‘Kappa Icons’ è una rubrica di Ultimo Uomo realizzata in collaborazione con Kappa. Lo storico brand di Torino ci ha aperto le porte del proprio archivio, chiamato Basic Gallery, e ci ha permesso di tirare fuori le maglie e di portarle per le strade. Abbiamo raccolto le maglie di 4 giocatori iconici che hanno indossato Kappa. Le abbiamo portate a Milano, Torino, Genova e Roma. Le abbiamo fatte toccare e indossare a chi quelle maglie ha dato un significato: i tifosi.
Abbiamo parlato con loro, facendoci raccontare le storie e le memorie che nascono da queste maglie, e dai giocatori che le hanno indossate, concentrandoci su una stagione in particolare.
Nelle prime tre puntate siamo stati a Genova, Milano e Torino nei luoghi di Gianluca Vialli, Marco van Basten e Alessandro Del Piero. Stavolta andiamo a Roma per incontrare la parte giallorossa della città e parlare di Francesco Totti, capitanom icona e bandiera, e della sua stagione 2000/01, quella dell'ultimo scudetto della Roma. quando era all’apice della forza e della popolarità. Tutte le fotografie sono di Giuseppe Romano.
Francesco aveva sette anni e non era sicuro di cosa stesse succedendo. Il padre, con cui aveva guardato Quelli Che Il Calcio per venire informato del risultato della partita, a un certo punto gli aveva detto: «Adesso stiamo 2-0. Se segniamo il 3-0, usciamo». Poco prima del quarto d’ora del secondo tempo Montella, con un bel destro a giro, segna il terzo gol e Francesco e il padre stanno per uscire quando vedono che l’arbitro lo ha annullato per fuorigioco. Devono aspettare un altro quarto d’ora e arriva il vero e proprio terzo gol, quello di Gabriel Omar Batistuta, che entrato in area dal lato destro ha calciato rasoterra di sinistro a filo del primo palo. «Quindi usciamo e arriviamo in piazza, piazza Clemente XI a Primavalle. Completamente vuota. Allora io dico: papà, ma sei sicuro che abbiamo vinto lo scudetto?».
Era il 17 giugno 2001 e sì, la Roma quel giorno aveva vinto il suo terzo scudetto. Francesco e il padre erano scesi in strada quando mancava ancora un quarto d’ora. Hanno avuto fretta di festeggiare (si sono persi il 3-1 del Parma, del laziale Di Vaio) come quei tifosi che all’Olimpico hanno quasi invaso il campo prima del fischio finale, facendo imbestialire Fabio Capello. «Poi a un certo punto sentiamo un boato, come se mille persone si fossero messe d’accordo per urlare nello stesso momento. E la piazza si è riempita, perché era finita la partita. È successo il finimondo, ricordo i fumogeni, i petardi esplosi nei secchioni dell’immondizia e gli autobus fermi perché la piazza era completamente bloccata».
Chi tifava Roma in quella magnifica stagione 2000/01 ricorda esattamente quel giorno. Dove era, con chi era, come ha festeggiato. E ricorda Francesco Totti più di ogni altra cosa. Francesco Totti con la fascetta bianca, poco più di un laccio per le scarpe, che gli tiene indietro i capelli biondissimi, quasi da surfista californiano. Francesco Totti che carica il tiro prima ancora che Vincenzo Montella faccia il velo. Francesco Totti che calcia di collo destro, leggermente ingobbito per tenere la palla sotto la traversa, lasciando Buffon immobile, uno spettatore tra tanti altri della grandezza di Francesco Totti e di quella Roma. E poi, ancora, Francesco Totti che corre agitando la maglia - la Kombat rossa che per sempre i tifosi romanisti collegheranno allo scudetto, la maglia elastica che evidenziava le trattenute avversarie, i muscoli dei calciatori, le pance e le maniglie sui fianchi dei tifosi - come se volesse rinfrescarsi, e che poi se la toglie restando a torso nudo. Francesco Totti che scavalca i cartelloni pubblicitari e corre sotto la Curva Sud mezzo nudo, con la fascia da capitano gialla al braccio e la maglia stretta nella mano. Francesco Totti che ha sbloccato l’ultima partita, decisiva, con il Parma, all’Olimpico; Francesco Totti che ha segnato il gol dello scudetto.
Della stagione 2000/01 di Totti trovate anche la puntata di Icone.
«Totti è la luce sui tetti di Roma», ha detto nel 2016 l’allora Direttore Sportivo Walter Sabatini. In qualsiasi altra città al mondo, parlare in quel modo di un giocatore, per quanto importante, sarebbe suonato esagerato, retorico, ruffiano. A Roma invece, alle orecchie dei tifosi romanisti, è suonata come una frase poetica ma del tutto normale, assolutamente in linea e proporzionata a quello che loro pensavano di Totti. Ancora oggi, sette anni dopo il suo ritiro dal calcio giocato, se vi prendete un pomeriggio o una serata e andate in giro a chiedere ai romani e romanisti cosa rappresenta Totti per loro - io l’ho fatto - otterrete risposte come: «Totti è stato un alieno mandato da chissà quale parte dello spazio, donato alla Roma». «Vedere Totti giocare era un’esperienza mistica». «Totti era un orgoglio, come un monumento. Quando andavi in giro ti dicevano: Roma? Totti!!». «Che devo dire di Francesco? Sublime».
A Roma può capitare di sentire per caso, fuori dallo stadio Olimpico prima di una partita con il Cagliari che finirà quattro a zero, una coppia di amici sui quaranta discutere animatamente di quali siano stati i migliori capitani della storia giallorossa. «Secondo me il più grande capitano della storia è stato Giacomino Losi, anche se non l’ho vissuto». Giacomino, perché a Roma anche le cose remote, o appunto passate (“non l’ho vissuto”) possono comunque essere intime. «Sicuramente tra i primi quattro ci sono Fulvio Bernardini, Losi, Totti e Agostino». Di Bartolomei, non c’è bisogno di specificarlo in quel contesto. «Ma Francesco oltre ad essere stato un grande capitano è stato anche il più grande giocatore della storia della Roma». Questa è l’eccezionalità di Totti: che non solo è stato uno dei più amati e rappresentativi, se non “il più” di tutto, ma che considerando qualsiasi altro giocatore che abbia vestito la maglia giallorossa, considerandolo nel proprio picco anche con maglie diverse, è difficile trovarne uno più forte di lui. Quante altre tifoserie hanno vissuto una cosa del genere, per tutti quegli anni che i tifosi romanisti hanno avuto Totti?
Francesco, che non è Totti ma il bambino di sette anni che non capiva se la Roma aveva vinto sul serio il campionato o se il padre si fosse sbagliato - forse, seppur così piccolo, si era reso conto di quanto fosse eccezionale un evento del genere - molti anni dopo finirà col tatuarselo, Totti. «Il mio primo tatuaggio. Quando l’ho fatto a un certo punto ho avuto paura. Perché comunque un tatuaggio ti resta tutta la vita. Però poi mi sono detto che non è che io dimenticherò mai Totti, per cui è giusto così». Quel tatuaggio Francesco se l’è fatto nel gennaio 2015, quasi quattordici anni dopo lo scudetto, e Totti ancora giocava. Anzi, pochi giorni dopo Totti è entrato in corsa in un derby che la Roma perdeva 2-0 e ha segnato due gol, il secondo con una specie di mezza rovesciata volante indimenticabile. Lo ha segnato sotto la Sud e poi si è anche scattato un selfie con i tifosi sullo sfondo.
Tra cui c’era anche l’altro Francesco, rotolato una decine di file più in basso rispetto a quella dove stava guardando la partita, nell’esultanza. «Mi sono rialzato che non mi ricordavo più come mi chiamavo, dove stavo. Ricordavo solo che Totti aveva segnato».
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Foto di Giuseppe Romano.
Ma torniamo alla stagione dello scudetto, quella in cui, come ha detto Totti nella sua autobiografia (Un Capitano, scritta con Paolo Condò): «comincio a costruirmelo, questo capitale di stima». Anche se oggi la ricordiamo come una cavalcata trionfale e inevitabile - e in parte in effetti lo è stata - non era iniziata nel migliore dei modi. La stagione precedente, tanto per cominciare, la Lazio aveva vinto lo scudetto (con 18 punti di vantaggio sulla Roma, sesta). La pressione dei tifosi era esplosa, come lo champagne che esce dal collo della bottiglia quando il tappo di sughero schizza via, durante l’addio al calcio di un’altra leggenda giallorossa, un altro capitano, Giuseppe Giannini. L’invasione di campo, le porte divelte e il manto erboso strappato.
Poche settimane dopo Totti ha giocato un grande Europeo, suggellato dal “cucchiaio” a van Der Sar e dal tacco con cui smarca Pessotto in occasione del gol di Delvecchio contro la Francia - in generale ha giocato una finale sontuosa, creando almeno due altre occasioni da gol limpide sprecate da Del Piero e Delvecchio - ma con l’ultimo tiro della partita Wiltord ha pareggiato i conti e poi, nei supplementari, Trezeguet ha decretato la “morte improvvisa” dell’Italia.
Quell’estate la Roma, appena entrata in borsa, aveva acquistato giocatori che lasciavano ben sperare: Walter Samuel, Jonathan Zebina, Emerson (seppur infortunato, sarà fondamentale poi nella seconda parte di stagione) e ovviamente Gabriel Omar Batistuta. Ma a settembre la Roma si fa eliminare in Coppa Italia dall’Atalanta, sprecando e pareggiando in casa (1-1) e perdendo malamente (4-2) a Bergamo, al ritorno. I tifosi avversari si divertono a cantare a quelli romanisti: «Serie B, Serie B». Dopo la sconfitta qualche centinaio di tifosi assedia il centro di allenamento romanista, prendendo a calci le auto dei calciatori, tirando uova e persino pesce. Danno dello “schiavo di Berlusconi” a Fabio Capello e a Totti dicono di «mostrare gli attributi, non ci incantate più». Secondo la Gazzetta qualcuno gli rinfaccia lo scudetto laziale e lui risponde: «E che possiamo farci noi se loro sono forti?». Il Corriere dello Sport titola: «Inferno a Trigoria».
Per fortuna quell’anno il campionato inizia molto tardi, a fine settembre, per via dei Giochi Olimpici, e la squadra di Capello ha il tempo di trovare un’identità a poco a poco. All’esordio all’Olimpico, contro il Bologna, la Roma viene contestata. Finché Totti segna il primo gol romanista del campionato, poco prima della fine del primo tempo, colpendo di testa in mezzo a un’area affollata una punizione laterale di Assunçao. La Roma vince le prime tre partite senza brillare particolarmente - persino a Lecce, nella seconda giornata, rischia più volte di andare sotto nel punteggio prima di dilagare e vincere 4-0 - e poi perde a Milano con l’Inter (2-0), fallendo il primo vero test.
Il Corriere della Sera scrive che con il Milan Totti è “incerto” e “mai trascinante”, ma nonostante la sconfitta Fabio Capello vede i primi segnali positivi e a fine partita davanti ai microfoni sostiene che «proprio qui ho capito che siamo da scudetto». Oltretutto in quella stessa giornata la Juventus aveva perso e davanti alla Roma in classifica c’erano solo Udinese e Atalanta. Difatti la Roma vince altre due partite e si ritrova, dopo sei giornate prima in classifica da sola. Capello deve passare di colpo a discorsi tesi a mantenere l’ambiente tranquillo: «Lo sapete, io amo la politica dei piccoli passi». Totti è meno diplomatico: «Là davanti, in attacco, facciamo veramente paura».
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Foto di Giuseppe Romano.
La Roma continua a vincere e a inizio dicembre dopo nove giornate ha già sei punti di vantaggio sulla Juventus. A Trigoria tornano centinaia di persone per gli allenamenti, ma stavolta sono persone felici. Dopo dieci giornate, contro l’Udinese, arriva l’ottava vittoria in dieci partite. Quel giorno allo stadio c’erano Platini, Beckenbauer, Pelè e Maradona, venuti a Roma per il premio FIFA al calciatore del secolo (vinto da Pelè e Maradona in condivisione) e sotto i loro occhi Totti ha pensato bene di segnare uno dei suoi gol più belli di sempre.
All’altezza dell’area di rigore Cafù mette dentro un cross morbido per Totti che si sbraccia sul lato opposto, la “traiettoria ad arcobaleno” della palla, come la descriverà poi lui stesso, cade sul suo piede in teoria più debole, il sinistro, da cui esce fuori un tiro teso e violento, incrociato sotto l’incrocio opposto, su cui il portiere dell’Udinese, Turci, non fa in tempo ad arrivare. Totti si tira la maglietta sulla testa, come un cappuccio, scoprendo la canottiera. Nella stagione precedente nel derby, aveva mostrato ai tifosi laziali la scritta: «vi ho purgato ancora». Stavolta non c’è niente sulla maglia della salute e Totti corre a braccia larghe mandando baci verso la tribuna.
Repubblica scrive: «Dicono che sia l'anno della Roma, perché è l'anno della definitiva affermazione di Francesco Totti. Dicono che il capitano non sia mai stato così forte e soprattutto così continuo. A guardare il successo dei giallorossi sull'Udinese e a guardare soprattutto il gol del numero dieci, dicono bene».
Questo è uno dei gol preferiti della stagione 2000/01, uno di quelli che ha lasciato il ricordo più vivido in molte delle persone con cui ho parlato per scrivere questo pezzo. Uno di quei pochi gol - quanti? Una mezza dozzina, una decina al massimo per ognuno di noi - che basta chiudere gli occhi per rivederlo come se stesse succedendo di nuovo in quel momento. «Lui ha fatto molti gol pazzeschi di sinistro», ricordano Damiano e Valerio, due amici sulla trentina originari di San Giovanni, la stessa zona dove è cresciuto Totti. «Quello sempre al volo con la Sampdoria, certo (nel 2006, ndr) ma anche quello a Buffon in pallonetto dal limite dell’area (stagione 1997-98 ndr)».
In particolare però ne ricordano uno fatto sempre all’Udinese, due anni prima con Zeman in panchina, calciando in modo simile, di collo sotto la traversa, una palla che rimbalzava in area di rigore. «Quello lo segnò sotto la Curva Sud, mentre quello dell’anno dello scudetto lo segnò sotto la Nord», dice Damiano, perché il livello di dettaglio a cui arrivano i tifosi romanisti quando si parla di Totti è massimo. Poi aggiunge: «Quello con Zeman non l’ho visto in diretta, l’ho sentito alla radio. E ricordo ancora l’attesa di rivedere quel gol che alla radio avevano detto essere incredibile».
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Famiglie romaniste. Foto di Giuseppe Romano.
Francesco Totti è al tempo stesso irraggiungibile e a portata di mano, divino e quotidiano. La costante in anni in cui il calcio e il nostro modo di viverlo sono cambiati repentinamente. Totti c’era nel calcio delle radio e c’era ancora in quello dei selfie e dei meme. Totti cresciuto giocando sulla scalinata della scuola elementare Manzoni, dove oggi una cancellata chiusa fuori dall’orario scolastico tiene tutti lontani. I suoi compagni si mettevano in cima alla scalinata, che percorrevano in orizzontale da sinistra a destra e poi, scendendo di qualche gradino, da destra a sinistra, fino a terra. Lui doveva colpirli uno a uno con dei palloni, come in un videogioco. Lo chiamavano “Paperelle” ed è stato lì che, quando aveva cinque o sei anni, si esprimeva il talento di Totti.
«Io andavo a scuola alla Manzoni da piccolo», ricorda Valerio. «I suoi genitori abitavano lì vicino e lo vedevo sul balcone, perché ancora stava a casa con loro. Noi lo chiamavamo dalla finestra della classe: Francesco! Francesco! E lui ci salutava con la mano». Tutti nel quartiere, chi più chi meno, lo conosceva o aveva un contatto con lui. Valerio aveva anche delle maestre in comune con lui, che per provare a togliere il mito, l’idolo, dalle teste di quei bambini, lo dipingevano come poco studioso. «Una dinamica un po’ triste», ma è vero che anche Totti stesso ammette di non essere stato molto presente in classe - tranne che nelle lezioni in cui si parlava dell’Impero Romano.
Il mondo degli anni ‘90 era più simile a quello in cui era cresciuto Totti un decennio prima rispetto a quello odierno. C’era una dimensione «assolutamente non metropolitana» a Porta Metronia, si poteva uscire e giocare per strada anche da piccoli, i negozianti ti conoscevano per nome e ti tenevano d’occhio. «Mia mamma per il mio compleanno mi portò un autografo di Totti che aveva avuto dal signore della lavanderia la cui moglie era amica di un’amica della mamma di Totti», ricorda ancora Valerio. «Quindi Totti era accessibile, ma segnato da quella diversità di talento che lo distingueva. Era talmente più grande di te, talmente più grande rispetto a quello che Roma aveva sempre avuto fin lì che era come un monumento vivente, come il Colosseo, ma lo potevi toccare, non era mai troppo lontano».
Francesco Totti è stato per più di vent’anni specchio e scudo della romanità, il figlio prediletto di una città troppo materna, difficile da lasciare come le vere madri. «Tendiamo con difficoltà a mettere la testa fuori», dice Damiano che ha vissuto qualche anno a Milano e negli Stati Uniti, «o a radicarci nei posti in cui andiamo». Il soprannome di Totti per anni è stato Pupone, un nomignolo ironico e cattivello che lo inchiodava all’età infantile, eterno coccolato da una parte ma, dall’altra, prigioniero. Come se a Roma non si potesse mai crescere veramente, come se lui non fosse del tutto cresciuto.
Ma Totti è sempre stato aderente a quell’ironia disincantata e un po’ cinica. Damiano lo paragona a Sergio Leone e a «quella romanità molto sincera, molto verace, scanzonata, ma anche autoironica. Magari meno consapevole rispetto ai romani che hanno viaggiato, che hanno visto il mondo, ma più autentica». Valerio dice che la romanità di Totti è quella della «battuta caustica che ti tira anche un po’ giù, no? Quella che anche una volta che hai fatto qualcosa ti dice: hai fatto, hai fatto… vabbè ma che hai fatto?». Lui lo avvicina ad Alberto Sordi per il modo in cui«a volte sembra fare o dire quelle cose che ci si aspetta da un romano. Incarna quel modello di romano troppo romano che fuori da Roma non piace ma in cui noi ci riconosciamo».
Sia Valerio che Damiano sono cresciuti con la Roma di Totti, non ne ricordano una precedente. «Per me la Roma e Totti erano totalmente sovrapponibili». Ma a conti fatti, dopo una carriera lunga e povera di soddisfazioni materiali, è Totti che ha dato di più alla Roma o la Roma a Totti? «Io penso che abbia dato più Totti alla Roma. Ho sempre pensato che non fosse possibile immaginare una Roma senza Totti, però poi quando ho visto quello striscione, il giorno dell’ultima partita: La Roma è Totti, allora ho capito. La Roma non era Totti, ma Totti è stato la Roma. Lui ha dedicato la sua carriera alla Roma, avrebbe potuto fare diversamente. Poi possiamo discutere sul perché non lo abbia fatto, per pigrizia o altro…».
Al ristorante "Vecchia Roma" nel quartiere Monti. Foto di Giuseppe Romano.
Francesco Totti è parte di Roma. Lo è in senso simbolico ma anche letterale: in giro per la città c’è più di un murales che lo ricorda, il più celebre dei quali si trova in una piccola stradina laterale senza uscita del primo rione del centro storico - se non sai dov’è puoi passarci magari anche vicinissimo senza vederlo. Il quartiere Monti, stretto tra via Nazionale e i fori imperiali, fino a non molto tempo fa era sconosciuto ai più ma negli ultimi quindici anni è diventato una piccola Trastevere, pieno di ristoranti e negozi e, nelle serate del fine settimana, difficile persino da attraversare a piedi. Il murales di Totti viene periodicamente vandalizzato e rifatto come nuovo e lo rappresenta - la sua silhouette nera sullo sfondo giallo del muro, con il rosso non lontano - mentre con la mano destra indica un punto nel cielo, la testa reclinata all’indietro.
L’immagine viene dall’esultanza per un gol segnato nel gennaio 2001 al Napoli (3-0, in quella partita torna anche a giocare Emerson). Nelle giornate precedenti la Roma era arrivata ad avere otto punti di vantaggio sulla Juventus di Ancelotti, vincendo il derby di andata grazie allo sfortunato autogol di Paolo Negro - colpo di testa piuttosto innocuo di Zanetti, respinta random di Peruzzi in tuffo, Nesta prova a spazzare in scivolata ma colpisce al corpo il compagno di difesa a pochi passi dalla porta - e pareggiando 0-0 proprio con la sua Juve di Van der Sar, a cui qualche mese prima aveva segnato il rigore col cucchiaio, aveva parato un diagonale di Totti con la punta del piede e poi aveva detto ai giornali di essere riuscito a parare «perché sono alto due metri e porto 45 di scarpe».
Capello non aveva voluto parlare di fuga e aveva fatto bene, perché dopo la vittoria con l’Atalanta, a Bergamo (2-0), in un campo di fango, la Roma ha pareggiato in casa con il Bari ultimo in classifica e perso a Milano con il Milan (3-2 con doppietta di un ispiratissimo Shevchenko). Ecco che i punti di vantaggio sulla Juventus da otto erano diventati appena tre. La vittoria col Napoli e quella successiva con il Parma sono servite a riprendere fiato e arrivare alla fine del girone d’andata in testa alla classifica. Una cosa rarissima per la Roma e per Totti, che per dei problemi muscolari deve saltare le prime partite del girone di ritorno, compresi gli ottavi di finale di Coppa Uefa in cui la Roma è stata eliminata dal Liverpool (la prima volta in cui le due squadre si sono affrontate nuovamente dopo la maledetta finale del 1984).
Quando Totti torna a inizio marzo la Roma arriva a sette vittorie consecutive e persino quando pareggia con la Reggina allunga di un altro punticino sulla Juventus, che perde con la Lazio. È una Roma in cui ognuno fa il suo, anche i comprimari. È tanto la Roma di Totti, Batistuta, Montella, Samuel e Emerson, quanto quella di Antonio Carlos Zago, Zebina, o di Tommasi - che quell’anno al Pallone d’Oro prenderà anche un voto - di Cristiano Zanetti. Persino chi gioca poco, come Assunçao, ha occasione per scrivere legittimamente il proprio nome su un pezzetto di scudetto: con due punizioni, una che entra direttamente e un’altra che sbatte sulla traversa e Montella mette dentro la porta vuota, decide la vittoria con l’Inter (3-2).
Montella è in perenne conflitto con Capello e approfitta di ogni occasione o assenza di Batistuta per ricordare la sua importanza. Proprio alla fine della stagione i toni si alzano - «Sono stufo, dirà a un certo punto» - ma è proprio entrando dalla panchina scocciato segnerà i suoi gol più importanti Quell’anno, semplicemente, va tutto bene alla Roma. Ci pensano persino i giocatori delle altre squadre ad aiutarla nel suo cammino verso la vittoria finale. Quando il primo aprile 2001 Roberto Baggio, con la maglia del Brescia, mette a sedere van der Sar con uno stop a seguire, e poi infila la porta vuota juventina, i punti di vantaggio tornano ad essere nove.
E così la Roma si può persino permettere di perdere a Firenze (partita giocata di lunedì per evitare l’invasione dei tifosi giallorossi, che l’hanno invasa lo stesso cantando: «Siamo tutti parrucchieri», perché notoriamente chiusi di lunedì) e di pareggiare in casa col Perugia (2-2). In quell’occasione Totti torna al gol e poi deve difendere Antonioli preso di mira dai tifosi dopo un errore grossolano - «Ma che state a fa? Siamo primi!», ha scandito bene Totti in direzione della curva. Si inizia a sentire la tensione, forse la paura di non vincere sta diventando più forte persino del desiderio di vincere: la Roma pareggia 2-2 un derby che stava vincendo 2-0, subendo il gol del pareggio nei minuti di recupero (il derby che oggi viene ricordato come «il derby di Castroman») ed è come se avesse perso.
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Al Roma Club Testaccio, al Bar de Cesaroni, al ristorante "Core de Roma" in Via Vetulonia, là dove è nato Totti. Foto di Giuseppe Romano.
Si arriva così, la settimana successiva, alla sfida decisiva. Quella del 6 maggio 2001, a Torino con la Juventus. I punti di vantaggio a quel punto sono sei, una sconfitta avrebbe rimesso tutto in gioco ma, in caso contrario, la strada per lo scudetto sarebbe stata in discesa. La Roma subisce due gol in sei minuti: assist di Zidane per Del Piero, che di testa anticipa Antonioli in uscita, e poi Zidane da fuori area. I giornali scrivono che a fine primo tempo i tifosi laziali sono usciti in strada per fare i caroselli. Fabio Capello a quel punto prende una decisione difficile.
Sostituisce un Francesco Totti che, seppur non in serata, ha pur sempre nei piedi il colpo estemporaneo che può decidere qualsiasi partita. E mette in campo Hidetoshi Nakata. «La sostituzione?», dirà Totti a fine partita. «Il risultato dà ragione a Capello». Il centrocampista giapponese accorcia prima le distanze con tiro da fuori su cui van der Sar, pur esteso al massimo, non arriva, perfettamente sotto all’incrocio, e poi con un altro tiro, stavolta sporco, forzato, il tiro della disperazione, costringe van der Sar alla respinta corta su cui si avventa Montella arrivando prima di Montero.
Nel centro di Roma si riversano duemila persone, salgono sul tetto degli autobus, c’è anche qualche atto vandalico. La Roma ha pareggiato 2-2 una partita che sembrava persa e che le avvicina lo scudetto, adesso davvero a portata di mano. E lo ha fatto senza Totti.
«Mi ricordo che Juve-Roma non l’ho vista, perché non avevamo la pay-tv, e la seguivo al Televideo», dice Angelo, che oggi gestisce un negozio di vestiti proprio a Monti, non lontano dal murales di Totti. «Avevo dieci anni e la Roma era l’unica cosa che mi faceva piangere. La Roma era sotto 2-0 e io era a casa di mia zia, che mi voleva bene come a un figlio, e mi consolava, mi diceva: Vedrai che la recuperate. E poi Nakata e Montella…».
Tommaso, da grande, ha incontrato Totti sul campo, nella sua seconda vita da calciatore di calciotto. Da avversario però è un’altra cosa: «Totti è uno che vuoi avere nella tua squadra, perché se ce l’hai contro lo odi. Io l’ho sempre vissuto come una fortuna, era una fortuna che giocasse proprio nella mia squadra. Non solo era un fenomeno tecnicamente, ma anche atleticamente, prima dell’infortunio (quello alla caviglia del 2006, ndr). E poi era proprio bello da vedere, col capello lungo, la fascetta, la maglia aderente, io ero bambino e lo vedevo come un eroe».
Anche Francesco, il tifoso con cui abbiamo iniziato questo racconto, ha visto - si fa per dire - la partita con la Juventus al Televideo. «Ero troppo piccolo per andare in bisca. Non sapevo bene come funzionasse ma sapevo che la Roma non doveva perdere. Mi ricordo di essere stato mezz’ora lì davanti ad aspettare che succedesse qualcosa, che cambiasse qualcosa nello schermo. E quando è apparso Nakata per il primo gol ho esultato, ma piano».
In quegli anni non tutti avevano l’abbonamento alla pay-tv e ci si riuniva nei pub o nelle sale biliardo (appunto, le bische) per vedere insieme le partite. I più fortunati avevano un Roma Club in cui incontrarsi. E dei Roma Club il più celebre è quello di Testaccio, creato nel 1969 e che da qualche anno ha dovuto lasciare la vecchia sede (dove era c’è un punto scommesse, sui muri sono rimasti un po’ di colori come reperti archeologici dell’anno dello scudetto) per spostarsi di qualche decina di metri.
Leonardo, il presidente, gestisce un ristorante di famiglia non lontano. Nella grande sala chiusa da un telone dove si proiettano le partite, c’entrano un centinaio di persone, settanta sedute il resto in piedi. Ancora oggi che le partite sono disponibili persino sul cellulare, lì bisogna trovare soluzioni creative per accontentare tutti: «Quando ci sono partite importanti apriamo le finestre, passiamo il cavo, attacchiamo il televisore e tutti per strada. Per la finale di Conference stavamo tutti là».
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Valerio al mercato Testaccio e Campo Testaccio, il primo campo della AS Roma. Foto di Giuseppe Romano.
Il club è decorato con foto e murales delle leggende del passato e del presente giallorosso. Un poster di Fulvio Bernardini. Un disegno a carboncino dedicato a Losi. Una foto di gruppo della Roma della stagione 1983/84, con lo scudetto del petto e Liedholm al centro del gruppo. Ritratti realistici di alcuni giocatori minori del terzo scudetto: Zebina, Delvecchio, persino Antonioli. Sul muro all’ingresso quattro ritratti intorno alla scritta: Figli di Roma. De Rossi che grida, Giannini con la sua aria malinconica, Di Bartolomei con lo sguardo che mira lontano, e poi ovviamente Francesco Totti. Perché è così importante per i tifosi avere giocatori di Roma e romanisti? «Forse pensiamo che ci tengano di più loro, e magari ci teniamo di più anche noi». Di Totti, in un angolo del muro, vicino ad alcune foto con i festeggiamenti dell’83, c’è anche una foto incorniciata, semplice, come se fosse una foto di famiglia.
«Juventus-Roma è la partita che ci ha attaccato lo scudetto sul petto. Perché perdi 2-0 dopo un quarto d’ora e pensi: che sta succedendo?. Totti quella partita uscì ingrugnito, non aveva visto palla eh». Dopo la trasferta di Torino mancano cinque partite: la Roma vince con l’Atalanta (1-0: il gol della vittoria di Montella è arrivato ancora una volta dopo che Totti è stato sostituito), vince con il Bari (1-4), ma pareggia in casa con il Milan (il gol che evita lo sconfitta è ancora una volta di Montella, che scavalca il portiere milanista, Sebastiano Rossi, alto quasi due metri, con un pallonetto che ha messo i brividi ai tifosi giallorossi) e poi si gioca il primo match-point con il Napoli neopromosso che veniva da due stagioni in B e che, in caso di vittoria romanista, ci sarebbe tornato subito.
A Napoli la Roma va in svantaggio per la dodicesima volta in stagione, poi pareggia e Totti segna il gol del momentaneo 2-1, schiacciando a terra un cross arretrato di Cafu, con un controllo di petto spalle alla porta per cui i giocatori del Napoli chiedevano il fallo di mano, girandosi e scagliando la palla in porta con un tiro secco di destro. Sarebbe potuto essere il gol dello scudetto e Totti lo ha festeggiato proprio come se lo fosse stato, come poi farà contro il Parma una settimana dopo: si toglie la maglia e corre sotto ai tifosi. Poi però Pecchia calcia una punizione dal limite che passa in mezzo alla barriera, tesa e bassa, e si infila tra le mani di Antonioli. 2-2: il Napoli si è salvato ma solo per il momento, retrocederà la settimana successiva e dovrà aspettare il 2007 per tornare a giocare in Serie A (con in mezzo anche un fallimento).
A posteriori molti tifosi romanisti pensano che sia stato meglio così, almeno la festa è scoppiata in casa. Nella settimana che ha preceduto Roma-Parma, però, qualcuno ha dormito sonni agitati. E se fosse successo quello che era successo con il Napoli? In fondo a quel punto la Juventus era distante appena due punti. «Li capisco, non ne abbiamo tante a favore di queste cose», dice Leonardo. «Tra coppe e scudetti persi ce n’è, nei modi più assurdi. Vedi Roma-Lecce (stagione 1985-86, la Roma prima in classifica a pari punti con la Juventus perde la penultima partita in casa contro il Lecce già retrocesso ndr) o Roma-Sampdoria (stagione 2009-2010, la Roma di Ranieri che ha superato l’Inter di Mourinho perde 2-1 in casa con la Sampdoria di Pazzini, ndr). Su questo gli do ragione».
Lui però non aveva dato retta alla scaramanzia. «No, io dopo Juventus-Roma ho detto basta, è fatta. Quindici giorni prima di Roma-Parma avevo già messo uno striscione in mezzo alla strada: Roma ha vinto. La gente che passava mi diceva: “Ao’ leva sto striscione”. Io rispondevo: “Abbiamo vinto, non vi inventate niente…». Damiano invece era tra quelli che temevano un ennesimo sgambetto all’ultimo momento: «La sensazione che mi ricordo di quel giorno è che non ce l’avremmo mai fatta. È durata fino al momento in cui Capello rimanda tutti indietro perché altrimenti avrebbero fatto invasione prima della fine».
Come anticipato - come sanno tutti - con il Parma la paura è durata poco. Il gol di Totti è arrivato al 18esimo minuto di gioco e più che una liberazione è stata una conferma. Il gol all’amico Buffon segnato quel 17 giugno 2001 è «quel che resterà di me nel tempo», scriverà Totti nella sua autobiografia, quasi venti anni dopo. «Il mio messaggio ai tifosi della Roma del futuro. Io sono stato questo. Io sono stato il gol dell’1-0 nella domenica più importante della nostra storia».
Una domenica di sole, calda ma non caldissima, che i romanisti ricordano nei dettagli - io, ad esempio, avevo vent’anni e ricordo la strada che ho fatto con il motorino per andare in centro, i quartieri in cui sono passato come se in una specie di lunga notte di capodanno passassi da una casa all’altra, da una festa all’altra. «Noi ci eravamo trasferiti pochi anni prima a Roma», ricorda Angelo «e il giorno della festa avevamo ancora la macchina targata Torino. Mio padre era impanicatissimo, aveva paura che ce la distruggessero. Allora ci siamo messi in dieci su una macchina scappottata del padre di un mio amico».
Tiziano lavora in un ristorante sempre a Monti ed è quasi coetaneo di Totti. Fin da piccolo andava allo stadio: «Sempre abbonato. Se mi promuovevano alle medie mio padre mi chiedeva: che vuoi come regalo? L’abbonamento. Quando si giocava alle tre di pomeriggio io andavo allo stadio alle dieci del mattino». Dopo la festa successiva alla partita col Parma ci fu la festa organizzata dalla società al Circo Massimo una settimana dopo, il 24 giugno, quella con Venditti e Sabrina Ferilli, che aveva promesso di spogliarsi e poi invece restò in biancheria intima. Un milione o più persone, si dice, lì dove si dice sia avvenuto il ratto delle Sabine, e dove nell’antichità si festeggiava con corse di cavalli e asini. Ma il confine tra passato e presente, antico e moderno, a Roma è sfumato, ibrido, per questo quel giorno i tifosi romanisti si arrampicarono fin sulle rovine dell’impero per vedere meglio il palco della festa. «Io per stare in prima fila, quel giorno, sono andato al Circo Massimo alle tre di notte».
«La festa durò un mese», ricorda uno dei due amici sulla quarantina che ho incontrato fuori dallo stadio mentre classificavano i migliori capitani della storia della Roma. «Un mese di festa. Io qualche giorno dopo ho incontrato Capello e Baldini a pranzo in un ristorante a San Lorenzo, ancora c’ho le foto». «Non ho dormito per una settimana», ricorda invece Tiziano. «Ho ancora i brividi se ci penso. La cosa bella è che dopo lo scudetto, anche mesi dopo, se suonavi perché magari c’era una macchina in doppia fila la gente ancora rispondeva, i passanti pensavano che suonavi per festeggiare e suonavano anche loro. Per un anno, tutte le domeniche a festeggiare».
Qualcuno pensava fosse persino troppo. «Dice siete i soliti romani», commenta Leonardo, «No, siamo romanisti, vinciamo poco e quel poco che vinciamo lo festeggiamo». Lui ricorda che quel mese gli incassi del suo ristorante a Testaccio andarono particolarmente bene: «Tutti i giorni, per un mese, la gente entrava e partiva: Blu è il tuo colore, il calcio è il nostro gioco, questo scudetto è durato poco poco, alza gli occhi al cielo e guarda sta città, è tutta giallorossa e te ne devi anda’!». Coro, ovviamente, rivolto ai tifosi laziali che hanno visto passare il tricolore dalla loro maglia a quella degli arcirivali, per questo che i romanisti lo chiamano anche lo “scucetto”.
Se si è festeggiato in quel modo era anche perché i romanisti sapevano quanto fosse raro e, in fondo in fondo, sospettavano sarebbe stato difficilmente ripetibile. Una festa che era di pura gioia, una felicità trattenuta troppo a lungo, ma anche già malinconica, a suo modo effimera. Forse non c’era voglia di farla finire proprio per il pensiero che chissà quando sarebbe capitato di nuovo. Questo, nonostante la squadra avesse del potenziale per vincere ancora negli anni successivi.
«Per me c’erano tre scudetti consecutivi da vincere. E sono stati risultati con squadrette, pareggi ridicoli, a toglierceli», riflette Leonardo come se si parlasse di qualcosa ancora di attualità. «Non capisco perché qui non si riesce a creare un ciclo come da altre parti. Anche per la Lazio, uguale. E se ci pensi anche nell’84, persa quella finale si è sfasciato il giocattolo. Falcao è andato via, Pruzzo non rientrava nei piani di Eriksson… si è chiuso un ciclo». Anche per Tiziano si poteva fare meglio: «La Roma era forte quell’anno ma quello successivo, con Cassano, per me era ancora più forte. Hai vinto uno scudetto e una supercoppa (ad agosto 2001, 3-0 contro la Fiorentina ndr) quando per due o tre anni di seguito potevi vincere».
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Allo stadio. Foto di Giuseppe Romano.
Sportivamente parlando, la fine di quella storia si può indicare nella partita con il Real Madrid, il ritorno in Champions League dopo la finale persa quasi vent’anni prima, giocata all’Olimpico in un clima surreale l’11 settembre 2001. La Roma perse 2-1 e Totti segnò l’unico gol giallorosso su rigore. Quel giorno, anche se non potevamo saperlo, al massimo intuirlo, stava cambiando il mondo e anche la Roma. Nei nove anni successivi la Roma arriverà seconda in campionato addirittura sei volte, vincendo solo un’altra supercoppa e due coppe Italia. Lo scudetto 2000-2001 rimarrà come unica prova di una grandezza che i romanisti hanno percepito come molto superiore a quello che in realtà è stato. La festa in questo senso valeva anche per le vittorie che non sarebbero arrivate dopo, un risarcimento anticipato.
Guardando le foto di quel giorno sembra passata una vita e in effetti è così. Edoardo Bove, il romanista più giovane nella rosa della Roma di quest’anno, non era ancora nato quel 17 giugno 2001. Di quella stagione ha visto solo video e foto. Ha sentito solo racconti, come quelli che ho raccolto qui. Daniele De Rossi, che oggi la Roma l’allena, in quella stagione non aveva ancora esordito in prima squadra. Eppure quando i romanisti ripensano a quel giorno, a quell’anno, sembra ieri.
Sono ricordi che ci porteremo dietro per il resto della nostra vita, probabilmente, con cui annoieremo i nostri figli e i nostri nipoti cercando di trasmettergli il valore di cose ormai lontane, sbiadite. «Mio padre il giorno dello scudetto si è presentato a casa con due biglietti per Roma-Parma», ricorda Damiano. «La partita era esaurita ovviamente, quindi c’è un momento di grande esaltazione. Per poi però scoprire che i biglietti erano falsi. Lui sarebbe stato disposto a provarci, ad andare allo stadio con il rischio di rimanere fuori. Io da quindicenne che non amava il rischio ho detto no, mi voglio vedere la partita. Ce la vediamo a casa. E così io ho ancora questi due biglietti falsi di Roma-Parma non staccati, che non abbiamo usato, e che mio padre avrebbe usato».
Una piazza vuota in cui il padre porta il figlio troppo presto, dei biglietti falsi inutilizzati. Sono racconti come quello di Francesco, o come questo di Damiano, che i romanisti si tramanderanno per tenere vivo il senso di incredulità, di impossibilità di quella stagione, che però è stata veramente possibile, è successa davvero. Se poi servisse una prova, la certezza che non è la memoria ad averci fatto un brutto scherzo, allora basta ricordare Francesco Totti con i capelli lunghi e la fascetta; Francesco Totti che si toglie la maglia, Francesco Totti che guarda il cielo, Francesco Totti bellissimo e fortissimo come nessuno era mai stato prima di lui con la maglia della Roma addosso, come nessuno lo sarà più chissà per quanto tempo ancora.