Quando Abramovich completa l’acquisto del Chelsea nel giugno del 2003, in Premier League ci sono solamente due squadre di proprietà non inglese: il Fulham - acquistato nel 1997 dal proprietario egiziano di Harrods, Mohamed Al-Fayed - e il Portsmouth - salvato nel 1999 dal cinico affarista serbo Milan Mandaric (che speculava comprando e rivendendo squadre sull’orlo del fallimento, come anche Leicester, Sheffield Wednesday o l’Olimpia Lubiana).
Abramovich ha rappresentato una sorta di spartiacque nel processo di globalizzazione del campionato inglese, c’è un prima e un dopo Abramovich: negli anni successivi al suo arrivo, mentre Fulham e Portsmouth scomparivano dalla geografia della Premier League, altri capitali stranieri verranno attirati in Inghilterra dal miraggio dei suoi successi immediati.
Quando Abramovich vince la Premier League alla sua seconda stagione ufficiale alla guida del Chelsea (che non vinceva il titolo nazionale da mezzo secolo), il più importante club inglese, il Manchester United, finisce in mani americane. Quando alla fine della primavera del 2012 il Chelsea vince la sua prima, e per adesso unica, Champions League, le proprietà straniere in Premier sono già diventate dieci.
Oggi, con il club londinese di nuovo in cima alla classifica, le uniche squadre ad avere una proprietà del tutto inglese sono il Tottenham, lo Stoke City, il Burnley e il Middlesbrough. Alcune di queste quattro potrebbero retrocedere già quest’anno, e anche in Championship i club con una proprietà del tutto o in parte straniera sono 11 su un totale di 24.
In questi anni i capitali esteri hanno cambiato strutturalmente la Premier League e i club inglesi, anche in maniera più profonda ed estesa rispetto a quanto fatto dal miliardario russo col Chelsea: la bizzarra coppia russo-americana Kroenke-Usmanov ha trasformato l’Arsenal in un club moderno ed europeo con un nuovo stadio sponsorizzato da Emirates; la famiglia statunitense dei Glazer ha reso il Manchester United il club più ricco del mondo; mentre lo sceicco arabo Mansour bin Zayed Al Nahyan sta rendendo il Manchester City sempre più simile ad un’enorme multinazionale.
Ma nessuno di loro può vantare un impatto sportivo sulla propria squadra anche solo vagamente comparabile a quello avuto da Abramovich sul Chelsea.
Nascondersi in piena vista
Fare un profilo di Abramovich è un’operazione estremamente delicata perché la sua immagine molte volte si costruisce per paradossi. È di gran lunga il presidente della Premier League più in vista, sapremmo riconoscerlo tra mille foto, eppure di lui non sappiamo praticamente niente, se non la marca e la lunghezza dei suoi yacht.
Sappiamo dei torbidi rapporti tra il Primo Ministro della Federazione Russa, Medvedev, e il socio di minoranza dell’Arsenal, Usmanov. Sappiamo dei 600 milioni di dollari persi con il fallimento della Banca di Cipro da Rybolovlev, che possiede una squadra relativamente marginale come il Monaco. Mentre di Abramovich, che ha tra le mani uno dei club più importanti del mondo ed è uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin, dobbiamo accontentarci di biografie non autorizzate e gossip di basso valore.
La stampa italiana, ad esempio, sembra ossessionata dalla sua ricchezza. La quasi totalità delle notizie - chissà quanto verificate, poi - è di questo tipo: Abramovich che perde a poker uno yacth da 500mila euro; Abramovich che spende 52mila dollari in un ristorante di New York; Abramovich che regala un museo da 250 milioni di euro alla sua fidanzata.
Abramovich su uno dei suoi yacht a Lisbona, dove attracca per gli Europei portoghesi del 2004.
La privacy è oggi un bene di lusso riservato solo ai ricchi della sua portata, ma il miliardario russo ha avuto una protezione ossessiva verso il suo passato, molto maggiore rispetto anche a persone che condividono la sua stessa condizione economica e sociale. Fino al 1999 non esiste TV o giornale che abbia una sua foto, tanto che quando arriva in Inghilterra un suo assistente gli consiglia di farsi fare un rassicurante book di foto istituzionali per soddisfare la stampa.
Abramovich non rilascia quasi mai interviste, e analizzarlo significa attraversare il corridoio di specchi deformanti delle dichiarazioni delle persone che lo hanno conosciuto, che restituiscono inevitabilmente immagini diverse, a volte contrastanti o addirittura opposte. Questo, anche perché chi lo ha conosciuto davvero sa che l’esposizione mediatica è la parte scoperta della sua cotta di maglia, dove si può affondare la spada.
Quando c’è da parlare con la stampa Abramovich non si fida di nessuno, nemmeno di se stesso: «Non ho mai fatto dichiarazioni pubbliche, o almeno ho provato a non farle. So di non saperle fare: divento molto nervoso, dimentico cosa volevo dire, non riesco a comunicare davvero il mio pensiero ai giornalisti. Così ho deciso che non è cosa per me».
Nonostante non parli mai in pubblico (e vieti spesso anche alle persone a lui più vicine di farlo), Abramovich sa perfettamente quanto conti dare un’immagine positiva di sé all’esterno. Una volta, parlando con Le Monde, dichiarò: «Sapete qual è la differenza tra un ratto e un criceto? Nessuna, è tutta una questione di pubbliche relazioni».
Lo studio della sua tenuta estiva fuori Mosca è tappezzato di libri finti, con la copertina e in bella mostra ma niente dentro.
Perché venire in Europa
Abramovich ha rilasciato alla stampa inglese solo due interviste ufficiali, entrambe alla BBC. In una di queste, del luglio del 2003, si parla di cosa l’ha spinto a comprare il Chelsea: «Non lo faccio per i soldi, ho tanti altri modi meno rischiosi di fare soldi rispetto a questo. Non voglio gettare via i miei soldi ma lo faccio davvero per divertimento, e questo significa successo e trofei. […] Sto realizzando il mio sogno di possedere un club di calcio di prima fascia. Alcuni dubiteranno delle mie motivazioni, altri penseranno che sono pazzo».
Non sappiamo se sia sincero o simulato, ma in pubblico Abramovich cerca sempre di dimostrare un interesse teatrale nei confronti del lato puramente sportivo del suo investimento. Una volta dovette scappare da un Besiktas-Chelsea di Champions League giocato su campo neutro in Germania, dopo aver ricevuto delle minacce di morte in tribuna per aver protestato in maniera troppo vivace per un fallo subito da un suo giocatore.
E sono relativamente famose anche le sue visite silenziose alla squadra, anche tra i primi e i secondi tempi delle partite, che a volte indispettiscono i suoi allenatori.
Abramovich che esulta in tribuna insieme a Drogba, durante un Chelsea-Sunderland del 2015.
Ancelotti ha raccontato di quando, subito dopo la sconfitta con il Manchester United nei quarti di finale di Champions League del 2011, Abramovich si presentò negli spogliatoi senza dire una parola: «In quel momento, dopo aver perso la partita, eravamo tutti un po’ imbarazzati. C’era un silenzio totale». Ma c’è anche chi interpreta questo quieto presenzialismo come una forma di sincera passione verso il calcio.
Antonio Conte, ad esempio, ha rivelato con entusiasmo che Abramovich a volte si siede tra la squadra durante le sessioni video tattiche, nel centro d’allenamento di Cobham: «È un presidente con una grande passione. Vuole conoscere e capire le tue idee».
C’è comunque qualcosa su cui la sua sincerità può essere data per scontata. È vero che Abramovich, tecnicamente un uomo d’affari nel campo dell’energia e dell’acciaio, ha modi meno rischiosi di fare soldi, almeno da un punto di vista imprenditoriale. E sembra essere allo stesso modo autentico il suo impegno nella crescita economica e sportiva del Chelsea, visto che il suo credito personale nei confronti del club londinese sfiorava il miliardo di sterline già nel 2014. Una cifra impegnativa persino per quello che è ancora oggi, nonostante tutto, il presidente più ricco nel mondo del calcio.
Una teoria più affascinante sul perché un oligarca russo decida di punto in bianco di investire una grossa fetta del suo patrimonio in un club inglese in un’epoca in cui non andava ancora di moda farlo è contenuta in una delle poche biografie (ovviamente non autorizzata) sul personaggio: “Abramovich, The Billionaire from Nowhere”, di Dominic Midgley e Chris Hutchins.
Secondo un non meglio precisato fellow oligarch interpellato dagli autori, il Chelsea per Abramovich rappresenterebbe «la polizza assicurativa [sulla vita, nda] più economica della storia». Per capire questa dichiarazione, bisogna prima spiegare come ha fatto Abramovich ad essere uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin, ricordandoci che “oligarca” è una parola che fa riferimento al potere politico, prima che ai soldi.
Crescere da oligarca
Abramovich emerge come imprenditore nel momento di vuoto tra il collasso dell’Unione Sovietica e l’alba del nuovo impero putiniano, un periodo in cui, secondo il parere di un suo avvocato, la Russia era paragonabile ad uno stato medievale del quindicesimo secolo. Alla fine degli anni ’80 Abramovich è niente di più di uno spacciatore di beni di lusso (per gli standard dell’Unione Sovietica: stiamo parlando di cioccolata, jeans, profumi, sigarette), che comprava a Mosca, dove si era trasferito con la sua prima moglie, e rivendeva a prezzo più alto a Ukhta, una piccola cittadina nel cuore della Russia settentrionale (oltre 1600 chilometri a nord-est della capitale), dove Abramovich è cresciuto coi genitori adottivi.
C’è qualcosa di genetico nell’istinto imprenditoriale di Abramovich. Lui, che ebbe un processo di formazione abbastanza ortodosso (frequentò prima l’Istituto Industriale di Ukhta e poi, non essendo iscritto ad un’università abbastanza prestigiosa da permettergli di evitarlo, passò due anni di leva obbligatoria nell’esercito), finì per fare quello che di fatto faceva anche il suo padre adottivo, Leib, fratello del suo padre naturale, Arkady, che morì schiacciato da una gru quando Abramovich aveva due anni e mezzo.
Leib, «un oligarca del tempo», secondo la definizione della moglie (e madre adottiva di Abramovich) Ludmilla, era a capo del dipartimento forniture di una segheria statale a Ukhta, dove sostanzialmente si appropriava degli abiti e del cibo riservati ai lavoratori del posto per rivenderli sul mercato nero ad un prezzo più alto rispetto a quello fissato dallo stato sovietico. Un’attività che ha permesso ad Abramovich di avere un’infanzia relativamente agiata, che includeva anche alcune rarità assolute per l’Unione Sovietica, come il walkman.
Ma se Leib era costretto di fatto a vivere una doppia vita, promuovendo l’ideologia di stato in pubblico e guadagnando dal mercato nero in privato, Abramovich, in tempi di di glasnost e perestroika, era libero di arricchirsi e reinvestire senza alcuna preoccupazione ideologica o morale.
Quando Gorbachev tolse il divieto di impresa privata, Abramovich fondò la sua prima azienda, la Uyut (letteralmente, in russo, “comfort”), specializzata nella produzione di bambole e papere di gomma. Da lì, nei primi anni Novanta, Abramovich si espanse in altri campi (separandosi nel frattempo dalla prima moglie, secondo cui «sembrava che amasse il suo business più di me»), come la rivendita di copertoni e la selezione di guardie del corpo. È solo con il passaggio da Gorbachev a Yeltsin, però, che iniziò a puntare la vera gallina dalle uova d’oro: gli idrocarburi.
La leggenda su come sia entrato nel business dell’energia, smentita dal diretto interessato e a cui possiamo solo decidere se credere o meno, è questa. All’inizio del 1992 Abramovich ha bisogno di raccogliere capitale per entrare in un settore che è troppo grande per le sue tasche, nonostante il nuovo stato russo stia svendendo il suo bene più prezioso - idrocarburi: petrolio e gas naturali - ad affaristi di ogni tipo. La soluzione è originale: decide di dirottare un treno carico di tre milioni di chili diesel dal valore di circa quattro miliardi di rubli partito da Ukhta e diretto a Kaliningrad falsificando i documenti ferroviari. Il treno arriva a Riga, in Lettonia, dove Abramovich si appropria del diesel e lo vende. Abramovich, all’epoca 25enne, viene inizialmente arrestato per frode ma poi un misterioso benefattore gli permette di uscire di prigione e tenersi il guadagno.
Ma la realtà probabilmente è più complicata di così e non potendo avere certezze sulla veridicità della vicenda possiamo prendere questa storia al massimo come una metafora. Quello su cui possiamo essere un po’ più sicuri è che in quello stato medievale che era la Russia degli anni ’90 per prendersi una parte di quella torta ricchissima che erano gli idrocarburi bisognava avere le giuste connessioni politiche, un capitale di un certo rispetto e addirittura «protezione fisica», come verrà definita più avanti, nei confronti degli altri competitor. Abramovich riuscirà a trovare tutto questo in un unico uomo: Boris Berezovsky.
Nelle stanze del potere
Più anziano di vent’anni rispetto ad Abramovich, Boris Berezovsky ha fatto la sua fortuna sfruttando le privatizzazioni selvagge degli anni ’90 nel campo delle automobili e dei media. Al tempo in cui lo ha sostenuto, era un pesce decisamente più grosso rispetto ad Abramovich, non solo perché più ricco ma soprattutto perché poteva vantare connessioni molto profonde con la cosiddetta “Famiglia”: quel circolo di familiari e amici che per il presidente Yeltsin fungeva di fatto da gabinetto politico.
In particolare, Berezovsky era riuscito ad entrare nelle grazie della figlia minore di Yeltsin, Tatyana, sommergendola di regali (automobili di lusso, per lo più). Tatyana era molto influente nei confronti del padre, talmente influente che secondo alcuni è stata proprio lei a consigliargli di svendere le aziende energetiche russe per salvare un paese destinato altrimenti al fallimento.
Berezovsky conosce Abramovich nel 1995 sullo yacht di un amico in comune e ne rimane subito affascinato. Una delle qualità che in Russia viene riconosciuta ad Abramovich è quella di saperci fare nei rapporti interpersonali ed è paradossale se pensiamo che in Inghilterra sembra essere invece un uomo silenzioso e sfuggente. Secondo il giornalista russo Alexei Venediktov, che ha conosciuto entrambi, dopo quell’incontro Berezovsky lo definì il giovane più talentuoso che avesse mai conosciuto: «Una volta gli ho chiesto che talento avesse Abramovich e lui mi ha risposto che era un buon psicologo».
Berezovsky e Abramovich, 2000.
Più avanti lo stesso Berezovsky dichiarerà: «Non penso che Abramovich sia furbo strategicamente, ma se vuole convincerti personalmente finisci per credergli, al punto da pensare che sia davvero che sia sincero. È un genio. Mi ha davvero convinto per lungo tempo che potessi fidarmi di lui come di un figlio».
L’altra parte della realtà è che Abramovich serviva a Berezovsky nel suo progetto di appropriazione della Sibneft, una megacompagnia energetica nata dalla fusione tra la Noyabrskneftegaz (azienda che si occupava dell’estrazione) e la raffineria di Omsk, la più grande di tutta la Russia, con cui il futuro presidente del Chelsea aveva già fatto non meglio precisati affari. Grazie alle connessioni di Berezovsky, il governo Yeltsin - tra la fine di settembre e dicembre del 1995 - creò prima, e poi mise in vendita, la Sibneft. L’acquisizione finì in favore di Abramovich e Berezovsky, circa due anni e 200 milioni di dollari dopo, per un’azienda che già nel 2003 valeva 75 volte tanto (15 miliardi di dollari).
Con l’acquisto della Sibneft, Abramovich non divenne solo incredibilmente ricco ma anche pericolosamente potente, probabilmente più di quanto lo stesso Berezovsky si aspettasse. Negli anni successivi, Abramovich non solo si espanse con una disinvoltura sorprendente nel pericoloso campo dell’alluminio (tanto che i conflitti in questo settore sono stati chiamati “Alluminium Wars”) con l’acquisizione della NkAZ, ma soprattutto si sostituì lentamente a Berezovsky nel rapporto con Tatyana, la figlia di Yeltsin.
Fu solo con il cambio di regime politico, però, che Abramovich si trasformò davvero in un oligarca.
Come si dice machiavellico in russo?
Nell’agosto del 1999 Boris Yeltsin nomina come suo primo ministro un ex membro del KGB, con un passato per forza di cose torbido nella Germania dell’Est, fino a quel momento praticamente sconosciuto al grande pubblico: Vladimir Putin.
Gli oligarchi russi che hanno ormai preso il controllo della corte di Yeltsin, incluso ovviamente Berezovsky, si sfregano le mani di fronte ad una nomina di così basso profilo, convinti di poter controllare anche quello che sembra essere il più probabile successore del presidente. Tuttavia, nella più tipica delle narrazioni sul potere accadrà esattamente il contrario e sarà proprio Putin a mettere definitivamente fine alla breve era degli oligarchi. Quando Berezovsky proverà a chiedergli chi avrebbe voluto come capo di gabinetto, Putin elude la domanda rispondendo che avrebbe fatto le sue considerazioni.
Nell’estate del 2000, appena eletto presidente, Putin vuole subito presentarsi come l’uomo in grado di riportare lo stato russo al di sopra degli interessi particolari degli oligarchi, che sono ormai malvisti dall’opinione pubblica. Li riunisce tutti al Cremlino e cerca di stringere con loro un patto: potranno tenersi tutto ciò che si sono presi dopo la fine dell’Unione Sovietica a tre condizioni: non dovranno interferire col governo; non dovranno corrompere la burocrazia; e dovranno pagare le tasse. In caso contrario avrebbero perso tutte le loro proprietà, o peggio (una minaccia con un certo fondamento, in bocca ad un uomo che proveniva dal KGB). Uno dei primi a venire meno a questo patto fu proprio Boris Berezovsky.
Il presidente che costringe un imprenditore a riaprire una fabbrica: l’immagine che Putin vuole dare all’osservatore.
Un mese dopo quell’incontro, uno dei più importanti sottomarini dell’esercito russo, il Kursk, affonda nelle profondità del Mare di Barents, con a bordo 118 persone, e Putin ha la malaugurata idea di non interrompere le sue vacanze estive per seguire la vicenda di persona. Sulla stampa nazionale e internazionale il caso monta e Putin viene attaccato personalmente per quella clamorosa mancanza di cura nei confronti di una tragedia di dimensioni colossali.
Tra le voci più critiche del nuovo presidente c’è anche la ORT, un canale televisivo di cui Berezovsky era il principale azionista, che arriva a paragonare la triste fine del Kursk al disastro nucleare di Chernobyl. La reazione di Putin sarà durissima: Berezovsky di lì a pochi mesi sarà costretto a lasciare il paese in esilio e a vendere la sua quota in ORT (circa il 49%). L’uomo che si appropria della sua quota è proprio Roman Abramovich (che è ancora oggi proprietario di circa il 24% di quella che oggi si chiama Channel One Russia).
Quello di cui Berezovsky era totalmente all’oscuro è che Abramovich stava svolgendo un ruolo fondamentale nell’ascesa del cosiddetto nuovo zar. Aveva finanziato e dato un contributo logistico fondamentale al suo partito, Unità (oggi Russia Unita), ed era talmente vicino a Putin che, quando nell’estate del 1999 l’attuale presidente russo deve formare il suo gabinetto da primo ministro, è lui in persona a tenere i colloqui al Cremlino.
Un poster elettorale di Abramovich a Mosca, nel 1999.
Mentre Berezovsky si appresta a lasciare la Russia per sempre, Abramovich si candida a sorpresa a governatore della regione autonoma della Chukotka, nell’estremo oriente russo, forse per ottenere dei vantaggi fiscali per le sue aziende. Interrogato su quello che era il suo partner più vicino, risponde in maniera incredibilmente fredda: «Eravamo molto amici ma Berezovsky non mi ha mai aiutato, ha sempre aiutato se stesso».
In appena cinque anni Abramovich è passato dall’essere un piccolo imprenditore di giocattoli ad essere l’oligarca più ricco e influente di tutto il paese: mostrarsi vicino a Berezovsky non è più politicamente conveniente.
Anni più tardi, quando condivideranno Londra come nuova patria, Berezovsky in esilio e Abramovich per motivi di affari (ne parlerò meglio più avanti), l’ex mentore di vendicarsi del suo ex allievo portandolo in tribunale, consapevole che un processo contro il presidente del Chelsea attirerà un’attenzione mediatica senza precedenti. Infatti i giornalisti, che seguiranno il processo con attenzione maniacale, impacchettano la vicenda in un titolo da Blockbuster: “il processo degli oligarchi”.
Abramovich nell’estate del 2012 vincerà quel processo, dopo che l’Alta Corte di Londra respingerà «nella loro interezza» le accuse di Berezovsky: cioè di essere stato costretto a vendere la sua quota della Sibneft dopo l’esilio a un prezzo stracciato (1.3 miliardi di dollari invece di 6.8, secondo la quotazione ritenuta giusta da Berezovsky). Ma per lui sarà comunque una sconfitta, perché quel processo ci permette oggi di fare luce su una parte fondamentale di un passato che custodisce gelosamente.
In particolare, Berezovsky parlerà nel dettaglio del rapporto tra Abramovich e Putin, descrivendo il primo come una sorta di sicario del secondo: «Inizialmente si nascondeva alle spalle di Putin. Diceva: “È colpa di Putin, non mia, di Putin”. Ma dopo ha smesso di fare anche questo perché ormai agiva, mi dispiace dirlo, come un gangster».
Un incontro tra Putin e Abramovich nel maggio del 2005.
Pochi mesi dopo, nel marzo del 2013, Berezovsky verrà trovato morto nella sua casa nei pressi di Londra, forse suicida: Berezovsky aveva passato gli ultimi giorni della sua vita in depressione, alla ricerca di un modo per trovare i circa 180 milioni di dollari di spese processuali che era stato costretto a pagare dopo la sconfitta nel processo.
Perché venire in Europa, quindi?
La vicenda di Berezovsky, insieme a quelle analoghe di Vladimir Gusinsky e Mikhail Khodorkovsky (entrambi passati per l’arresto e l’esilio dopo essersi opposti a Putin), devono aver segnato Abramovich molto al di là della specifiche questioni processuali. È solo alla luce di queste situazioni che possiamo capire la considerazione dell’oligarca anonimo interpellato dagli autori di “Abramovich, The Billionaire from Nowhere”, del Chelsea come assicurazione sulla vita.
Abramovich insieme a Mikhail Khodorkovsky, a Mosca, nel 2003.
Certo, oggi Abramovich può vantare una vicinanza politica con Putin che gli garantisce una certa sicurezza personale e diversi vantaggi negli affari (non solo in Russia: il 40% dell’acciaio necessario alla costruzione del controverso oleodotto Keystone XL, che Trump ha deciso portare avanti contraddicendo la precedente decisione di Obama, ad esempio, verrà da un’azienda in cui Abramovich ha una quota del 31% circa); ma cosa succederebbe se le loro strade, per una qualsiasi ragione, dovessero dividersi?
La teoria del fellow oligarch è che sia stata proprio la caduta in disgrazia di Berezovsky ad avergli insegnato che è meglio non correre rischi con uomo come Putin. Fin dall’inizio del 2000 Abramovich ha iniziato a trasferire la sua famiglia e la quasi totalità del suo patrimonio in Gran Bretagna, un Paese storicamente avverso alla Russia da un punto di vista diplomatico.
Ancora prima del Chelsea, compra per circa 15 milioni di dollari un’immensa tenuta nel West Sussex, tra Londra e Southampton. Nell’ottobre del 2005 vende la sua quota nella Sibneft per una cifra intorno ai 13 miliardi di dollari alla Gazprom, la società con cui Putin ha definitivamente rimesso sotto controllo statale gli idrocarburi russi (e con cui a sua volta sta tentando di creare un impero calcistico). Poi ci sono i suoi investimenti immobiliari nel sud della Francia (nel 2003 ha comprato per circa 40 milioni di euro una specie di reggia sulla Costa Azzurra fino a quel momento proprietà del duca di Windsor) e in beni mobili di ogni tipo (jet, aerei - tra cui un Boing 767 - elicotteri, yatch) che possono essere considerati una forma di investimento.
Così facendo da una parte limita al minimo i rischi di interferire con gli interessi di Putin in patria (appena acquisita dalla Gazprom, la Sibneft che fino a poco prima era concorrenza ha smesso di essere sponsor del CSKA di Mosca, così il monopolio statale sul gas è evidente anche a livello di immagine) ma soprattutto si assicura da possibili ritorsioni nel caso in cui i rapporti con il presidente russo dovessero peggiorare.
Quale giudice avrebbe il coraggio di acconsentire all’estradizione verso un paese che viene visto come una dittatura sanguinaria di un uomo che ha spostato la quasi totalità dei suoi miliardi in Gran Bretagna e che, accessoriamente ma non troppo, ha reso il Chelsea uno dei club più importanti del mondo, con un esercito di tifosi alle sue spalle, e che ha una relazione talmente amichevole con la famiglia reale britannica da aver prestato una volta un suo elicottero al principe Carlo per trasportarlo ad una partita di polo?
In questo senso, si può capire perché, durante il “processo degli oligarchi”, Abramovich abbia definito il Chelsea come «un punto di svolta» che «ha avuto un impatto significativo sulla mia vita».
Perché il Chelsea?
Se la relazione con Putin e la vicenda di Berezovsky ci può spiegare in qualche modo la scelta di Abramovich di spostare il proprio patrimonio in Gran Bretagna, ci dice poco sulla sua decisione di puntare proprio sul Chelsea.
L’interrogativo più evidente posto da Abramovich è perché un uomo così geloso del suo passato e desideroso di proteggere la sua immagine abbia deciso a un certo punto di esporsi in maniera così palese entrando in un mondo bulimico di attenzione come quello del calcio europeo.
Avrebbe potuto investire in un altro settore, in fondo, e la teoria che l’immagine pubblica possa servirgli un giorno da scudo, un giorno, per il momento è davvero troppo paranoica, considerando che Abramovich potrebbe non aver mai bisogno di essere salvato dalla sua stessa fama ed esposizione.
Abramovich in borghese, sul prato dell’Olimpico, prima di un Lazio-Chelsea di Champions League.
Alcuni riconducono la passione per il calcio di Abramovich alla sua città adottiva, Ukhta. Nata inizialmente intorno a un gulag per prigionieri politici, Ukhta vide per un periodo il soggiorno di Nikolai Starostin, calciatore e giocatore di hockey su ghiaccio, tra gli storici fondatori dello Spartak Mosca, che durante la prigionia (una delle ipotesi sul suo arresto lo vede come possibile amante del figlio di Stalin) allenò la squadra locale.
Ma le tracce di questa passione sono presenti anche al di fuori della semplice eredità culturale: Abramovich aveva messo sù una propria squadra durante il periodo da militare e, prima del Chelsea, seguì da tifoso sia i Mondiali in Francia del 1998 che quelli nippo-coreani del 2002.
Così, quando decise di comprare un club in Europa, inizialmente puntò il Manchester United. Nell’aprile del 2002 andò all’Old Trafford a vedere una partita con il Real Madrid e subito dopo visitò il centro d’allenamento, con Rio Ferdinand come Cicerone. Alla fine, però, la scelta ricadde sul Chelsea. La leggenda vuole che Abramovich decise di comprare il club londinese in elicottero, mentre sorvolava Londra. «Cos’è quello?», chiese indicando il Tamigi. E qualcuno, pensando erroneamente che si riferisse al quartiere che si affacciava sul fiume, rispose: «Chelsea».
Questo mito fondativo nasconde ovviamente una complessità più grande, che sta alla base di una scelta sportivamente e commercialmente con poco senso: perché scartare la più importante squadra inglese, con un bacino di tifosi immenso, per un club piccolo, indebitato e dalla storia grigia? Il fatto che il Chelsea in quel momento fosse effettivamente in vendita risponde solo parzialmente alla domanda, dato che Abramovich non sembrava cercare un affare e che il Manchester United venne venduto solo due anni dopo.
Le origini della grandezza
Non c’è una risposta univoca sul perché Abramovich abbia scelto un mondo che lo avrebbe messo sotto i riflettori, passando per un club tutto sommato piccolo come il Chelsea. Ma scavando nella sua storia non si può fare a meno di notare una costante ricerca di una conferma esteriore della propria grandezza personale (e il Chelsea in questo caso era un club che poteva cambiare radicalmente), in opposizione al potere costituito (quello dell’Unione Sovietica; quello dei club inglesi più vincenti) persino se a discapito di quella prudenza ad esporsi che la sua storia gli ha insegnato.
Non è una teoria campata per aria quella secondo cui questa fame sia una sorta di compensazione del fatto di essere cresciuto da orfano (oltre al padre, Arkady, Abramovich perse subito anche la madre, Irina, morta dopo un aborto clandestino finito male): Abramovich finanzia ancora oggi una delle sue prime scuole in Russia, che dal canto suo non fa altro che ringraziarlo con telegrammi e targhe commemorative; e uno dei suoi primi atti da governatore della Chukotka fu quello di portare a proprie spese un gruppo di bambini poveri in vacanza.
Un peso probabilmente l’hanno avute anche le sue radici ebraiche, evidentissime fin dal nome (Abramovich letteralmente significa “figlio di Abramo”). Abramovich è cresciuto in un paese fortemente antisemita e in un periodo in cui i bambini ebrei come lui venivano ancora esplicitamente segnalati sui registri scolastici.
Abramovich in visita al Muro del Pianto, nel 2006.
Ha assistito e direttamente contribuito alla distruzione di un regime che vedeva l’ebraismo come una setta ideologicamente non affidabile: prima essendo testimone dell’attività del suo padre adottivo, che di fatto si arricchiva alle spalle dell’Unione Sovietica, e poi, con il supporto a Yeltsin e poi Putin, sventando la prospettiva, al tempo molto concreta, che i comunisti tornassero al potere. Abramovich è anche uno dei principali finanziatori di Habad, un movimento dell’ortodossia ebraica rientrato anche grazie a lui nelle grazie del governo russo con Putin, dopo essere stato perseguitato prima dagli zar e poi dall’Unione Sovietica.
Abramovich sembra aver trovato nello sport quelle conferme di predestinazione che la politica per forze di cose non poteva attribuirgli (un acuto osservatore, interpellato dagli autori di “Abramovich, The Billionaire from Nowhere”, l’ha definito «un politico con la p minuscola»). Nel 2000 ha anche acquistato l’Avangard di Omsk, una squadra di hockey su ghiaccio, rendendola una delle più importanti del paese.
Il Chelsea, con i suoi trofei, le sue stelle, la sua visibilità, è l’immagine più diretta ed evidente della grandezza di Abramovich. E, d’altra parte, i successi non sono riconducibili a nessun altro se non a lui: esiste una storia del Chelsea prima Abramovich e una storia del Chelsea dopo Abramovich.
Sarebbe stato lo stesso in un club già grande? Al Manchester United immortale? Al Liverpool dalla grande storia europea? All’Arsenal appena uscito dal ciclo degli Invincibles di Wenger?
Il Chelsea, con Abramovich in prima fila, mentre festeggia la Premier del 2005.
I trofei, che nella logica capitalistica attuale sono solo un fortunato ma nemmeno così necessario incidente in un virtuoso circolo di profitti e risultati sportivi, diventano in quest’ottica centrali per scrivere il proprio nome sulla sabbia della storia. Ancora di più per Abramovich che, mentre gli altri investitori esteri amministrano i propri club come vere e proprie aziende, ha deciso di mettere mano direttamente ai propri fondi personali.
I circa 500 milioni di sterline necessari per la ricostruzione di Stamford Bridge, che cementerà definitivamente la sua legacy nel club, verranno dalle sue tasche. Un rinnovo architettonico che porterà lo stadio del Chelsea ad ispirarsi, almeno nelle intenzioni, all’abbazia di Westminster. Il più importante luogo di culto della Chiesa Anglicana, una religione a cui a capo c’è il Re d’Inghilterra, simbolo quindi della grandezza di un sovrano, nata a causa di interessi molto personali - la storia, certamente più complessa di così, di Enrico VIII che voleva divorziare - e in opposizione ad un potere costituito - quello del Vaticano, che si opponeva al divorzio, appunto.
Curiosa come coincidenza. Ma forse neanche troppo.