Dnipro vs. Lazio
di Flavio Fusi (@FlaFu_tbol)
Dopo la dolorosa eliminazione dai preliminari di Champions, la Lazio ha cominciato il proprio cammino in Europa League in trasferta con il Dnipro, la vera sorpresa della scorsa edizione: con un calcio basato su solidità difensiva e ripartenze riuscì ad arrivare fino alla finale. Ma il mercato ha impoverito gli ucraini del loro talento principale, Konoplyanka (passato a parametro zero al Siviglia), fondamentale nelle rapide transizioni offensive della squadra allenata da Myron Markevych; di Jaba Kankava, il carismatico centrocampista difensivo passato al Reims; del centravanti Nikola Kalinic, approdato alla Fiorentina di Paulo Sousa e di un ex-viola, Ondrej Mazuch, per la verità già out per un infortunio ai legamenti del ginocchio subito a novembre dello scorso anno. Gli appena due milioni di euro investiti non hanno portato in squadra grandi alternative, tanto che l’unico a cominciare da titolare tra i nuovi acquisti è stato il terzino sinistro Anderson Pico.
Pioli ha varato un turnover programmatico, inserendo Konko insieme a tre mancini in difesa (Hoedt, Gentiletti e Radu). A centrocampo ha dato spazio all’inedito trio Onazi, Milinkovic-Savic, Parolo, mentre Kishna ha fatto rifiatare Candreva, con Matri confermato titolare in attacco.
In uno stadio senza tifosi, in cui si sentivano soprattutto le urla di Pioli, i biancocelesti, approfittando dell’atteggiamento di attesa e di scarsa pressione del Dnipro, hanno preso in mano le redini del match. Pur senza un vero e proprio regista di riferimento, il centrocampo, molto mobile, ha fornito buoni spunti: Onazi era il riferimento più centrale e si proponeva spesso anche partendo in dribbling; Parolo ha dato il suo solito contributo di corsa e quantità, combinando spesso con Kishna lungo la fascia sinistra, con l’olandese che gradiva tagliare verso l’interno del campo per sfruttare le sponde di Matri; Milinkovic-Savic ha invece trovato lo scenario tattico perfetto per sfruttare la sua fisicità e il suo dominio nel gioco aereo, a cui i compagni non esitavano ad affidarsi, specie sotto pressione o in mancanze di idee.
La Lazio ha cercato di verticalizzare appena le si presentava l’occasione, soprattutto con Onazi, oppure di arrivare in area passando da Kishna e Anderson, il cui contributo è stato intermittente, con gli ucraini attenti a non concedere spazio alle loro accelerazioni. Ottimo il pressing della squadra di Pioli, specie nel primo tempo, con quasi sempre tre uomini in avanti a disturbare l’inizio azione degli ucraini, cercando di costringere i ruvidi difensori del Dnipro a giocare o lungo verso Seleznyov, che veniva puntualmente superato da un ottimo Hoedt, o a cercare gli esterni, dove i terzini della Lazio erano sempre pronti a raddoppiare, soprattutto Konko a destra.
Il centrocampo biancoceleste era molto flessibile e Milinkovic-Savic si abbassava sulla linea di Onazi e Parolo in caso di necessità, passando da un struttura 2+1, con il nigeriano e l’ex Parma alle spalle del neo-acquisto, ad una 1+2, con Onazi fiancheggiato dai compagni, utile a difendere contro il 4-2-3-1 speculare del Dnipro. Proprio il serbo strappato alla concorrenza della Fiorentina ha segnato il gol che ha sbloccato la partita: nelle marcature a uomo degli ucraini sui calci piazzati si è ritrovato accoppiato ad Anderson Pico, facendo valere tutti i suoi 193 centimetri contro i 169 del brasiliano.
Sugli sviluppi di un calcio d’angolo, i biancocelesti non riescono a liberare la palla. L’azione è confusa e i difensori della Lazio si fanno attirare dal pallone, lasciando tre uomini liberi sul lato destro dell’area di rigore, tra cui Seleznyov, che segna sul cross di Léo Matos.
L’errore è ancora più evidente qualche secondo prima del gol: ben quattro giocatori rimangono passivi fuori dall’area di rigore, lasciando i compagni in doppia inferiorità numerica (6 vs. 8), tra l’altro già tutti scivolati verso il pallone dimenticandosi le marcature.
Nel secondo tempo, l’inerzia del match si è gradualmente spostata verso i padroni di casa, con un calo di intensità della Lazio e con il Dnipro che invece ha iniziato a pressare la squadra di Pioli, costretta a cercare sempre più in Milinkovic-Savic un’ancora di salvezza, soprattutto quando, uscito Matri per Keita, ha perso il proprio riferimento offensivo, con lo spagnolo che preferiva allargarsi verso la fascia sinistra. Si è sentita la mancanza di un organizzatore di gioco in mezzo al campo, soprattutto con il vantaggio da gestire e negli ultimi minuti della partita la Lazio è indietreggiata, fino alla sciagurata azione del pareggio di Seleznyov a tempo ormai scaduto, che ha privato gli uomini di Pioli di una vittoria meritata fino a quel momento.
Fiorentina vs. Basilea
di Dario Saltari (@DSaltari)
Capire che squadra sia la Fiorentina quest’anno è ancora estremamente difficile, forse anche per il nuovo allenatore Paulo Sousa. L’allenatore portoghese sembra avere idee diametralmente opposte rispetto a quelle di Montella e infatti la rosa è stata puntellata con giocatori adatti a un gioco molto più verticale. Ieri al Franchi arrivava il Basilea, ex squadra proprio di Paulo Sousa e pluricampione di Svizzera, di cui a sua volta non si capivano bene le reali potenzialità, dopo la sorprendente eliminazione nei preliminari di Champions League per opera del Maccabi Tel Aviv.
Descrivere la diposizione tattica della Fiorentina è estremamente complesso, per via della grande fluidità di ruoli che Paulo Sousa chiede ai propri giocatori. In fase di possesso la formazione è sostanzialmente un 3-4-2-1, con Mati e Ilicic dietro Kalinic, e Kuba e Alonso esterni di centrocampo. Quest’architettura, apparentemente molto offensiva, viene stravolta nella fase di non possesso. In caso di perdita del pallone, infatti, Alonso, Kuba e Mati si abbassano sulla linea di difesa a formare una linea difensiva a sei, mentre Ilicic va a fare l’interno di centrocampo. Quello che ne esce è di fatto un 6-3-1.
Il 6-3-1 della Fiorentina in fase di non possesso. Da notare l’incredibile lavoro di Mati in fase di copertura.
È una transizione che richiede un lavoro tattico e fisico imperioso, soprattutto per alcuni giocatori. Mati Fernández, ad esempio, vive il doppio ruolo di terzino/trequartista: andava a contrastare il terzino svizzero Xhaka in fase di non possesso per poi dover fare metri e metri di campo, una volta recuperato il pallone, per posizionarsi accanto a Ilicic.
A complicare ulteriormente le cose c’era la disposizione asimmetrica dei giocatori viola nel reparto arretrato. Se a destra la Fiorentina schierava un quasi terzino e un centrocampista offensivo, come Roncaglia e Kuba, a sinistra, invece, aveva un difensore centrale puro e un terzino classico, come Astori e Alonso. Non è un caso, quindi, che la Fiorentina abbia creato (limitati) pericoli soprattutto da destra, con la posizione avanzata di Roncaglia a dare più fastidio al Basilea. È da suoi piedi che sono nati gli unici pericoli creati dalla Fiorentina alla squadra svizzera, in un primo tempo comunque anemico per entrambe le squadre. Il centrale argentino, infatti, era libero di avanzare fino alla trequarti avversaria per poi servire i tagli di Kalinic alle spalle della difesa svizzera.
L’azione da cui nasce il gol dimostra le incongruenze della Fiorentina: l’attacco viene gestito da giocatori che di fatto fanno parte del pacchetto difensivo (Roncaglia, Mati, Alonso e Kuba) mentre il centrocampo a tre (Ilicic, Borja Valero e Badelj) viene aggirato dall’avanzata del centrale difensivo.
Una mossa che però rivelava anche l’incongruenza strutturale della Fiorentina, con un centrocampo imbottito di ottimi palleggiatori (Borja Valero, Badelj, Mati Fernández) che veniva sistematicamente superato da verticalizzazioni dirette difesa-attacco (anche i lanci di Gonzalo Rodríguez sono stati una soluzione tentata a più riprese). Più in generale, l’architettura tattica disegnata da Sousa rendeva difficile la costruzione corale di un’azione offensiva, costringendo gli esterni di “centrocampo” a risalire il campo in tutta la sua lunghezza per affacciarsi all’area di rigore avversaria. La mossa comunque pagava, al netto del fortunoso rimpallo nel gol, con la sterilizzazione completa dell’attacco del Basilea che, pur arrivando costantemente alle porte dell’area di rigore viola, doveva poi affrontare una linea difensiva a sei schierata (nel primo tempo la squadra svizzera è riuscita a tirare solo una volta verso lo specchio della porta).
Le cose sono cambiate in maniera radicale nel secondo tempo, complici anche i fastidi fisici di Ilicic. Paulo Sousa ha deciso di passare a un più canonico 4-3-1-2, con Mati a fare il trequartista classico dietro a Kalinic e Babacar. Canonico solo sulla carta, in realtà, perché in fase di non possesso il tecnico portoghese chiedeva alle due punte di allargarsi molto per prendere i terzini, tentando un pressing alto poco ordinato sui centrali avversari con il trequartista cileno e Borja Valero. La mossa non ha fluidificato particolarmente il gioco della Fiorentina, con l’unica occasione da gol del secondo tempo (il palo di Kuba) venutasi a creare per un contropiede da calcio d’angolo avversario.
La contemporanea espulsione di Gonzalo Rodríguez e l’infortunio di Astori hanno fatto girare la partita definitivamente a favore del Basilea, con la Fiorentina che da quel momento in poi si è schierata con un classico 4-4-1 totalmente votato alla difesa di Sepe (in realtà a volte anche Kalinic ripiegava sull’esterno a formare un 4-5-0). Decisiva anche la prestazione di Embolo, giovanissimo svizzero di origine camerunese. La sua potenza fisica, unita a ottimi mezzi tecnici, ha fatto letteralmente impazzire il subentrato Pasqual, che lo ha subìto per tutto il secondo tempo (sul gol dell’1-1 è il suo taglio a entrare che libera lo spazio per il tiro di Bjarnason).
Se è vero che il risultato finale è stato determinato da episodi sostanzialmente fortunosi (la carambola di Kalinic o il gol incredibile di El Neny), è anche vero che la Fiorentina non ha mai dato l’impressione di controllare davvero la partita. Sulla prestazione viola ha inciso l’approccio di Sousa, che ha sorprendentemente deciso di difendersi in maniera estrema contro un Basilea ordinato, ma non certo irresistibile.
Napoli vs. Club Brugge
di Francesco Lisanti (@effelisanti)
Vale la pena ricordare che una vittoria facile è tale solo dopo aver vinto, e che una vittoria facile conta di più dopo un inizio di campionato difficile. Il Brugge ha iniziato la stagione un mese prima del Napoli, e teoricamente è l’avversario più ostico del girone. Quindi non c’erano i presupposti perché il Napoli dilagasse, quelli li ha creati la squadra di Sarri. Dal 4-3-3 si deve partire, ma sarebbe riduttivo fermarcisi. Il cambio di modulo è stato talmente atteso ed enfatizzato da sembrare a posteriori l’ovvia soluzione ai problemi dei partenopei. In realtà la vittoria è figlia di tante piccole cose.
La sintesi in una riga della stagione del Napoli a oggi poteva essere “benissimo in attacco, malissimo in difesa”, ma se la difesa ha ben figurato, con Albiol impeccabile (ma contro un Leandro Pereira impresentabile) e Koulibaly dominatore, il Napoli ha vinto a centrocampo, perfettamente equilibrato e ben organizzato nei compiti individuali.
Sarri ha schierato Jorginho davanti alla difesa, Hamsik interno sinistro, riscopertosi incursore con successo, e David López interno destro, ad agire nella zona del più talentuoso dei belgi, Victor Vázquez. Duello stravinto dallo spagnolo del Napoli, che ha assorbito le energie del 7 del Brugge senza perdere mai la concentrazione né il controllo degli spazi.
Jorginho è stato—sorprendentemente—uno di quei presupposti per il 5-0. Sarri non gli ha chiesto di dare geometrie, ma velocità al gioco. Nei primi 30 minuti, cioè finché il Brugge è stato in partita e ha provato a starci con la sua consueta aggressività nella zona della palla, Jorginho ha distribuito solo passaggi verso l’uomo più vicino, ma tutti di prima intenzione, tutti precisi e con i tempi giusti. Così il Napoli è riuscito a sostenere i ritmi alti dei belgi, imponendosi su ritmi ancora più alti e smorzandone l’entusiasmo.
L’ha sottolineato anche Preud’homme a fine partita: «Avevamo preparato degli schemi difensivi che non siamo riusciti ad applicare, ogni verticalizzazione è stata così pericolosa, ogni palla così ben giocata». Le verticalizzazioni sono state il tema tattico della partita. Il Brugge è una squadra generosa, ma con scarsa capacità di gestione—non appena è calata l’intensità, il centrocampo è stato incapace di accorciare e la difesa di salire coi tempi giusti. Il Napoli ha iniziato a cercare gli inserimenti di Callejón e Mertens, e ogni lancio era un’azione da gol.
Qualche istante prima del cross di Callejón piovuto in porta. Siamo sicuri che Sarri abbia abbandonato il rombo?
Questo è stato possibile anche grazie alla scientifica, lucidissima, preziosissima capacità di Higuaín di svuotare l’area e contemporaneamente attirare l’attenzione dei difensori. Succede ad esempio nel secondo gol: i due centrali guardano solo lui, che minaccia in continuazione di tagliare verso la porta, ma non lo fa mai. Alla fine lo fa Mertens che passa alle spalle e appoggia con semplicità. Il Pipita non ha segnato, ma è stato decisivo almeno quanto gli altri, e se non soffrirà in questo ruolo di assist-man senza neanche toccare il pallone diventerà difficile da difendere.
I veri vantaggi del 4-3-3 sono arrivati appunto in questa applicazione. Se Higuaín conduce la difesa avversaria in un tour guidato della trequarti, avere due ali consente una doppia minaccia, e su entrambi i lati del campo. Il Brugge non è riuscito fisicamente a coprire in ampiezza: ha dovuto fare delle scelte, e con grande qualità il Napoli ha prima indotto e poi sfruttato queste forzature.
Qualche segnale negativo c’è comunque stato, uno su tutti la catena sinistra formata da Ghoulam, Hamsik e Mertens. Quest’ultimo raramente segue l’uomo (diciamo mai), Hamsik non ha l’aggressività per raddoppiare sull’esterno e Ghoulam si fa trovare spesso fuori posizione. Sarri ha dovuto mettere una pezza con David López in quella zona nei (pochi) minuti in cui il Brugge sembrava creare pericoli con una certa convinzione.
Qui, invece, un minuto dopo il gol. Ghoulam è addirittura fuori inquadratura, Hysaj non copre bene lo spazio alle sue spalle, ma Bolingoli-Mbombo mancherà il gol del pareggio.
Quindi no, il 4-3-3 non è la panacea di tutti i mali, e il Brugge è sicuramente in un momento molto negativo, ma potenziale per creare pericoli (e passare il turno) ne ha. Sarri dovrà gestire con cura il metabolismo dell’entusiasmo per il 5-0: non sottovalutare l’avversario per apprezzare a pieno le cose fatte bene e provare a riproporle, e non pensare, una volta riproposte le due ali, che il lavoro sia finito. La partita si è messa subito in discesa dopo il primo gol, per normalizzare le emozioni basterà pensare che a volte un cross sbagliato vale quanto un cambio di modulo.