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Quasi leggenda 1992/93: il Foggia di Zeman
09 apr 2020
Racconto della Zemanlandia più improbabile.
(articolo)
18 min
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Una stagione, una squadra, un piccolo sobbalzo del cuore. In un viaggio dall’annata 1988-89 ai giorni nostri, ripercorriamo la cavalcata di una formazione per ogni campionato di Serie A, con un solo paletto: nessun trofeo alzato alla fine dell’anno. Squadre che hanno entusiasmato chi le sosteneva sugli spalti senza vincere nulla, semplicemente perché la vittoria non era alla portata. Salvezze raggiunte con le unghie, qualificazioni europee inattese, attimi di puro e semplice spettacolo. Per scoprire che possono essere oneste anche le fotografie in cui siamo bellissimi e perdenti.

Zdenek Zeman passeggia su un prato devastato con la flemma che lo contraddistingue. Sul volto ha un’espressione austera, seriosa, che a tratti sfocia in una sorta di sdegno. È la maschera che lo ha accompagnato per una vita intera, e soltanto quando la telecamera allarga il suo occhio possiamo cogliere la gravità di ciò che è successo qualche ora prima. Zeman continua a fare piccoli passi, raccoglie qua e là una zolla, ne saggia la consistenza con le mani. È sul terreno di gioco del Pino Zaccheria, il palcoscenico dei primi anni di Zemanlandia. È il 13 settembre 1992 e i tifosi del Foggia, in aperta contestazione con il patron Pasquale Casillo, hanno deciso di vendicarsi in maniera truce, arando il campo da gioco.

I pali delle porte sono stati divelti dal terreno, all’interno del cerchio di centrocampo si legge la scritta «CASILLO VATTENE» composta con la calce, così grande che si potrebbe vedere da un satellite. Sulla panchina, con uno spray rosso, una dichiarazione d’amore nei confronti del tecnico: «Scusa Zeman». Il Foggia è reduce da una stagione deflagrante, la prima in Serie A agli ordini dell’allenatore boemo.

Le grandi non hanno bussato alla porta di Casillo per il vero artefice di quel miracolo, ma sono riuscite a portare via tutta la gioielleria. Shalimov all’Inter, Signori alla Lazio e Baiano alla Fiorentina, ma anche Rambaudi all’Atalanta e Matrecano al Parma, oppure Onofrio Barone al Bari e Mauro Picasso alla Reggina. A sostituirli, una manciata di ragazzi provenienti dalle serie minori. Non c’è davvero nulla, se non la presenza di Zeman, a poter far pensare a una salvezza tranquilla di un Foggia costruito al risparmio, e la tifoseria sbotta nel peggiore dei modi. Sono forse le ore più brutte del periodo foggiano di Zeman, che in quella passeggiata lenta pensa a cosa fare del proprio futuro. Medita le dimissioni, si sente tradito. Nel giro di poche ore, su quel campo distrutto, deve andare in scena la prima partita casalinga del Foggia 1992-1993, che nell’esordio al cospetto dei campioni d’Italia del Milan si era arreso soltanto per un autogol di Grandini. Sulle poltroncine dello Zaccheria è stato versato del catrame, un altro regalo riservato a chi vorrà assistere alla sfida con il Napoli del post Maradona. Gli azzurri sbancano uno stadio ridotto a un colabrodo, con il campo reso appena decente in extremis: finisce 2-4, nonostante un Foggia gagliardo nel primo tempo.

I giornalisti cercano Zeman a fine partita, ma il boemo non vuole parlare, pensa davvero alle dimissioni. Alla fine rimane in sella, convinto da Casillo, che in quei giorni di fuoco viene spesso accusato, oltre alla smobilitazione, di avere in testa soltanto la Roma, che Ciarrapico sta disperatamente tentando di vendere. Così come si era messo pazientemente a raccogliere le singole zolle, Zeman ricompone i cocci di una squadra che aveva fatto sognare l’Italia e ne va a plasmare una totalmente diversa eppure altrettanto bella, valorizzando il lavoro fatto dal d.s. Peppino Pavone, che aveva assemblato il nuovo Foggia pescando a piene mani da Serie B e (soprattutto) C. Negli occhi del grande pubblico resta il primo Zeman in A, quello dell’anno precedente; oppure i risultati di quello della stagione successiva, quando i “Satanelli” sarebbero andati a uno scontro diretto dalla clamorosa qualificazione UEFA.

Ma la stagione 1992-1993 è il capolavoro sommerso di un allenatore in perenne conflitto tra i ritmi folli del suo modo di intendere in calcio e quelle pause infinite davanti a un microfono, così naturali da sembrare studiate per mandare in escandescenze chi lo intervistava. La conferma, assolutamente impronosticabile alla vigilia del campionato, di un’utopia: si poteva sopravvivere nella Serie A dei giganti facendosi forti delle idee, trasferendo sul massimo palcoscenico dei ragazzi che non avevano la minima esperienza ad alto livello.

Il mercato

Zeman e Pavone lavorano fianco a fianco da anni, Casillo avrebbe rivelato le loro metodologie nel documentario “Zemanlandia”, curato da Giuseppe Sansonna: «Arrivavano con l’elenco ruolo per ruolo: prima scelta, seconda scelta, terza scelta. Io neanche guardavo, prendevo direttamente la terza scelta perché spendevo meno».

Tra le principali intuizioni del boemo, trasformare Giuseppe Signori da trequartista fumoso in ala/seconda punta micidiale. Era costato un miliardo e mezzo, una cifra che aveva fatto trasecolare Casillo, messo immediatamente a tacere da Zeman: «Basta che ti vendi un mulino, qual è il problema». L’ex Piacenza era diventato uno dei punti fermi della squadra capace di salire in Serie A e di mantenere la categoria a suon di gol. «Aggia fà 'a squadra cchiù forte r'o Milàn», ripeteva spesso Casillo ai suoi collaboratori prima della promozione e dopo quella splendida stagione che aveva visto il tridente Rambaudi-Baiano-Signori far saltare i piani delle difese italiane.

Ma le parole se le porta via il vento, e ben presto Casillo e Pavone devono fare i conti con la realtà: Baiano e Signori piacciono a Sergio Cragnotti, appena diventato proprietario della Lazio. Li vorrebbe entrambi, ma alla fine porta a Roma soltanto il biondino di Alzano Lombardo, 11 gol alla prima stagione in Serie A, ruolino leggermente peggiore rispetto al suo compagno di reparto. Baiano, di reti, ne ha segnate 16, meglio di Careca, Batistuta, Vialli e Riedle, peggio soltanto di Baggio e van Basten. Ciccio si accasa alla Fiorentina, salta anche il terzo componente del tridente, l’equilibratore Rambaudi, 9 gol e una marea di assist. Fanno 36 centri in tre, e il Foggia ne perde altri 9 cedendo Igor Shalimov, il numero 8 di quella squadra, all’Inter. Uno smantellamento in piena regola, 53 miliardi freschi nelle casse del “re del grano” se si considerano anche gli addii di Matrecano, Barone, Picasso e di qualche giocatore minore: «Tutti hanno comprato e io ho venduto, ma questo Foggia non è inferiore a quello dell’anno scorso. Partiamo dalla stessa posizione, il nostro obiettivo è la salvezza».

Nel ritiro di Campo Tures lavora una masnada di sconosciuti, i giocatori confermati sono pochissimi: il portiere Mancini, detto il René Higuita di Matera per il suo modo di interpretare il ruolo; Dan Petrescu, brillante terzino destro romeno; Grandini, il terzino sinistro di riserva, e Igor Kolyvanov, il terzo straniero prelevato nell’estate del 1991, reduce da un anno all’ombra del tridente titolare. Il russo è stato uno dei nomi caldi del mercato foggiano, in quanto inizialmente accantonato da Zeman insieme a Rosin, Codispoti e Consagra. I tre, dopo un ricorso presentato in collaborazione con l’AIC, riescono a ottenere la rinuncia al vincolo da parte del Foggia: a novembre si piazzeranno rispettivamente alla Ternana, all’Atalanta e al Bari. I volti nuovi, di conseguenza, sono tantissimi. Il cuore della difesa, privato di Matrecano, viene affidato al duo Di Bari (ex Bisceglie)-Bianchini, prodotto del florido vivaio romano della Lodigiani. A insidiare quest’ultimo, Giuseppe Fornaciari, prelevato dal Barletta. Per la fascia sinistra, la corsa di Giordano Caini, arrivato in seguito alla radiazione del Catania dopo anni passati nelle serie minori con Centese e Pro Sesto. Pasquale De Vincenzo, proveniente dalla Reggina in C1, è il nuovo numero 10 al posto di Onofrio Barone. Salto doppio anche per Andrea Seno, preso dal Como per raccogliere l’eredità di Shalimov. A tenere le redini del centrocampo, ovviamente dalla Serie C (Monza), un ventunenne ricciolino dal calcio potente e preciso: Luigi Di Biagio. Resta l’attacco, dove la maglia da centravanti è consegnata a Kolyvanov non senza un pizzico di scetticismo da parte di Zeman. «Io l’ho voluto, poi l’ho conosciuto bene e ho pensato che fosse meglio, anche per lui, cambiare società. Non ha voluto andarsene, vuole dimostrare di poter essere utile al Foggia. Per me vale venti gol a campionato, ma finora il suo gioco non si è integrato con quello della squadra. È ferito nell’orgoglio ma vuole restare e allora io sono contento».

Ai suoi fianchi, almeno a inizio anno, il rapidissimo Pierpaolo Bresciani, ventiduenne scuola Milan, 6 gol nel Palermo retrocesso dalla B alla C1, e Oberdan Biagioni, cresciuto come Di Biagio nel vivaio della Lazio, protagonista di un buonissimo biennio a Cosenza: per lui, come per Signori, Zeman ha in mente la trasformazione da centrocampista offensivo a esterno d’attacco. Arriva anche un nome esotico: Hernan Medford, l’uomo che, due anni prima, durante i Mondiali italiani, aveva permesso al Costa Rica di Bora Milutinovic di superare la Svezia e accedere, contro ogni pronostico, agli ottavi di finale. «Vendemmo tutto perché Zeman sosteneva che avremmo avuto problemi con questi giocatori, aspiravano agli stipendi delle grandi società, noi non potevamo andare oltre i 400, 500 milioni di lire a stagione. Erano giocatori da due miliardi, due miliardi e mezzo», avrebbe dichiarato in seguito Casillo, corroborato da Zeman. «Bisogna sempre rendersi conto dove si è: Foggia era diventata troppo piccola per questi giocatori, avevano tante richieste da club importanti, tenerli non sarebbe stato giusto per la loro carriera».

Roy arriva dall’Ajax a stagione in corso e dà un bell’impulso all’attacco foggiano, nel quale si fanno apprezzare anche Biagioni e Mandelli. Sciacca è il primo cambio dei centrocampisti, Fornaciari si gioca il posto con Bianchini, Nicoli e Grandini sono le riserve dei terzini

Il campionato

A Campo Tures nasce il Foggia dei miracoli, tra i famigerati gradoni e il solito lavoro fisico pesantissimo imposto da Zeman: i giocatori spingono finché possono ma non di rado c’è chi vomita a fine allenamento per la fatica. L’obiettivo del Foggia è salvarsi in A con una squadra di ragazzi provenienti dalla C, per certi versi è una vera e propria sfida a un campionato che, in quegli anni, inizia a conoscere investimenti massicci. «Non credo che i calciatori nascano con un timbro in testa: Serie A, Serie B e così via. Conosco un solo giocatore in grado di far pendere la bilancia dalla sua parte da solo, ed è Maradona. Non c’è tanta differenza tra quelli che giocano in A e i miei ragazzi, guardate la Juventus che scopre Torricelli e tutti applaudono. Sono gli stessi che guardano la mia squadra e si mettono a ridere: i giocatori diventano bravi solo se li scoprono gli altri?», si chiede Zeman alla vigilia di un campionato che si preannuncia di lacrime e sangue. Più che una struttura sostenibile, il Foggia sembra un esercizio di presunzione, la voglia di stupire a tutti i costi. «Credo in questo gruppo, nella sua voglia di lavorare, anche se non li conoscevo benissimo tutti, alcuni sono stati scelti dal nostro direttore sportivo, Pavone, senza che io li avessi visti prima. Ma il vecchio Foggia non poteva essere confermato».

Per quanto attraente, Zeman non è ancora il personaggio della fine degli anni ’90, in grado di spaccare in due l’opinione pubblica: «Sono rimasto a Foggia perché sono un uomo di sport, anche se forse il calcio non lo è più. Se fossi andato via, avrebbero detto che la mia era una fuga. E invece sono qui con un gruppo nuovo e penso proprio che ce la faremo». Con una mossa a sorpresa, Casillo non apre la campagna abbonamenti: non chiede ai tifosi una fiducia aprioristica, lascia che sia il campo a parlare. Sconfitta con il Milan all’esordio a San Siro (1-0), poi il ko con il Napoli nel giorno dello Zaccheria devastato, quindi tre sberle prese a Roma, sponda giallorossa. Alla quarta di campionato arriva l’Udinese e c’è già aria di dentro o fuori per il Foggia: la vittoria di misura, firmata da Petrescu, non fa che alimentare i dubbi sulla massiccia rivoluzione. Secondo gli addetti ai lavori, il fatto che gli unici due punti siano arrivati con un gol di uno dei pochi confermati è la certificazione delle fatiche foggiane. È una partita brutta, ma una squadra in crisi e senza spinta dei tifosi deve accontentarsi giocoforza della vittoria, per quanto sporca. La quinta giornata si gioca il 4 ottobre 1992 ed è un turno storico, con la Serie A che infrange un record rimasto in piedi dal 1931: 48 reti spalmate sulle nove gare in programma. Il Foggia non fa eccezione, anche se in negativo: nel pantano del Rigamonti, il Brescia a trazione romena (Lucescu in panchina, Sabau, Hagi e Raducioiu in campo) affonda i “Satanelli”, sfruttando le indecisioni di Mancini. Il 4-1 finale porta in dote quello che, da lì a fine stagione, sarà l’unico gol di Medford, che impallidisce davanti al capolavoro del momentaneo 3-0 dipinto da Hagi. Seguono un 2-2 interno con il Genoa e quello che ha il sapore della resa dopo sole sette partite: il derelitto Ancona, in crisi nera dal punto di vista societario, cavalca l’unico pomeriggio di gloria dell’esperienza italiana di Sergio “El Raton” Zarate, fratello maggiore di Mauro, e vince 3-0 contro ogni logica.

Mentre la società biancorossa viene ufficialmente messa in vendita insieme ai due eroi di giornata, Zarate e il campione del mondo 1986 Oscar Ruggeri, il Foggia si ritrova ultimo in classifica con la miseria di tre punti, gli stessi raccattati dal Pescara di Galeone. All’orizzonte c’è un mini ciclo che allerta non poco i tifosi rossoneri: Parma allo Zaccheria, Atalanta a Bergamo, Lazio nuovamente in casa. Contro i ducali si materializza un successo inatteso, un regalo di un vecchio amico come Salvatore Matrecano, che a un minuto dalla fine stende Oberdan Biagioni.

Il romano incrocia il destro e fa iniziare per davvero il campionato del Foggia, nonostante la sconfitta successiva a Bergamo (2-1). Per trovare le prime tracce di vero Zeman c’è da attendere un altro ritorno da ex, quello di Beppe Signori.

È anche il debutto del nuovo acquisto: per rinforzare l’attacco, visto il flop di Medford, arriva Bryan Roy. Poco più di 2 miliardi di lire nelle casse dell’Ajax, qualche milione nelle tasche di un giovane agente italiano che si sta facendo largo in Olanda: all’anagrafe fa Carmine ma tutti quanti lo conosceranno meglio come Mino negli anni a venire.

Quello di Roy in Italia è il primo grande trasferimento condotto da Raiola, il legame tra i due sarà rivelato molto tempo dopo dall’attaccante: «Mino aveva pitturato le pareti di casa mia, ma ora non gli piace quando glielo ricordo». L’impatto dell’olandese è eccellente, va subito a segno nel 2-1 contro la Lazio: mentre Signori paga lo scotto dell’emozione, Biagioni è glaciale ancora una volta dal dischetto nel trasformare il penalty del momentaneo 1-0. Roy raddoppia, Signori si sveglia nel secondo tempo con un palo e una traversa ma il Foggia infila la seconda vittoria casalinga consecutiva, trovando di lì a una settimana anche la terza, nuovamente con un rigore di Biagioni, sul Pescara. L’1-1 in casa del Torino fa morale prima della sfida con la Juventus e la società mette in vendita dei miniabbonamenti per le gare con la “Vecchia Signora”, con l’Inter e con la Fiorentina. È la partita che conferma il ritorno di Zemanlandia.

«Sono dei ragazzi molto bravi e determinati, che hanno dei grandi stimoli e sono diretti in maniera impeccabile da un allenatore che mi sembra che negli ultimi anni abbia dimostrato di essere validissimo», dice Vialli al termine della miglior recita stagionale del Foggia. I dissidi con il boemo, che arriverà a chiamare terrorista, sono decisamente lontani.

Senza gli squalificati Di Biagio in regia e Kolyvanov in attacco, Zeman vara un tridente leggerissimo che dura soltanto 16 minuti: Roy, nominalmente schierato centravanti, alza bandiera bianca per un problema fisico. Al suo posto entra Paolo Mandelli, un’altra delle scommesse estive. La bomba foggiana esplode a inizio ripresa: Biagioni di prima in verticale per il taglio di Bresciani che irride la linea bianconera e spara sotto la traversa davanti a Peruzzi, copione analogo cinque minuti più tardi, con Mandelli che sfila alle spalle della retroguardia juventina e fa secco il portiere con un delizioso tocco sotto. È la gara che riporta il lavoro di Zeman sulle prime pagine dei giornali, un successo che fa accendere i riflettori anche sui rincalzi rossoneri: è quello che capita a Sciacca, in campo al posto di Di Biagio, ex prodotto del vivaio del Napoli ripescato addirittura dall’Interregionale.

Il Foggia dei peones, dei diseredati, dei carneadi, diventa in fretta un caso da studiare. Il 18 dicembre, però, i giornali tornano su un affare che era nell’aria già da tempo: Casillo e Zeman lasceranno il Foggia, direzione Roma. I conti della società di Ciarrapico sono più rossi che mai e tutti sono convinti che il “re del grano” possa rilevare le quote del club, portando con sé il tecnico boemo. La trattativa c’è, è serrata e non priva di difficoltà, visto che la maggior parte delle azioni giallorosse è in pegno al Banco di Napoli. Si parla di un’operazione mastodontica, superiore agli 80 miliardi, e Casillo teme la presenza di debiti nascosti, soprattutto considerando che, nel bel mezzo del tira e molla, Ciarrapico viene arrestato: il 18 marzo 1993, nell’ambito dello scandalo Safim-Italsanità, il patron giallorosso viene colpito da un mandato di custodia cautelare. Entra a Regina Coeli tre giorni più tardi, e a gioco lungo Casillo finisce per fare un passo indietro, lasciando spazio al duo Sensi-Mezzaroma.

Today on “Things that never happened”.

Andare avanti in un marasma del genere non è facile per il Foggia, che riesce comunque a non perdere la testa. Pareggio a Genova sponda Samp (3-3), sconfitta con l’Inter, pareggio a Cagliari, vittoria con la Fiorentina a chiudere il girone d’andata e un bel 2-2 interno con il Milan degli invincibili per inaugurare il ritorno. Uno sforzo che non vale la tranquillità – la zona salvezza non è ancora così distante – ma permette al Foggia di respirare e di gestire al meglio le forze a disposizione: «L’idea di non essere al sicuro ci dà forza per sopravvivere e per tentare un passo nella storia», raccontava Di Bari alla vigilia del pari con il Milan. Tra il 14 febbraio (Foggia-Roma 0-0) e il 21 marzo (1-0 all’Ancona, gol di Seno), Zeman scopre quant’è bello non subire gol: un solo passaggio a vuoto, il 3-2 con l’Udinese, e altri due 0-0. È una squadra con meno qualità offensiva rispetto a quella dell’anno precedente, e non potrebbe essere altrimenti, ma il meccanismo del fuorigioco e il coraggio di Mancini nell’interpretare il ruolo di portiere fino ai 20 metri dalla porta consentono al Foggia di uscire più spesso del solito con la rete immacolata. «Zeman è una via di mezzo tra il maestro e lo psicologo», spiega capitan Seno. «Non ti dice mai bravo, però non ti fa pesare gli sbagli e ti trasmette tranquillità, facendoti credere di essere sempre all’altezza dell’avversario. Sappiamo di vivere dentro un sogno, un cristallo che può rompersi da un momento all’altro, ma andiamo avanti perché crediamo nelle nostre forze». Il rigore di Kolyvanov che piega l’Atalanta il 4 aprile vale il +3 sulla zona retrocessione, quindi è la volta di un bel pareggio all’Olimpico laziale (1-1) e una vittoria larga in casa di un Pescara allo sbando (2-4). La partita che regala virtualmente la salvezza arriva il 16 maggio: Foggia-Sampdoria 1-0, una papera epocale di Nuciari spiana la strada ai “Satanelli”, a +4 sulla coppia Fiorentina-Udinese con tre turni da giocare.

Lo stile inconfondibile e la voce di Beppe Capano, ideale colonna sonora degli anni migliori della storia del Foggia, raccontano con delicatezza lo scivolone di Nuciari, brillantissimo nei minuti successivi all’errore decisivo.

Il conforto dell’aritmetica giunge con il pareggio in casa dell’Inter, che stava faticosamente cercando di convincersi di essere ancora in lotta per lo scudetto, e con l’1-1 contro il Cagliari allo Zaccheria. La stagione si chiude male, con un 6-2 a Firenze nel giorno in cui i viola retrocedono clamorosamente in Serie B, con una squadra attrezzata per la zona UEFA e dopo una prima parte di stagione in cui, con Radice in panchina, si erano ritrovati a un passo dalla vetta prima dell’incredibile esonero del tecnico. Proprio nella pancia del Franchi, Zeman viene interpellato sul suo futuro: secondo molti, è il favorito per la panchina viola. «Se prima era difficile che io venissi, ora lo è ancor di più: dopo il 6-2 rimediato qui credo di avere poche chance e non verrei per la vergogna», sentenzia con la solita schiettezza.

Dice il vero: rimarrà a Foggia, per la terza versione di Zemanlandia in Serie A. Con le aggiunte di Chamot, Stroppa e Cappellini e la conferma praticamente in blocco della squadra dell’anno precedente, pur con la cessione di Petrescu, andrà a un passo dalla qualificazione in UEFA, per poi spiccare il volo verso la Lazio prima e la Roma poi. L’asse con Casillo e Pavone si riproporrà nuovamente ad Avellino nel 2003-04 (retrocessione in C1) e ancora una volta a Foggia, nel ventennale della promozione in A, lanciando due giovani attaccanti come Marco Sau e Lorenzo Insigne: sarà il penultimo squillo di tromba della carriera del boemo, prima dei fuochi artificiali di Pescara, della seconda esperienza romanista tutt’altro che memorabile e del trittico Cagliari-Lugano-Pescara bis.

C’è chi è convinto che il calcio sia cambiato drasticamente mentre quell’uomo di una Praga che non c’è più, figlio di un primario e di una casalinga, rimaneva ancorato a quei principi che lo avevano catapultato nel futuro quando gli altri erano fermi a guardarlo. Di questi tempi va di moda la parola divisivo, e in pochi lo sono stati come Zeman.

C’è chi lo ama, chi lo odia, chi lo difende, chi lo attacca, chi gli ha dedicato canzoni o incipit di canzoni («Sono quattro anni che ti amo e non ti ho mai parlato di Zeman»), chi ne ha scritto libri, trattati, saggi. Zeman è sempre rimasto lì, un monolite inscalfibile come quando Antonio Albanese, nei panni di Frengo, gli chiedeva: «Se nessuno più volesse assumerti, e se capitasse che a causa della meschinità che governa le cose umane nemmeno mezzo presidente di mezza squadra saudita volesse affidarti neanche la Primavera, che cosa accadrebbe, Simpatia?». O come quella mattina sul prato dello Zaccheria, quando pesava le zolle strappate via dal campo, con la morte nel cuore e la certezza di poter ribaltare ogni pronostico, guidando verso la salvezza e verso la notorietà una masnada di carneadi.

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