In una scena centrale del capolavoro di Scola, C’eravamo tanto amati, uno dei protagonisti, Gianni, interpretato da Vittorio Gassman, è alla resa dei conti con il suocero, Romolo, interpretato da Aldo Fabrizi. Gianni, con un completo elegante e un baffetto sottile lucido, si lamenta degli antiquati metodi lavorativi del suocero: «Bisogna espandersi, bisogna farsi quotare in borsa!». Romolo, anziano e in vestaglia, ma pur sempre dietro alla sua scrivania, risponde: «Io ste cose non le so fa’, le sai fa’ tu? E dillo che le voi fa’ te. E dillo che vuoi diventa’ l’amministratore unico e solo!».
Ecco cosa è mancato nella conferenza stampa del secondo addio di Totti alla Roma, quello da dirigente, organizzata nel Salone d’Onore del Coni. Mentre Totti diceva che non lo avevano coinvolto abbastanza, che gli avevano promesso cose senza mantenerle, che non gli hanno fatto fare quello che voleva fare, è mancato qualcuno che si alzasse in piedi e gridasse: «E dillo che volevi diventa’ il Direttore Tecnico unico e solo!». In realtà, Francesco Totti è stato meno mellifluo del personaggio di Gassman. Lo ha più o meno detto a un certo punto, quando parlando di sé in terza persona: «Se io fossi presidente della Roma e avessi due bandiere come Totti e De Rossi in società, gli darei in mano tutto».
Francesco Totti ha sempre avuto la fortuna di accompagnare il suo talento unico con un carattere piuttosto comune in cui tutti i romani potessero immedesimarsi. Sornione, umile, generoso, infantile, ingenuo e impunito al tempo stesso. Chiunque abbia incontrato Totti a Roma, vale a dire moltissime persone, racconta lo stesso contrasto tra la propria emozione nell’incontrare il più forte giocatore della storia della Roma e la sua semplicità. La leggerezza, l’autoironia, un certo distacco da sé, come se fosse diventato re suo malgrado, uno di quei re bambini sulla cui testa è stata messa la corona da una forza invisibile. Tranne, però, nei momenti in cui altre mani quella corona volevano portargliela via. Sotto minaccia, Totti sapeva farsi minaccioso. Questo lo sapevamo già, ma mai come ieri Totti ha mostrato di essere consapevole del suo potere (verrebbe da dire che il suo è anche un potere politico, considerando la location istituzionale). «Qualcosa mi tengo» ha risposto a chi gli faceva notare la straordinaria trasparenza di quella conferenza: «Perché se qualcuno risponde ho altre cose da dire».
Il secondo addio di Francesco Totti è stato una resa dei conti, anche se in assenza della controparte (Zazzaroni ha parlato di conferenza contro «i fantasmi»). Come tutte le rese dei conti è stata una faccenda sanguinosa, rancorosa, distruttiva. Certo è stato anche un circo, con la bandiera olimpica e quella europea alle sue spalle come un Presidente e la diretta di una rete nazionale, più di 200 giornalisti accreditati e i posti riservati per gli amici di Totti (Candela, Aquilani) e alcune icone giallorosse (Nela, Chierico), con Enrico Lucci che si inginocchia davanti a Totti e Rosella Sensi in studio. Ma questa è la forma che tutte le cose serie prendono a Roma, a metà strada tra la farsa, la caciara, e la dichiarazione di guerra. Non ci si può fermare a questo, né al piano fin troppo personale della faccenda, da freelance che sputtana su Twitter un cliente che non lo ha pagato.
Foto di Filippo Monteforte / Getty Images.
A chi critica Totti da destra, per così dire - ma forse sarebbe meglio dire dal nord, dove si pensa ci sia una cultura lavorativa più al passo coi tempi, più vicina a quella di un proprietario americano, quindi - va fatto notare subito che il carrozzone mediatico messo in scena ieri non è poi così diverso dallo stile comunicativo della società, che pubblica lunghe lettere sul proprio sito come fosse The Player’s Tribune e fa intervistare il nuovo allenatore dal proprio ufficio stampa. Per quanto quella di Totti sia stata una manifestazione di potere era evidente anche la componente genuina di frustrazione. Se vogliamo discutere di quanto sia stato surreale lo spettacolo di Totti, del tutto autoreferenziale nonostante le quasi 70 domande successive alla dichiarazione vera e propria (chiusa con un «vabbè, i titoli ve lo ho dati tutti»), dobbiamo parlare anche del fatto che inizia ad essere inquietante che Franco Baldini non esca allo scoperto, dopo essere stato tirato in causa prima da De Rossi, poi da Ranieri e adesso da Totti, anche se senza nominarlo mai (neanche Baldissoni ne ha parlato né gli è stato chiesto niente in proposito da Angelo Mangiante nell’intervista di poche ore fa a Sky). Se è lui che decide tutto, perché non dirlo ed evitare di venire tirato per la giacchetta al centro della piazza?
In fondo, poi, far felice Totti era un dovere della Roma. Non basta dire, come ha detto la società (e se volessi avvicinarmi i tifosi più oltranzisti userei il tanto odiato azienda) nel proprio comunicato di risposta, che la sua versione dei fatti non coincide con la realtà. E proprio perché non basta la società allude a un possibile complotto, con Totti che ha aperto la strada a una proposta di acquisizione: questo livello del discorso è talmente grave che fuoriesce dalle intenzioni di questo pezzo. Perché è vero, come ha detto poco fa Baldissoni, che «va fatta una riflessione sul percorso non facile e rapido da icona a dirigente», ma è vero anche che c’è una contraddizione di fondo nell’offrirgli un ruolo da Direttore Tecnico, così importante, e poi di fatto non invitarlo alle riunioni. «È una sconfitta di tutti», ha detto Baldissoni, e salvo immaginare un complotto vero e proprio, o un momento di pazzia particolarmente lucida di Totti che ha trovato parecchie sponde, non si può non tenere conto degli errori della Roma.
Insomma, il gesto di Totti non era puramente simbolico, autodistruttivo. Qualcosa voleva dire, qualcosa voleva ottenere. Ma cosa? Totti ha mischiato registri diversi: quello sentimentale da tifoso («Oggi potevo anche morire»), quello pragmatico (quando dice che è pronto a tornare con un’altra proprietà perché «la Roma è stimata in tutto il mondo e tutti la vorrebbero prendere»), quello paranoico («ci sono alcune persone che non mi vogliono là dentro»). Ha sovrapposto il piano personale a quello più generale possibile: «Ci sono tante persone dentro Trigoria che fanno il male della Roma e non il bene». In moltissimi punti il discorso di Totti coincide con un discorso che a Roma si sente da anni, confermando le peggiori paure di parte dei tifosi: «È stato sempre un pensiero fisso di alcune persone togliere i romani dalla Roma. Alla fine sono riusciti a ottenere quello che volevano».
Quindi, le cose sono due: o qualcuno ha suggerito a Totti questa retorica contraria alla società americana che a Roma si sente un po’ ovunque (per capirci: sotto casa mia, da un paio d’anni, c’è la scritta Pallotta $qualo) perché sapeva di colpire dove faceva più male; oppure Totti a quelle cose ci crede veramente. È ironico che Totti abbia accusato Pallotta di essere consigliato male quando una delle cose che a Roma si dice da sempre su Totti è che si fa manipolare dalle persone che ha intorno. D’altra parte, se Totti pensasse veramente che «la romanità», sua o di De Rossi, unita al suo passato da giocatore, sia sufficiente per avere l’ultima parola su qualsiasi decisione, allora non c’è nessuna contraddizione nel suo ragionamento.
Allora Totti può esprimersi in maniera così polare dopo aver detto, all’inizio, di non voler creare spaccature nel tifo, delle fazioni. Non c’è contraddizione, per Totti, quando dice: «Non è colpa mia», anche se è lui che ha deciso di andarsene e lo sta facendo con una conferenza stampa trasmessa in diretta nazionale, perché la Roma è sopra tutto, e solo lui sa quale è il bene della Roma, nella Roma. Non lo sa di certo James Pallotta, che è lontano e in fondo è pur sempre un americano a Roma. Non lo sa Franco Baldini, che vive a Londra e in teoria è un semplice consulente. Significa anche che se non ascolti Totti, secondo Totti, stai facendo il male della Roma, mentre Totti non può fare il male della Roma, qualsiasi cosa faccia. Totti può chiedere tutto il potere e se gli viene rifiutato, magari in modo furbo, tenendolo all’oscuro da alcuni processi, dandogli un contentino ogni tanto, allora la colpa non è sua. Perché d’accordo che «i presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano», ma «le bandiere non passano». Francesco Totti pensa di essere un’eccezione: può anche lasciare la Roma, ma non la sta lasciando veramente perché lui è la Roma.
In fondo è sempre lo stesso paradosso di quando era calciatore: niente è più importante della Roma, ma non è pensabile una Roma senza Totti. E oggi che se ne è andato, così male, se ne è portato via un pezzo. La Roma continua ad esistere, con un suo proprietario, un nuovo allenatore, con dei giocatori e dei tifosi che, nonostante tutto, la tiferanno, persino Totti dice che la tiferà. Ma non sarà la stessa cosa. Non importa più chi ha veramente ragione, se Totti non è stato coinvolto abbastanza, o se è stato lui ad avere fretta nel ritagliarsi un potere sempre più grande. Per i tifosi romanisti la frattura è dolorissima e insanabile. A rimetterci, alla fine, sono sempre loro.
Temo che sullo sfondo ci sia un duplice fraintendimento. Da una parte parlo di quel ruolo che astrattamente possiamo chiamare di “bandiera”, ma che nel concreto, dal punto di vista delle società, somiglia di più a un parafulmine. Ruolo che Totti ha svolto fin troppo a lungo, da quando la Roma non vinceva niente nonostante Totti. E se oggi Totti ha aperto gli occhi, be’, non è mai troppo tardi per smetterla di fare il cartonato di se stesso. Anche se lo ha fatto perché non è più nei suoi interessi, o perché non voleva più mettere la sua di faccia davanti ad errori fatti da altri.
Dall’altra parte, però, anche Totti sembra aver frainteso il suo potere simbolico, che era suo malgrado se stesso, che in un certo senso va al di là di Totti, con un potere reale, provando a trasformare l’amore dei tifosi per lui in qualcosa di concreto, di convertibile al momento opportuno. Il momento è questo, Totti non si è staccato solo dalla società ma anche dal suo ruolo passato, quello che bene o male ha tenuto per decenni. Adesso deve fare qualcosa per conto suo, e dimostrare di non essere stato solo un romano impulsivo, che fa le questioni di principio, magari persino ingrato. Che sia tornare da conquistatore, o lavorare da qualche altra parte e costruire qualcosa di suo, per la prima volta Francesco Totti sarà solo.