E quindi, cosa si prova a diventare campione dei Pesi Massimi dell’UFC a 34 anni, dopo attraversato due continenti su mezzi di fortuna e aver iniziato ad allenarsi seriamente a 27 anni, in uno sport che neanche conoscevi? «Oh Joe», ha risposto Francis Ngannou a Joe Rogan, dopo l’incontro con cui ha finalmente conquistato la cintura, «non so se riesco a trovare le parole». Anche l’inglese è una lingua che ha imparato tardi, tutta insieme, in cui oggi riesce ad esprimersi pienamente, così come la sua performance di sabato notte contro Stipe Miocic, il campione più longevo nella storia dei Massimi UFC, è stata finalmente piena, completa sotto tutti i punti di vista. Non una delle sue tante vittorie all'inizio, ottenute nei primi trenta secondi del match, al primo o secondo colpo arrivato a destinazione (come se ci fosse qualcosa di male), no, come si dice in questi casi: non ha lasciato dubbi, ha risposto a tutte le domande che ci faceva su di lui. E dopo una breve pausa ha risposto anche alla domanda che gli faceva Joe Rogan, nell’intervista post-match. Come ci si sente a diventare campione dopo tutto quello che ha passato lui? «Volevo provare alle persone che dubitavano di me, che pensavano fossi inferiore, che...ehm…insomma, che non era colpa mia. Che se ne avessi avuto l’occasione avrei fatto qualcosa di grandioso».
Pochi minuti prima, in effetti, qualcosa di grandioso lo aveva fatto. Almeno nei limiti della breve storia delle MMA contemporanee. Sconfiggendo Miocic è diventato il primo campione africano della storia dei Pesi Massimi UFC, il terzo campione africano attualmente in carica (fino a due anni fa erano zero). Ma forse è ancora più “grandioso” il fatto che ci sia riuscito al secondo tentativo, contro un fighter che appena tre anni fa gli aveva dato una lezione lunga cinque round. E va bene che Miocic ha cinque anni più di lui, e che nel frattempo aveva combattuto quasi un’ora in totale, nei tre incontri (il primo perso, gli altri vinti) con Daniel Cormier, mentre Ngannou è rimasto nell’ottagono meno di tre minuti negli ultimi quattro incontri combattuti e vinti, ma nessuno avrebbe immaginato che un simile miglioramento fosse possibile. In fondo quando avevano combattuto la prima volta Ngannou aveva già 31 anni. Oltretutto, sei mesi dopo, aveva perso di nuovo contro Derrick Lewis, tirando pochissimi colpi, sembrando ancora sotto shock, fuori posto, finito.
Il momento in cui per tutti è stato chiaro che stavolta le cose sarebbero andate diversamente è arrivato dopo un minuto e quaranta del primo round, quando Stipe ha provato il cambio di livello, puntando alla gamba destra di Ngannou per portarlo a terra, che però ha resistito, è rimasto in equilibrio, si è appoggiato alla parete e poi ha schiacciato Miocic al tappeto col petto, facendo scivolare le gambe all’indietro e finendogli con tutto il peso sulla parte alta della schiena (una tecnica da wrestling che si chiama “sprawl”). Da lì, gli ha girato intorno finendogli alle spalle, lo ha sbattuto a terra – lui ha sbattuto a terra Miocic, non il contrario come tre anni fa – e infine lo colpito con alcuni pugni che hanno scosso la sua testa come una pallina da tennis in mezzo alle onde. A quel punto era chiaro che Ngannou, l’uomo più pericoloso al mondo, non avrebbe passato venticinque minuti con la schiena al tappeto, impotente.
Il resto è venuto di conseguenza. Dopo neanche un minuto della seconda ripresa avanza con il diretto destro e in una frazione di secondo il suo braccio sinistro teso entra nella guardia di Miocic come una lancia che si infila sotto la maglia di una corazza, piegandogli una prima volta le gambe; poco dopo – e va dato atto a Miocic anche solo che ci sia stato un poco dopo quel jab/diretto sinistro, che si sia rialzato e sia tornato a combattere – Ngannou incassa un gancio destro che gli fa chiudere gli occhi e che per un attimo lo rallenta, a cui fa seguire un gancio sinistro che stavolta fa crollare Miocic in verticale su stesso, con la gamba sinistra che gli resta piegata sotto la coscia prima di scattare come una molla. È chiaro a tutti che il campione in carica ormai non c’è più, ma Herb Dean, l’arbitro, è in ritardo, e Ngannou (come successo contro Overeem) mette a segno un ultimo pugno a martello che Miocic si sarebbe volentieri risparmiato.
Se Ngannou faceva paura prima, questa sua versione attenta, paziente, è ancora più spaventosa. Ogni volta che Ngannou combatte ci si sofferma sulla sensazione che lo accompagna, come se qualcosa di terribile stia per accadere da un momento all’altro, un’impressione quasi mostruosa che viene anzitutto dal suo strepitoso codice genetico, dal fatto che è alto due metri, pesa centoventi chili (tredici in più di Stipe, ieri) e non ha un filo di grasso. Anzi, negli ultimi anni sembra aver gonfiato alla massima pressione spalle, deltoidi, bicipiti e tutti quei muscoli che gli fanno sembrare la schiena un paesaggio di dune. Ma si sottolinea poco forse l’aspetto più terrificante di tutti: Ngannou ha imparato a combattere solo sette anni fa, quando lui ne aveva già ventisette. La sua capacità di migliorarsi nel breve termine è evidente nella differenza tra il primo e secondo incontro con Miocic ed è normale, adesso, chiedersi se ci sia qualcuno in grado di batterlo, e fino a dove può migliorare, considerando che anche lui non può restare giovane per sempre e anzi guardando bene durante l’intervista sembra sia in procinto di perdere i capelli sulla fronte. Ma viene anche da chiedersi cosa avrebbe potuto fare se avesse scoperto prima le MMA, se si fosse allenato seriamente fin da giovane.
C’è una ragione se la storia di Francis Ngannou ha colpito il pubblico che segue le MMA anche al di là dei suoi significati politici. È una storia da supereroe, o comunque da super-uomo. Una di quelle storie che, mentre l’ascolti, non puoi fare a meno di chiederti: io ce la farei? Sopravviverei a un viaggio nel deserto, aggrappato insieme a un’altra ventina di persone al retro di un quattro per quattro, disidratato, costretto a bere acqua da un pozzo con dentro bestie morte («Sapevo che bevendo quell’acqua magari sarei morto, ma sapevo anche che se non l’avessi bevuta sarei morto di sicuro»)? Sarei in grado di attraversare il Mediterraneo su un canotto, remando più di tre ore, come ha fatto lui? E una volta in Europa, imprigionato per due mesi, e poi scaricato senza un soldo, senza un tetto, dormendo in un parcheggio sotterraneo, continuerei a sognare di diventare il nuovo Mike Tyson?
La risposta, se ve lo state davvero chiedendo, è certo che no! Tre anni fa, accompagnato da una troupe dell’Equipe, Francis Ngannou è tornato in Camerun, da dove il suo viaggio è cominciato, ma “per pudore” non aveva raccontato le difficoltà incontrate in quei quattordici mesi di odissea. Aveva mostrato i posti dove, intorno ai dieci anni, scavava sabbia per guadagnare qualche soldo. Aveva parlato del padre violento, la cui fama lo imbarazzava, e di quanto lo avessero scoraggiato a partire. Ma il viaggio no, quello non lo aveva raccontato. Lo ha fatto dopo in alcune interviste, e lo ha fatto soprattutto, con un numero incredibile di dettagli, poche settimane fa, nelle tre ore passate a parlare con Joe Rogan (nel podcast che ha venduto a Spotify un anno fa per cento milioni di dollari), interrotto solo ogni tanto dagli «woooow» «hhhhmmm» tipicamente roganiani.
È partito senza neanche sapere dove voleva andare, andando «verso nord», con le persone vicine a lui che gli dicevano che sarebbe morto e anche se fosse arrivato a destinazione era da pazzi pensare di diventare campione del mondo alla sua età. Ha attraversato il deserto del Sahara, ha ingoiato i propri soldi per recuperarli nelle feci. In Algeria si è finto Maliano per non essere espulso, la polizia marocchina lo ha riportato sei volte nel deserto dopo averlo arrestato. Ha provato a scavalcare le reti e il filo spinato che “proteggono” Melilla, enclave spagnola nel continente africano, ma si è ferito le mani e l’addome, e ha preferito andare al pronto soccorso sapendo che la polizia sarebbe venuto a recuperarlo, piuttosto che morire dissanguato. Ha litigato con dei topi per un pezzo di pomodoro marcio, trovato nella spazzatura di un mercato, di notte; ha visto dieci volte il film 300, probabilmente sul cellulare, motivandosi con gli spartani. Ha vissuto accampato nei boschi fuori Tangeri ed è diventato esperto di meteo marittimo. Ha provato ad attraversare lo stretto di Gibilterra sette volte, la prima remando con le mani.
Da tutto questo, e nonostante tutto questo, Ngannou è venuto fuori con una forza fisica mentale e straordinaria, imparando da zero uno sport quanto bastava per arrivare al massimo livello, e dopo essersi scontrato con i propri limiti, imparando quello che mancava per diventare il migliore in assoluto. Ma la sua storia non può essere de-politicizzata. Se non altro perché non capita spesso che storie come la sua giungano a compimento. Già dopo il match con Alistair Overeem, tre anni fa, Ngannou aveva chiesto la libertà per i suoi fratelli tenuti prigionieri in Libia. Dopo la vittoria con Miocic è impossibile non chiedersi anche quanto potenziale umano condanniamo alla morte, alla schiavitù, alla povertà, per ragioni politiche.
D’accordo, non tutte le persone che si mettono in viaggio per raggiungere l’Europa sono futuri campioni UFC, ma tra le centinaia di migliaia che muoiono provandoci, annegati nel Mediterraneo o di freddo, di notte, nel deserto, e tra quelli che rinunciano, quanti ottimi ingegneri, matematici, medici, infermieri, meccanici, scrittori, giornalisti, giardinieri, operai, ci sarebbero? Indipendentemente dal fatto che andrebbero salvati tutti. Ngannou ha deciso di lasciare il suo villaggio in Camerun perché non c’era una palestra, e dopo aver guadagnato abbastanza ci è tornato e ne ha aperta una, perché nessuno debba passare quello che ha passato lui per diventare un atleta. Quante cose grandiose impediamo che avvengano per mancanza di risorse? Questo non vale solo per l’Africa, ma anche per le zone meno fortunate d’Europa, d’Italia, delle nostre città.
Forse il dettaglio più assurdo di tutta la sua storia è che Ngannou sognava dall’inizio di finire negli Stati Uniti, al punto che chi lo conosceva anziché “Francis” lo chiamava “San Francisco” (uno dei tanti soprannomi avuti, insieme a “van Damme” e “Schwarzenegger”). E adesso che vive a Las Vegas, e volendo potrebbe andarci comodamente a San Francisco, Ngannnou firma gli autografi con le iniziali “S.F.”, in ricordo di quei tempi. Nell’intervista dopo il match con Miocic, a un certo punto Rogan ha tirato in ballo Jon Jones – che non ha perso tempo twittando (a noi, all’UFC, a tutti) di preparare i soldi. Ngannou ha risposto col solito candore, dicendosi felice del fatto che Jones voglia salire di categoria di peso: «Secondo me, è il migliore di tutti i tempi». Ma ha anche specificato che il campione adesso e lui, e Jones sarebbe lo sfidante.
Francis Ngannou è una persona e un atleta umile, ma non per questo dimentica quello di cui è stato capace, o non è in grado di immaginare quello che può ancora fare. Il suo percorso dimostra che non sempre, anzi quasi mai, il nostro posto corrisponde con quello che ci è stato assegnato alla nascita.