«La distinzione tra presenza e assenza può essere marginale finché esiste la memoria», lo scrive Judith Schalansky nel suo bellissimo libro Inventario di alcune cose perdute. Tra le cose perdute, Schalansky racconta dell’ultimo esemplare della tigre del Caspio distrutto in un incendio dopo essere stato impagliato, di un atollo sprofondato ma cancellato dalle mappe soltanto 30 anni dopo, di uno scheletro – probabilmente – di un unicorno, del primo film di Murneau, andato smarrito e mai uscito in sala, poi di biblioteche, dipinti. L’autrice tedesca si muove su quel confine sottile tra perdita e riscoperta, un luogo in cui l’assenza somiglia al ritrovamento, l’archivio diventa il posto in cui lasciarsi tutto il resto alle spalle, la memoria è la salvezza, è la cerniera tra sottrazione e rivelazione.
Immagino che ognuno di noi abbia un suo piccolo inventario di cose perdute, costruito anche inconsapevolmente, nel mio ci sono cose molto private, anche minuscole, come le volte in cui mio nonno invece di portarmi a scuola mi portava al bar. Guardavo le partite a scopone o a tressette, se andava bene, nonno vinceva le caramelle per me. Sembrerà meno importante ma nel mio inventario ci sono alcuni gesti sportivi che non potranno ripetersi perché chi li faceva non gioca più. Cose come il modo di andare a canestro di Michael Jordan, il ballo sopra al pallone di Zidane, l’uscita palla al piede dalla difesa di Franco Baresi. Mi manca già, in prospettiva futura, il diritto di Federer. Al mio piccolo inventario ho dovuto aggiungere da qualche tempo la maniera di giocare di Francesco Totti, in particolare, ho classificato una voce con: “L’apertura al buio di Totti”.
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L’apertura al buio è una definizione mutuata dal poker. La può effettuare soltanto il giocatore seduto alla sinistra del mazziere, prima della distribuzione delle carte. Il giocatore che apre al buio può farlo anche senza avere la cosiddetta coppia vestita, e per farlo deve puntare una somma pari al piatto. Viene chiamato buiante, termine pieno di fascino. Non me ne vogliano i giocatori di poker, queste poche righe sono scritte da uno che di carte ne sa poco ma che è molto affascinato dalla terminologia e dal rituale. Chi può fare cosa e quando; chi, aggiungo, ha il coraggio di fare cosa e per tempo, saltando nell’ignoto della giocata, nella non conoscenza delle carte che usciranno, nel vuoto, nel punto che molti non riescono nemmeno immaginare, lì, mi pare di capire, agisce il buiante. L’apertura al buio applicata al calcio è il termine con cui ho inventariato Totti nella mia memoria calcistica.
A differenza del buiante del poker, Totti è un chiarente, ovvero colui che illumina, che vede prima che gli altri vedano, che mette il pallone in un posto del campo che per gli altri è buio, per lui è per il compagno che sta lanciando verso la porta è lo spazio in cui cade la luce maggiore. Se riflettiamo, ogni volta che Totti ha aperto ha fatto sì che l’erba diventasse luminosa, laddove era sbiadita brillasse di un verde acceso, dove era stata cancellata dalla pioggia pareva, dopo il primo rimbalzo del pallone, crescere di nuovo. Totti mentre aspettava di ricevere il pallone, quando lo lanciava, quando accompagnava l’azione, nel momento in cui calciava in porta, era il mazziere, il giocatore alla sua sinistra e quello dopo, giocava al buio ma sarebbe stato anche l’unico in grado di rilanciare su quel buio. Il giocatore di poker che rilancia sul buio è definito controbuiante. Colui che va contro il buio, nel calcio colui che va contro il buio è chi vede la possibilità dove gli altri vedono al massimo un paio di terzini.
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Ho sempre ammirato Totti da lontano, conscio del fatto che appartenesse alla Roma prima di tutto e ai tifosi giallorossi, l’ho amato con riservatezza, ma via via che avanzavano gli anni mi rendevo conto sempre più (capivo meglio) che giocare come giocava Totti è una cosa che riguarda tutti, quel modo di calciare unico è il primo principio della non appartenenza, è universale.
Il modo di giocare di Francesco Totti, più che riguardare la molto adoperata visione di gioco – e qualche volta parlando del centrocampista romano devo averlo fatto anche io – è vicino al mondo della previsione. Vedere dove gli altri non vedono, certamente, ma non basterebbe, conta vedere prima degli altri, vedere insieme agli altri: un lancio bello non serve a niente se non raggiunge qualcuno in grado di capirlo. Conta architettare margini di spazio aperto in una frazione di secondo. Sono tutti talenti che Totti ci ha mostrato centinaia di volte, per applicarli bene, affinché le azioni si sviluppassero e concludessero così come doveva essere, bisognava sapere fare a meno di qualcosa. Totti sapeva rinunciare a un controllo di troppo col piede perché ambiva a un controllo più ampio, quello applicato all’azione.
Francesco Totti quando poteva (e il poteva di Totti riguarda pochissimi altri calciatori) lanciava di prima, calciava al volo verso la porta, scambiava con il compagno di squadra sfiorando il pallone una volta soltanto, ora di tacco, ora di interno, ora di esterno, ora con un mezzo pallonetto, ora di petto, ora di testa, e mille volte era col destro e altrettante era col sinistro. Il calcio moderno, quello che più ci piace, sovente ricorre alla breve definizione: a due tocchi. Ancora prima di sapere cosa significhi realmente, comprendiamo che giocare a due tocchi concerne la rapidità, che nessuno tenga troppo il pallone, uno stop e poi liberarsi della palla, toccarla tre volte è già troppo. Abbiamo una notizia, Totti giocava a un tocco. Se applicassimo il fuoriclasse romano (come fosse un teorema) al gioco del calcio, per risultato avremmo qualcuno in grado di giocare bene, benissimo, partendo dal Brasile del 1970, passando per tutte le Olande dell’universo, fino al Barcellona di Guardiola, fino al Napoli di Sarri, fino al Liverpool di Klopp. Non è una cosa da poco, con Totti il discorso di calciatore universale si sposta da chi sa ricoprire ogni ruolo a chi sa giocare in ogni epoca del calcio moderno.
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Il movimento che preferisco di Totti è quello che precede il tocco. Quante volte lo abbiamo guardato? Totti che va incontro a un compagno di squadra, si fa vedere, si prepara a fare il perno. La palla gli arriva e senza voltarsi, senza stopparla, ruotando il corpo di quel poco che basta affinché la sfera scorra e poi il lancio di quaranta metri verso Cassano, verso Tommasi, verso Batistuta, verso il più fortunato dei compagni di squadra. L’apertura al buio, eccola qua. I riflettori che si spengono intorno agli avversari e il faro che segue la traiettoria e cade qualche metro avanti – perfettamente indirizzato verso l’area di rigore – alla corsa di Del Vecchio, di Mancini, di Osvaldo.
Oppure lo stesso movimento, ma molto più vicino alla porta avversaria, Totti che si muove, mostrandosi al compagno che sta giocando spalle alla porta, che è marcato, che ha il classico problema di girarsi, che si rincuora, che vede il mondo del possibile avvicinarsi. Il compagno, metti Perrotta, metti Candela, che appoggia quattro cinque metri più in là. Pausa. Prima che la palla vada verso i piedi di Totti, dobbiamo considerare che il numero 10 giallorosso ha già deciso cosa fare. Nella conoscenza, nell’anticipo sta la bellezza. Totti sa se restituirla al compagno che è scattato dentro l’area a chiudere il triangolo, sa se alzarla verso chi sta andando verso la porta arrivando dal lato opposto. Totti sa se farla scorrere e darla a chi arriva alle sue spalle, che so, a Nakata, a De Rossi. Totti sa se fintare perché ha due avversari troppo vicini. Totti sa se è il caso di tirare.
Oppure un frame solitario, l’assist perfetto. Totti per Lamela, ve lo ricordate vero? Durante un Roma – Atalanta accade la felicità di chi ama il gioco del pallone. Lamela ai venti metri dà palla a Totti (che si è fatto vedere) e comincia a correre verso l’area di rigore, Totti stoppa, toccando la palla solo una volta è già alla lunetta. Lamela sta entrando in area. Se guardiamo il fermo immagine di questo istante potremmo pensare che Totti tirerà, c’è abbastanza spazio. Ma noi non siamo Totti e non sappiamo niente. Serve un altro passetto e mentre qualcuno dell’Atalanta abbozza una spaccata, Totti scava sotto al pallone e in un istante, che dura quanto venti replay, lo recapita sui piedi di Lamela che a quel punto è davanti alla porta. Gol, facile facile. Totti, il chiarente.
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Totti è stato saggio e spregiudicato, sempre, in ogni partita. La lucidità di tenere il pallone per permettere ai compagni di smarcarsi o di liberarsene in fretta per accorciare i tempi d’arrivo in porta, la spregiudicatezza dei ragazzini che gli ha permesso di fare gol impossibili contro le avversarie più forti quando nessuno se lo sarebbe aspettato. L’apertura al buio riguarda anche questa faccenda.
Un gol all’Inter, il mio preferito. La meraviglia comincia sulla tre quarti campo della Roma quando Totti recupera il pallone, continua con l’accelerazione e la determinazione del 10 che si libera di due calciatori dell’Inter. Non sono dribbling puliti, sono fatti con la tenacia, con la forza, con la previsione. Devi essere un po’ pazzo e devi vedere uno spicchio di futuro. Quando Totti avanza verso l’area dei neroazzurri ha davanti Montella e alla sua sinistra altri due compagni di squadra che vanno verso l’area, ha almeno due opzioni di passaggio, ma il fuoriclasse delle opzioni certe volte non ha bisogno perché ha avvertito qualcosa. Credo che Totti abbia annusato quel gol dal momento in cui ha recuperato il pallone, abbia cominciato a costruire il pallonetto da allora. No, non lo sapeva, lo sentiva. Sentiva di trovarsi nel campo dello straordinario.
Un altro gol. Due tocchi. In una partita contro il Brescia. Al limite dell’area Amantino Mancini appoggia verso Totti che sta arrivando nei pressi della lunetta. Il primo tocco è un leggero esterno destro che serve a orientare il pallone verso la porta e a saltare un difensore bresciano. Il secondo tocco è un pallonetto stupendo che sembra la cosa più semplice del mondo.
Totti e l’apertura al buio sono nel mio archivio delle cose perdute non perché io non possa rivedere le sue azioni mille volte, ma perché non ve ne saranno di nuove. I video ci danno la possibilità di ritornare alla bellezza, ma è una bellezza che conosciamo, ed è comunque un conforto, la memoria di cui parla Judith Schalansky. Quello che ci manca, ciò che è perduto, è l’inaspettato, l’attimo in cui Totti si preparava a fare qualcosa - fosse un lancio di cinquanta metri, un tunnel, o un tiro dai trenta metri – e noi non sapevamo ancora cosa sarebbe accaduto. Quella sospensione era la soglia dalla quale i nostri occhi avrebbero oltrepassato il buio.
«Qualcuno diceva / qualcosa sulle ombre che coprivano il campo […]». Quando leggo questi versi di Mark Strand (tradotti da Damiano Abeni) penso a Francesco Totti, ci ha detto molto sulle ombre che coprivano il campo, su come liberarsene.