Questa è la seconda parte di un'inchiesta che cerca di capire quanto le disponibilità economiche incidano sull'ascesa dei piloti in Formula 1. Nel caso in cui ve la foste persa, qui trovate la prima parte.
Nella prima parte della nostra inchiesta avevamo provato a delineare un quadro su quanto la disponibilità di budget incida sul percorso di un giovane pilota - cioè moltissimo - partendo dal kart e passando poi per le categorie propedeutiche in monoposto, verso la Formula 1.
Nonostante qualche possibile strumento in possesso di chi è meno fortunato dal punto di vista economico, come la possibilità di entrare in una "Junior Academy", il meccanismo attuale del motorsport prevede costi sempre più alti per i piloti in tutte le categorie, che di fatto porta a una selezione dei giovani talenti in base alla loro disponibilità economica. Nell'ultimo decennio queste dinamiche sono pesate sempre di più sui piloti italiani e più in generale nel panorama del nostro motorsport, incapace di portare un pilota titolare in Formula 1 dal 2012 al 2018, prima dell'annuncio di Antonio Giovinazzi.
La crisi economica del motorsport in Italia
Nel 2012 Davide Valsecchi (oggi opinionista di successo su Sky Sport F1 sia in Italia che in Inghilterra) si aggiudicava il campionato GP2, l'equivalente della Formula 2 attuale. Ad eccezione del suo successore Fabio Leimer, tutti i piloti trionfatori in quella serie hanno corso in Formula 1: Rosberg, Hamilton, Glock, Pantano, Hülkenberg, Maldonado, Grosjean, Palmer, Vandoorne, Gasly, Leclerc, Russell.
Più o meno lo stesso destino di Valsecchi l'hanno avuto altri due piloti italiani che, invece, hanno vinto il campionato europeo di Formula 3: Edoardo Mortara (oggi professionista in Formula E) e Raffaele Marciello, attualmente nel campionato Blancpain GT. Nessuno dei due ha avuto la possibilità di correre in Formula 1, come invece quasi tutti gli altri trionfatori di quella categoria negli ultimi 14 anni: Hamilton, Paul di Resta, Grosjean, Hülkenberg, Bianchi, Merhi, Ocon, Stroll, Norris.
Un giro di pista a Fiorano nel 2013 con Raffaele Marciello a bordo della Ferrari F10, quando il pilota italiano militava ancora nella Ferrari Driver Academy. Filiera che gli ha permesso guidare in Formula 1 al massimo nelle prove libere 1, in quattro occasioni nel 2015, con la Sauber.
Giancarlo Minardi, che per tantissimi anni (fino all'avvento del nuovo millennio) ha permesso a molti piloti italiani di debuttare in Formula 1 nell'omonimo team da lui fondato, spiega che «purtroppo i piloti italiani ora pagano la situazione dell'economia italiana in generale. Se andiamo a vedere la proprietà delle nostre aziende, il 90% è di proprietà di capitali stranieri. Negli anni Ottanta-Novanta c'erano grandissime aziende di proprietà italiana e oggi o sono sparite, o hanno cambiato proprietà. Di conseguenza c'era molta più facilità nell'appoggiare un pilota italiano».
«Purtroppo l'Italia soffre particolarmente», prosegue Minardi, «perché è molto più facile che una proprietà americana, tedesca, inglese o cinese alla fine favorisca piloti che gravitano in altre orbite commerciali, diverse da quella italiana».
La situazione, nonostante la presenza dei piloti italiani nelle categorie propedeutiche sia sufficientemente nutrita, si riflette in modo marcato soprattutto in queste serie minori: «Non è facile che un marchio italiano faccia da sponsor nello sport, a maggior ragione nell'automobilismo dove in Italia, a livello mediatico, praticamente esiste solo la Formula 1», dice Jarno Trulli, ex pilota di ottimo livello nella massima categoria.
Conferma Maurizio Salvadori, capo del team italiano Trident attivo in Formula 2 e nella nuova Formula 3 internazionale, che «oggi, nonostante le nostre gare vengano trasmesse su Sky anche in Italia, per noi team è particolarmente difficile riuscire a reperire risorse tramite sponsor nostri. Soprattutto negli ultimi anni gli sponsor si sono un po' rarefatti, come del resto anche in Formula 1».
Un caso emblematico è quello di Leonardo Pulcini, uno dei nostri talenti più scintillanti. Pulcini, nonostante la sua superlativa stagione in GP3 conclusa al quarto posto in classifica davanti a una ART e a tutte le Trident - vetture più performanti della sua Campos -, voleva fare il giusto e meritato salto in Formula 2, ma si è dovuto purtroppo scontrare con la realtà dei fatti: «Per me che sono italiano è molto difficile, temo di non riuscire a fare la Formula 2 l'anno prossimo, perché da solo non riesco a coprire il budget di 2 milioni a stagione che viene richiesto», disse al tempo dell’intervista.
Nel frattempo, Pulcini si è così accasato nel team Hitech nella prossima Formula 3 internazionale - dove il budget richiesto è la metà rispetto a quello della Formula 2 - oltretutto in un team che sulla carta parte sfavorito contro altre superpotenze come ad esempio ART, Prema e Carlin. «Per tutta la carriera sono andato avanti con le risorse di mio padre e di qualche piccolo sponsor che ci aiuta, ma il salto alla Formula 2 è veramente enorme, richiede uno sforzo economico gigante e da soli non ce la facciamo», dice.
Prosegue, poi, ampliando lo sguardo: «Al momento le aziende italiane non mi aiutano proprio e non ho neanche un manager. Da quanto vedo per i ragazzi non italiani questo discorso è più semplice».
Il problema del budget affligge anche la nostra federazione, l'ACI Sport, che non riesce a fornire ai piloti italiani più meritevoli il sostegno necessario per competere economicamente con molte superpotenze estere: «Le federazioni straniere hanno un ruolo molto attivo nell'aiutare i giovani», sostiene Jarno Trulli. «In Francia ad esempio hanno la Filiere, la federazione che riesce ad attirare sponsor collegati al motorsport attorno a sé, come soprattutto Renault ed Elf: crea un gruppo di piloti e li sostiene economicamente in modo da permettere loro di correre».
Secondo Pulcini: «È molto difficile per la nostra federazione riuscire ad attrarre sponsor attorno a sé per sostenerci. Ora si è concentrata per aiutare Giovinazzi a entrare in Formula 1 e stanno avendo nuovamente problemi con la presenza di Monza in Formula 1». Magari le due cose sono anche collegate fra di loro, nel senso che l'ACI potrebbe aver spinto per avere un nuovo pilota italiano in Formula 1 in modo da attrarre qualche indotto per salvare Monza dal calendario.
Sempre in riferimento alla mancanza di sponsor italiani, sono andati in crisi anche i nostri manager. Raffaele Marciello, parlando di Daniele Morelli - suo manager ai tempi di Formula 3 e GP2, nonché ex di un big come Kubica in precedenza, prima della crisi economica globale - racconta che «purtroppo non è mai riuscito a procurarmi sponsor e quindi soldi». Con il risultato che il pilota italiano non ha mai potuto correre in GP2 nei team allora vincenti, cioè ART e Prema.
Anche un altro manager italiano, Enrico Zanarini, forse uno dei più influenti in assoluto in ambito mondiale insieme a Nicolas Todt, ha patito la stessa crisi: «Gli sponsor italiani non ci sono più e tutti noi che cerchiamo denaro, per supportare la carriera dei piloti tricolore, abbiamo riscontrato gravi difficoltà», dice. «Io ho dovuto cercare altrove, trovando i fondi per supportare Fuoco e Giovinazzi in Russia ed Indonesia, rispettivamente».
Zanarini rappresenta un’eccezione nell'ambito del motorsport italiano: dopo aver gestito le carriere in Formula 1 di piloti come Irvine, Fisichella e Liuzzi, nel 2012 ha spostato la sua attività verso Oriente, fondando la sua nuova agenzia "Media & Sport Management", accreditata come "agenzia ufficiale di sponsorizzazione" della Scuderia Ferrari. Così come avviene per Nicolas Todt con lo sponsor Richard Mille, Zanarini ha stretto un legame a doppio filo con il marchio russo Kaspersky: «Ho iniziato un rapporto di agenzia con Kaspersky Lab nel 2010, ho gestito per loro e continuo a gestire non solo i rapporti con la Ferrari ma anche tutte le attivazioni della loro sponsorizzazione», spiega. «Con Kaspersky vincemmo contro la concorrenza e li convincemmo a investire su Ferrari. Hanno rinnovato fino al 2021 e quindi vuol dire che abbiamo fatto tutti contenti, team e sponsor».
È proprio lo sponsor Kaspersky ad essere il più visibile nella tuta e nella vettura di un suo assistito, Antonio Fuoco, e che gli ha consentito fino a poco fa di essere una delle punte di diamante della Ferrari Driver Academy insieme ad Antonio Giovinazzi, grazie non solo alle loro capacità di guida ma anche al collegamento con il marchio russo, uno dei più visibili sulla Rossa.
Proprio Giovinazzi e Fuoco, negli ultimi anni, sono stati gli unici piloti italiani in GP2 o in Formula 2 ad avere l'occasione di salire in un team vincente: in Prema, nel 2016 e 2017 rispettivamente. La loro eccezione nel panorama italiano riflette in modo direttamente proporzionale quella del loro manager, e non è altro che un'ulteriore conferma che i percorsi dei giovani piloti dipendano non solo dalle capacità di guida ma anche da disponibilità di budget e opportunità di stringere sodalizi contrattuali proficui per il prosieguo della carriera.
A bordo con Luca Ghiotto all’inseguimento di Antonio Fuoco, nel Gran Premio di Austria del 2017 di Formula 2. I due italiani sono tra i migliori prodotti del nostro vivaio: il primo ha sfiorato il titolo in GP3 nel 2015, perdendolo all’ultima gara contro Esteban Ocon (dotato di un mezzo meccanico migliore, l’ART); il secondo ha avuto più fortuna nei sodalizi commerciali. Probabilmente nessuno dei due, tuttavia, avrà mai la chance di correre in Formula 1.
La Formula 1
«La Formula 1 è uno sport molto internazionale, è il secondo più visto al mondo dopo i Mondiali di calcio, che si disputano ogni 4 anni. Quindi è uno sport dalla grande copertura mediatica, con interessi molto forti a livello mondiale. Il nostro mercato a livello economico non conta molto, per cui il fatto ipotetico di prendere un pilota italiano non viene considerato un valore aggiunto a meno che non sia un fenomeno».
Sono le parole di Jarno Trulli, che continua: «Se si dovesse scegliere tra due piloti dello stesso livello, ma uno italiano e uno tedesco, di sicuro quello tedesco viene preso molto più in considerazione. Non dimentichiamoci poi che noi italiani siamo sempre poco nazionalisti: in un team inglese, francese o tedesco c'è sempre un posto per un pilota della loro nazione, storicamente è sempre stato così a differenza di quello che succede in Italia».
Il riferimento di Trulli è senz'altro rivolto alla Ferrari. Negli anni Novanta i team italiani Minardi, Forti, Lola, Life, Fondmetal, Dallara, perfino la sciagurata Andrea Moda, hanno tutti riservato in Formula 1 almeno un sedile a un pilota italiano. In questo senso non appare casuale che l'italianizzazione di un team - vale a dire la Sauber, prima sponsorizzata fortemente e poi soppiantata nel nome da Alfa Romeo - sia coincisa con il ritorno di un pilota tricolore come titolare in Formula 1, Giovinazzi appunto.
«L'Alfa Romeo ha il potere di imporre almeno uno dei due piloti», scriveva Alberto Sabbatini su Autosprint a dicembre 2017, riferendosi alle clausole pretese dal marchio del "biscione" per poter diventare title sponsor della Sauber, assicurandone così la copertura finanziaria e la sopravvivenza in Formula 1, in un quadro dove avere supporti economici dagli sponsor sta diventando sempre più problematico per i team di bassa fascia.
Nel 2016 Alberto Saiu scriveva nel suo libro F1 Confidential che «solo nella stagione 2014 la Formula 1 ha perso, a livello globale, circa 25 milioni di appassionati». Questo ovviamente ha influito in modo negativo sulle sponsorizzazioni da parte delle aziende, che sono ora scoraggiate a pagare milioni di dollari o di euro in nome di un ritorno pubblicitario sempre meno consistente.
Sempre secondo Saiu, le sponsorizzazioni dovrebbero rappresentare la cifra più elevata tra le entrate di un team medio di Formula 1, circa il 39%, mentre i premi coprirebbero il 36% e le quote degli azionisti solo il 25%, per cui diventa sempre molto importante reperire soldi tramite sponsor per supportare i costi sempre più crescenti.
«Il budget di oggi è molto più elevato rispetto a quello che il mio team aveva nel 2005», spiega Giancarlo Minardi. «C'è stata un'evoluzione dei premi in denaro, ad esempio ora c'è una quota fissa per tutti i partecipanti e un'altra variabile a seconda del risultato nella Classifica costruttori», prosegue. «L'aumento dei premi, tuttavia, in proporzione è stato seguito da un parallelo aumento dei costi. Purtroppo i team negli anni non sono stati capaci di diminuire le spese. Ne parlavamo già allora nella Formula One Commission, però in realtà non si è fatto niente per ridurre i costi, salvo un periodo quando sono stati contingentati sia il numero di motori aspirati da poter utilizzare che i chilometri da poter effettuare nei test».
Riferendosi al periodo attuale della Formula 1, Minardi conclude che «quando si è entrati nell'ibrido la faccenda è scappata un po' di mano, i costi sono tornati a salire di molto».
Come conseguenza all’ulteriore aumento dei costi dopo l’arrivo dell’ibrido nel 2014, secondo Alberto Saiu il budget necessario per coprire una stagione per un team medio di Formula 1 si attesta ora sui 240 milioni di dollari. Di conseguenza, seguendo le percentuali sui diversi tipi di entrate di un team, le sponsorizzazioni dovrebbero assicurare circa 95 milioni di dollari all’anno per permettere la sopravvivenza di un team medio.
La lotta per la sopravvivenza si svolge anche in pista. Nel 2016 la Sauber e la Manor si sono giocate il penultimo posto nella Classifica Costruttori al penultimo Gran Premio, sotto il diluvio in Brasile. Questa splendida partenza di Felipe Nasr, sulla Sauber, gli ha permesso di terminare la gara al nono posto battendo Ocon sulla Manor, dopo un lungo inseguimento negli ultimi giri. La Sauber ha così sopravanzato la Manor nel Mondiale costruttori, decretandone il fallimento a inizio 2017.
Per i team privati di bassa fascia, a differenza di quelli ufficiali, la situazione è ancora più difficile non solo perché - ottenendo risultati inferiori - premi e sponsor assicurano ricavi minori rispetto ai team più forti, ma anche perché i team ufficiali hanno dei guadagni collaterali dall’attività in Formula 1 che non li costringono a chiudere in attivo o in pareggio i bilanci della parte sportiva, a differenza dei team privati.
Ferrari, Mercedes e Renault sono veri e propri costruttori e la stessa Red Bull rappresenta il caso anomalo di team che dalla Formula 1 non guadagna in termini promozionali sul prestigio del proprio marchio automobilistico o sulla vendita dei propri modelli di serie, ma piuttosto lo fa in ritorno pubblicitario sulle sue famose lattine.
Non riuscendo a ottenere abbastanza soldi dagli sponsor propri, i team privati sono costretti quindi a chiederne ai piloti tramite le sponsorizzazioni dei piloti stessi. Il meccanismo è più o meno quello che avviene nei team delle categorie minori, come abbiamo osservato nella prima parte della nostra inchiesta: spesso i piloti che arrivano in Formula 1 in team come Alfa-Sauber, Williams, Force India (ora Racing Point), o negli ultimi anni ad esempio in Marussia/Manor o in Caterham, non sono necessariamente compresi tra i 20-30 piloti più talentuosi del panorama mondiale, ma (pur dotati di superlicenza) sono invece quelli con i budget più pesanti in mano.
Sempre più spesso, in Formula 1, questi budget vengono da aziende statali - come accaduto in piloti provenienti da Messico, Venezuela, Indonesia e Brasile - o private e, per via delle cifre spaventosamente più alte da coprire rispetto alle categorie propedeutiche, molto meno di frequente accade invece che a pagare per far correre un pilota in Formula 1 sia la famiglia del pilota stesso.
Nella Formula 1 di oggi, a causa dei costi e della complessità dei motori ibridi rispetto ai vecchi aspirati, sono diminuiti i costruttori e sono quindi aumentati i team privati che sono costretti a chiedere i soldi ai piloti: «Ai miei tempi, circa dieci anni fa, c’erano tantissimi costruttori, o comunque team ufficiali, tutti insieme: Ferrari, Red Bull, Renault, BMW, Toyota, Honda, la stessa McLaren spinta da Mercedes», spiega Jarno Trulli. «Anche in precedenza, quando ho corso nel team Prost negli anni 1998 e 1999, c’era la Peugeot dietro che finanziava. Oggi, a parte qualche costruttore, sono quasi tutti privati che affittano motori e fanno tanta fatica a far quadrare i conti a fine anno».
«L’obiettivo dei team privati non è tanto vincere, ma guadagnare per arrivare sani economicamente alla fine dell'anno», prosegue Trulli. «Un costruttore sceglie il miglior pilota, oltre al miglior ingegnere e al miglior meccanico, perché l'obiettivo non è sopravvivere, ma vincere». E conclude: «Il livello di qualche anno fa, di conseguenza, era più alto, oggi molto spesso il livello è più basso perché nei team privati non arriva più il pilota fenomenale, ma quello che ti fa quadrare i conti a fine anno».
È sempre più marcato, quindi, lo scollamento tra i costi sempre più alti e le sponsorizzazioni sempre più difficili da reperire. «In Formula 1 non è mai stato così difficile trovare sponsor come ora», ha detto recentemente Zak Brown, CEO della McLaren. «Le aziende sono restie all’idea di fare investimenti a lungo termine perché non sono abbastanza sicure di quello che potrebbe succedere in futuro, vista la follia che c’è in questo momento nel mondo».
E, come detto, questa crescente divergenza tra costi ed entrate porta soprattutto i team privati a ragionare sulla selezione dei piloti in funzione delle loro sponsorizzazioni, meno in relazione alle loro capacità di guida. Il caso più eclatante avvenuto di recente ha riguardato la scelta del pilota Williams per il 2018: in lizza per il secondo sedile c’erano Robert Kubica, uno dei talenti più scintillanti degli anni Duemila al rientro dopo sette anni di inattività, e il russo Sergey Sirotkin, che ha vinto la concorrenza del polacco grazie al supporto finanziario della banca privata russa SMP, un colosso che ha creato una sorta di Academy in grado di finanziare più di 30 giovani piloti russi fin dal kart.
Secondo Massimo Costa di Autosprint, SMP ha offerto alla Williams un budget di 12 milioni di euro a stagione per permettere a Sirotkin di debuttare in Formula 1, più del doppio di quanto raccolto da Kubica per supportare la propria candidatura. Ma è stato il polacco, poi, ad essere annunciato come pilota titolare per il 2019: sempre secondo Autosprint, il budget da oltre 10 milioni a stagione messo insieme da Kubica verrebbe dal gruppo polacco PKN Orlen, attivo nel settore energetico e petrolifero.
In lizza con Kubika e Sirotkin era finito anche il valido pilota russo Artem Markelov, attivo in Formula 2, il cui padre gestiva il team Russian Time nella categoria cadetta - ovviamente quello dove correva il figlio - ma che è finito in carcere con l’accusa di corruzione. L’arresto di suo padre ha sostanzialmente compromesso la carriera di Markelov verso la Formula 1 ed è un’ennesima conferma sull’incidenza della disponibilità economica nel percorso delle carriere dei piloti nel motorsport.
In macchina con Markelov mentre tenta giri veloci da qualifica nell’ultimo Gran Premio di Montecarlo in Formula 2. Tra i piloti cosiddetti “paganti”, Markelov è senza dubbio uno dei più talentuosi, soprattutto nella gestione delle gomme in gara.
Anche negli anni Novanta, con molti più team coinvolti nel giro della Formula 1 e budget inferiori, questi episodi erano nella norma.
L'ingegnere Giorgio Stirano, uno degli uomini di punta del team italiano Forti, racconta ad Autosprint come la squadra fosse riuscita a mettere sotto contratto per una stagione uno dei piloti con la valigia più pesante in quegli anni, diventato nel tempo una sorta di stereotipo del pilota pagante, il brasiliano Pedro Paulo Diniz. «La famiglia Diniz possedeva un'immensa catena di supermercati», spiega Stirano. «Riuscì a coinvolgere la Parmalat riportandola in Formula 1 grazie a un'operazione intelligente, concedendo agevolazioni commerciali in cambio della sponsorizzazione al nostro team».
Forse la parabola di Diniz nel team Forti è una delle più emblematiche nella storia della Formula 1, che meglio racconta quanto incida il budget portato da un pilota nell'economia della crescita e della sopravvivenza di un team: «La vettura della prima stagione, nel 1995, era troppo sovrappeso perché abbiamo dovuto irrobustirla per i crash test», spiega Stirano, «ma in Francia portammo una vettura evoluta in attesa di quella della stagione 1996, che avrebbe segnato il punto di svolta. Purtroppo a fine stagione Ecclestone andò dai Diniz e li consigliò di spostare l'impegno verso la Ligier».
«In un attimo le fondamenta della Forti furono demolite», conclude Stirano malinconicamente, «e a fine 1996 il team fu costretto a ritirarsi, nonostante la vettura fosse molto migliore di quella dell'anno precedente».
Giro da qualifica di Diniz sulla Forti a Monza nel 1995. Da notare quanto la vettura si muovesse sulla violenta staccata della Variante della Roggia. Diniz concluderà la qualifica a 1.2 secondi dal compagno di squadra e connazionale Roberto Moreno.
Un altro team italiano, la Life, decise di tentare l'avventura ancora prima - nel 1990 - chiudendo dopo una stagione sempre per mancanza di fondi, in parte per colpa di un pilota: «Mi fu consigliato Gary Brabham, figlio del leggendario Jack», racconta sempre ad Autosprint il capo Ernesto Vita. «Mi dissero che Brabham avrebbe portato sponsor per 2 miliardi di lire. Dopo due Gran Premi, tuttavia, fui costretto ad allontanarlo perché di questi fantomatici 2 miliardi non vedemmo neanche una lira».
La stessa cosa è avvenuta 28 anni più tardi - pochi mesi fa - in Formula 2, sulla Trident, la quale ha licenziato il pilota statunitense Santino Ferrucci con un comunicato ufficiale in cui si denunciava a chiare lettere la sua inadempienza, prima di avviare un procedimento presso il Tribunale di Milano.
«Se usiamo l'espressione piloti paganti, però, possiamo dire che sono tutti dei paganti, anche i migliori», precisa Giancarlo Minardi. «Un pilota è sempre stato scelto perché attorno a lui si crea un giro di sponsorizzazioni che permettono a un team di coprire i costi. È sempre successo che i team facessero una valutazione anche economica del pilota che erano intenzionati a prendere».
Minardi, oltretutto, a proposito del giro di sponsorizzazioni alle spalle di un pilota introduce anche un altro tema importante, quello dello stipendio dei piloti: «Lo stipendio del pilota, al di là delle sue capacità tecniche, è proporzionato alle entrate che permette al team di avere grazie a operazioni commerciali». Minardi precisa poi ulteriormente che «bene o male qualcosa a livello di stipendio viene percepita da tutti i piloti della Formula 1, in base alla loro capacità commerciale, a quanto fanno guadagnare il team, sia come giro di sponsor che ovviamente anche a livello di risultati e di premi a fine anno».
Quello che i piloti dei team più deboli riescono a guadagnare in una stagione, tuttavia, molto spesso non basta a ripagare quei 6-7 milioni - almeno - spesi lungo le categorie propedeutiche per arrivare in Formula 1, di cui ci siamo occupati nella prima parte della nostra inchiesta.
Men che meno riesce a coprire gli oltre 80 milioni spesi da Lawrence Stroll per indirizzare il percorso fino all’arrivo in Formula 1 di suo figlio Lance, che a questo punto dovrà necessariamente vincere almeno un paio di Campionati del Mondo per poter dire di aver guadagnato qualcosa, a livello economico, dalla sua carriera di pilota.
I piloti di Formula 1 che davvero guadagnano molti soldi nella loro carriera sportiva sono quelli che finiscono nei team ufficiali, che a loro volta sono solidi economicamente e premiano il proprio pilota soprattutto in base al talento e ai risultati, scegliendo i migliori. «Penso che i piloti migliori siamo noi che proveniamo da famiglie normali», aggiunge Vitantonio Liuzzi, che ha corso in sei stagioni in Formula 1 senza avere mai l’opportunità di un top team. «Tutti i piloti più forti degli ultimi anni, cioè Schumacher, Alonso, Hamilton, Vettel e Raikkonen, vengono da un background familiare non ricco. Noi abbiamo tutti quella fame e quella volontà di sfondare, soprattutto grazie al talento, che ci fa diventare migliori».
La storia forse più famosa in questo senso è quella di Lewis Hamilton, che lui stesso raccontò a Rolling Stone qualche anno fa: «Mio padre era impiegato in una ditta di distributori automatici di bevande e appena finiva un turno correva a fare un altro lavoro. A un certo punto ha dovuto fare quattro lavori contemporaneamente per permettermi di correre. Ogni volta che mi siedo al volante sono cosciente di quello che ha fatto per me».
«Fin da bambino ho dovuto lottare contro avversari più ricchi e questo mi ha sempre stimolato», ha aggiunto Hamilton qualche tempo dopo. «Non sarei qui oggi senza la mia famiglia e senza questa invidia che mi ha motivato».
«Un'eccezione è quella di Nico Rosberg», precisa Liuzzi, «che viene da un background molto benestante ma che è sempre andato forte nelle categorie minori e poi anche in Formula 1». Forse a forgiare la mentalità del Campione del Mondo 2016 ci ha pensato l'esempio dato dalla storia di suo padre, molto più travagliata della sua: «Passavo gran parte della mia vita in aereo, alla ricerca dell'occasione buona e del momento che ti cambia la vita», racconta Keke Rosberg (Autosprint, speciale Montecarlo), a sua volta Campione del Mondo di Formula 1 nel 1982. «Per lunghi anni però ho solo volato e volato, senza che succedesse niente del genere». La sua perseveranza, però, lo ha portato al successo.
Le vie di uscita dalla Formula 1
Le difficoltà per arrivare in Formula 1, quindi, non si limitano solamente al progressivo aumento del budget richiesto ai piloti negli ultimi anni. Più banalmente, sono diminuiti anche i posti di lavoro, fin dalle categorie propedeutiche (anche per via dell'eliminazione di alcune di esse). «L'anno prossimo tra Formula 3 International e Formula 2 ci saranno 50 piloti, e poi i posti in Formula 1 sono diminuiti fino a 20 con un turnover piuttosto lento, quindi è evidente come l'imbuto si stringe vertiginosamente», sottolinea Giancarlo Minardi.
È necessario, quindi, che quasi tutti i piloti che tentano la scalata alla Formula 1 si preparino una strada di riserva. Uno dei piloti più meritevoli che non è riuscito a entrare in Formula 1 come titolare è stato l'italiano Raffaele Marciello, che però non ha grandi rimpianti: «È sbagliato focalizzarsi sul voler diventare per forza il nuovo Alonso, come fanno moltissimi giovani piloti di adesso. In Formula 1 chi guadagna davvero sono 6-8 piloti. Io quest’anno (dal 2018, nda) riesco a dire che il motorsport è il mio lavoro anche se non sono in Formula 1, e non tanti piloti possono dirlo».
«Tanti guardano alla Formula 1 solo per la fama», prosegue Marciello, «ma ovviamente non è tutto, bisogna guadagnare per vivere e guidare dovrebbe realmente diventare il proprio lavoro».
Oltre al circuito nordamericano della Formula Indy, a quello giapponese della Super Formula, e a quello tedesco del DTM vi sono in effetti molti costruttori ufficiali nei campionati Endurance - quindi Prototipi o Gran Turismo - oppure nella nuovissima Formula E (tutta elettrica), pronti a pagare i piloti per correre, riciclandoli in molti casi dalla Formula 1 o comunque dalle categorie propedeutiche giovanili.
In questo senso, Minardi non è totalmente d'accordo con Marciello: «Oggi, per fortuna, molto spesso un pilota non ha in testa solo di arrivare in Formula 1, ma più in generale di diventare un professionista, e questo è un ragionamento sano».
Parlando del suo attuale impegno con l'ACI e con la scuola federale, Minardi racconta: «Recentemente con l'ACI abbiamo dato la possibilità a due ragazzi della Formula 4 italiana di provare Ferrari e Lamborghini GT, e abbiamo visto che si sono adattati immediatamente e sono stati performanti. Per cui i piloti si sono accorti che possono portare la loro esperienza giovanile anche in categorie diverse dalla Formula 1, dove possono diventare professionisti».
Straordinaria lotta alla 6 ore di Spa del 2017 nel WEC tra Ferrari e Ford, soprattutto nel mitico passaggio Eau Rouge-Raidillon. Nella categoria GTE-Pro, le due Ferrari erano guidate da tre piloti arrivati in monoposto fino alla GP2, la vecchia Formula 2 - cioè Rigon, Bird e Calado - così come uno negli equipaggi Ford - Olivier Pla.
Le altre categorie professionistiche, tuttavia, si stanno anch'esse pian piano allineando alle dinamiche economiche che muovono le scelte dei piloti fino alla Formula 1. «Essendo solo 20 i posti in Formula 1, ed essendo circa 15 quelli per i paganti, sono saturi anche i posti per chi ha dei budget importanti, che quindi si butta su altre categorie», sottolinea Vitantonio Liuzzi.
«Per questo anche il WEC, il Mondiale Endurance, si sta riempiendo di piloti paganti, così come tutto il mondo del motorsport», prosegue, riferendosi non tanto alle categorie LMP1 e GTE-Pro (cioè quelle più importanti di Prototipi e Gran Turismo rispettivamente), dove sono stati coinvolti tantissimi costruttori ufficiali, ma soprattutto ai team privati della LMP2. «La stessa Formula E era partita con l'idea di avere piloti di livello e non paganti», prosegue Liuzzi, «però poi anche loro si sono dovuti arrendere alla realtà del motorsport attuale».
Il riferimento più chiaro stavolta è all'esperienza vissuta da lui stesso come pilota nella Formula elettrica nel team Trulli, nelle stagioni 2014-15 e 2015-16. È proprio Trulli a raccontare, attraverso la sua esperienza fallimentare, come certi meccanismi siano diventati inevitabili anche per questa nuova categoria: «La Formula E era partita con l'idea di un budget relativamente ridotto e questo avrebbe permesso a molti piloti validissimi di parteciparvi, senza bisogno di portare soldi. Inizialmente il budget era di 2 milioni e mezzo e io sono partito preparando quella cifra per acquistare il materiale. Un mese prima di partire per la prima gara della seconda stagione mi hanno detto che 2 milioni e mezzo non bastavano più e ne servivano 3 e mezzo o 4». Con il suo team, Trulli aveva inizialmente dato opportunità a piloti italiani come se stesso, Liuzzi e Michela Cerruti di partecipare a una categoria prestigiosa, senza bisogno di portare sponsorizzazioni.
Jarno Trulli introduce i segreti del circuito di Montecarlo in Formula E, diverso da quello della Formula 1. Si salta la salita dopo la Saint Dévote e si scende direttamente verso la chicane in uscita dal tunnel.
«Alla fine anche in Formula E è accaduto che, quando il budget si alza, i team per far quadrare i conti sono costretti a prendere i soldi dai piloti. Io pensavo e speravo di potermi tenere Vitantonio», prosegue Trulli, «avevamo contrattualizzato l'accordo anche per la stagione successiva, però poi gli ho dovuto spiegare che ero costretto a fermarmi perché avevano modificato la situazione. Considera che l'unico sponsor che avevo trovato era cinese, facendo quadrare il cerchio per l'ennesima volta sul mancato appoggio di aziende italiane anche in un team tutto italiano, in una categoria così pubblicizzata e seguita a livello mediatico».
Nel motorsport, dunque, ormai sempre più spesso l’elemento tecnologico diventa predominante, non solo per stabilire le gerarchie dei valori in pista ma forse soprattutto per definire la selezione dei piloti. I costi delle prestazioni meccaniche e aerodinamiche delle vetture in tutte le categorie, fin dai kart, assumono livelli tali da renderlo ormai un prodotto quasi di nicchia o, peggio ancora, come una sorta di parco-giochi, di hobby per i rampolli delle famiglie molto ricche, un settore in molti casi insostenibile e non remunerativo.
«Dobbiamo avere grandi piloti, non solo gente finanziata da mamma e papà, altrimenti la Formula 1 si disintegrerà nei prossimi 5 anni», ha detto due anni fa Anthony Hamilton, padre di Lewis. La stessa preoccupazione l’ha condivisa suo figlio, qualche mese fa: «Ci sono alcuni grandi piloti che non possono mostrare le loro capacità e questo sarà un problema fondamentale finché i vertici non faranno un lavoro migliore, il che non sembra possa succedere presto».
Ciò che abbiamo provato ad analizzare noi in questa inchiesta, in qualche modo, può essere definito il germe malato di questo sport affascinante.
In assenza, per il momento, di dinamiche di mercato più favorevoli alla redistribuzione delle opportunità, il compito di riequilibrare le possibilità di accesso verso l’olimpo dell’automobilismo spetterà alla Federazione Internazionale.