua zona: quella vicina all’angolo destro dell’area di rigore, dove il suo piede sinistro si scalda fino a prendere fuoco. Un avversario gli arriva addosso da sinistra, può a malapena controllare prima di calciare d’istinto a giro, fortissimo, sotto l’incrocio più lontano.

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I suoi non sono tiri a giri normali. Le parabole di Thauvin girano così lontano dai portieri da farli sembrare più piccoli di quelli che sono, degli uomini in mezzo all’oceano che cercano di aggrapparsi disperatamente a un salvagente. I suoi palloni viaggiano così veloci che sembrano sfere di piombo guidate da rotaie di ferro, prima di entrare in porta sembrano accelerare per effetto della curva e della gravità. Thauvin segna il gol che momentaneamente risveglia l’OM - che poi farà anche il 3-2 prima di crollare di nuovo e perdere 5-2 (doppietta, addirittura, di Yoann Gourcuff) - ed esulta arrabbiato, si gira verso la tribuna da cui lo hanno preso di mira e prende a pugni l’aria. Neanche in questo caso, però, Thauvin sembra davvero arrabbiato. Più che altro, deluso.

Di delusioni Thauvin ne ha vissute parecchie. A parte il suo rapporto con la palla, le cose che riesce a fargli fare usando il suo piede sinistro, niente è mai andato troppo liscio per lui. A quindici anni, ad esempio, si procura una frattura “da fatica” alla schiena. I medici gli dicono che è finita, che non sarà mai un calciatore. Deve portare per sei mesi il busto, i compagni lo prendono in giro mentre lui si allena da solo, in palestra, con l’unico preparatore che pensava sarebbe potuto uscirne. Poi il Grenoble fallisce e deve trovarsi una nuova squadra.

In Francia lo scambiano per un ragazzino arrogante, anche se è solo un provinciale un po’ introverso (è nato a Orleans) che prova a mascherare la propria timidezza con gli orecchini, i doppi tagli e l’atteggiamento forzatamente disinvolto. Quando esplode a Bastia - miglior giovane della Ligue 1 a diciotto anni, stagione 2012/13 - firma subito con il Lille, a gennaio, nei sei mesi successivi però lo lasciano a Bastia e quando il Marsiglia bussa alla sua porta lui si lascia sedurre. Finisce in un meccanismo più grande di lui in cui il Lille (con cui alla fine non ha giocato neanche una partita) continua ad alzare il prezzo prolungando i tempi, partendo da 8 milioni per arrivare a 15 all’ultimo giorno di mercato, mentre lui fa la figura di quello che forza la cessione rifiutando di allenarsi (rimettendoci di tasca sua 1500 euro al giorno).

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Alla sua prima stagione in Ligue 1 con la maglia del Bastia segna un grande gol al Velodrome, contro l’Olympique di Marsiglia, interrompendo la striscia di imbattibilità (sette partite) di Steve Mandanda, che poi diventerà un suo grande amico.

Thauvin ha una scusa pronta per ogni momento difficile della sua carriera. A Newcastle, il giorno della partita, si presenta al campo in smoking. Senza apparente motivo. Alan Shearer lo sfonda e lo smoking diventa la rappresentazione plastica della sua presunzione, mentre piuttosto lo è del suo rapporto complicato con la realtà, di una fatuità che al suo livello non ci si può permettere.

Poi gli tirano una bottiglietta sulla schiena e tutto cambia. «Mi sono detto che mi sarei dovuto lasciar andare. Tanto più in basso di così non potevo scendere. Non poteva andare peggio». Gioca tre stagioni, dal 2016 al 2019, in cui è uno dei migliori giocatori del campionato (53 gol e 27 assist), l’OM con Rudi Garcia in panchina arriva a giocarsi una finale di Europa League (persa contro l’Atletico Madrid) e Thauvin vince il Mondiale con la Francia (anche se gioca solo pochi minuti agli ottavi contro l’Argentina). Diventa un beniamino dei tifosi, forse persino una leggenda dell’Olympique Marsiglia. «Non so quanti giocatori hanno fatto meglio di me a Marsiglia, nel ventunesimo secolo. Non so neanche se ce n’è uno», ha detto lo scorso aprile.

Poi si infortuna alla caviglia (luglio 2019), resta fuori quasi un anno, in mezzo al quale arriva il COVID. È un momento difficile per Thauvin, sente che nessuno, tranne la famiglia e gli amici, gli sta tendendo una mano. Quando sei infortunato, dice, «le persone non ti considerano più». È una persona sensibile: quando Steve Mandanda si frattura la vertebra cervicale prima del Mondiale lui lo va a trovare in ospedale e passa la notte con lui. Due notti, anzi. Quando ricorda quel momento, Thauvin, si mette a piangere. «Per me è più di un amico, è parte della famiglia», dice di Mandanda «Quando io ero in Inghilterra ci sentivamo tutti i giorni, quando lui era in Inghilterra ci sentivamo tutti i giorni…».

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Gioca un’altra stagione, con Sampaoli in panchina, poi all’improvviso, a fine contratto, decide di andare in Messico. Un po’ se la prende con la dirigenza che non si è occupata della questione prima, che lo ha mandato in scadenza, un po’ dice di essere andato in Messico per sottrarsi alle pressioni di Marsiglia. Dei tifosi e dei media. In un’intervista dello scorso inverno ha parlato anche di depressione. «Non me ne sono accorto io, sono state le persone intorno a me che mi hanno detto: Flo, parlane con qualcuno, esprimiti, digli come ti senti. E poi quando ho incontrato questa persona [un’analista, ndr], tre mesi prima di andare via da Marsiglia, penso, mentre parlavo sono scoppiato a piangere. Poi abbiamo ricominciato a parlare e questa donna mi ha detto a un certo punto: è una forma lieve, ma è depressione. Sono rimasto scioccato, ma mi sono detto che forse era ora di prendere un po’ di distanza».

Da Monterrey - dove ha raggiunto Pierre-André Gignac al Tigres - però fa scoppiare un altro mezzo casino. Ospite della trasmissione di Jerome Rothen, mentre chiacchiera fuori onda, per parlare bene del Messico, della scuola americana del figlio di due anni, finisce per parlare male di Marsiglia, dicendo che se ne è andato anche per non far crescere il figlio lì. Persino il sindaco di Marsiglia si è sentito in dovere di difendere la città con un tweet. Thauvin si è scusato, ha detto che era una conversazione privata e poi, provando a fare con le parole una magia di quelle che gli riescono solo coi piedi, che non pensava le cose che aveva detto.

Fatto sta che anche in Messico non si adatta del tutto, per via del caldo, dell’altitudine. Non ha lo spirito mimetico di Gignac e quando decide di tornare, di nuovo, non trova nessuno a tendergli una mano, un’espressione molto sua. Arriva così all’Udinese, con la voglia di prendersi una rivincita. «Ci sono giocatori che giocano ad alto livello in grandi squadre fino ai 35, 36 anni, compreso il Real Madrid. Il mio obiettivo è di giocare bene le quattro o cinque stagioni che mi restano».

Insomma Thauvin è finalmente maturo o sta solo portando avanti l’illusione di prima, prolungando l’idea che possa entrare nel giro delle grandi squadre prima di svanire del tutto. È una rinascita o solo l’ultimo fuoco d’artificio quando la spiaggia è già mezza vuota e gli spettatori iniziano ad avere male al collo? Udine per lui sembra come l’Elba per Napoleone, quando faceva riparare strade in attesa di poter tornare in Francia e fare guerra al resto d’Europa. Ma Thauvin non ha il temperamento del generale, dell’imperatore che si mette la corona in testa da solo.

Thauvin non sembra essersi sentito mai a casa da nessuna parte. Forse perché casa sua l’ha lasciata quando era molto giovane, la sua carriera sembra una lunga ricerca di qualcosa che non esiste, una pace, un riconoscimento, e anche quando sembrava esserci arrivato, come a Marsiglia gli ultimi anni, evidentemente dentro di lui non era così.

Resta un giocatore miracoloso, con un piede sinistro che è una bacchetta magica. Accontentiamoci di ammirare la sua grazia, quelle braccia larghe con cui sembra voglia tenersi in equilibrio su un filo quando dribbla, quel tocco di palla che hanno pochissimi oltre a lui. Il potere quasi sovrannaturale di trasformare la materia: per Lucca il pallone è morbido come una palla di spugna, di quelle con cui far giocare i bambini in casa per non fargli rompere i vetri; ma quando calcia lui diventa una palla di cannone in grado di affondare una nave. Quando sta bene, è un piacere veder giocare Thauvin.

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