Parlare di Franco Baresi significa parlare di uno dei migliori difensori della storia del calcio e più in generale di uno dei più grandi giocatori di questo sport (il 15° di sempre nella top 100 stilata dalla rivista inglese “FourFourTwo”). Ma innanzitutto significa raccontare la storia di un ruolo che nel calcio moderno non esiste più, il libero, la cui origine è legata a quella del catenaccio, che nasce in Svizzera negli anni ’30 grazie a un allenatore austriaco, Karl Rappan.
Per sopperire all’inferiorità tecnica e fisica della nazionale elvetica, racconta Jonathan Wilson ne «La piramide rovesciata”, Rappan adotta un sistema che verrà ribattezzato “verrou”, in francese letteralmente chiavistello o catenaccio, che rappresenta un’evoluzione del vecchio 235: “Invece di far arretrare il centromediano in mezzo ai due terzini – spiega Wilson – i due mediani indietreggiavano per affiancarli (...) I due terzini divennero poi dei difensori centrali a tutti gli effetti (...): se l’avversario attaccava sul loro lato destro, quello di destra si spostava verso la palla, mentre l’altro copriva la zona retrostante, e viceversa. In questo modo c’era la possibilità di mantenere sempre dietro un giocatore libero – il verrouller come veniva chiamato dai giornalisti del tempo, o il libero come sarebbe poi stato denominato in seguito».
Il padre del catenaccio in Italia è il tecnico Gipo Viani, che grazie anche a questo sistema ottiene la promozione in Serie A con la Salernitana nel 1947, accentuandone oltretutto il carattere difensivo.
Sempre da Wilson: «Viani faceva in modo che la squadra si disponesse più bassa, allungando quella avversaria, che era portata a impegnare più giocatori in attacco, ma così facendo diventava vulnerabile al contrattacco (...) le squadre inferiori tecnicamente iniziarono a rendersi conto che non avrebbero avuto nessuna possibilità, se avessero affrontato le formazioni avversarie puntando su una serie di duelli individuali (...) e attuarono quindi piccoli aggiustamenti in modo da avere un giocatore libero dietro. Di solito veniva abbassata un’ala (che verrà ribattezzata “tornante”, proprio perché torna indietro per aiutare i difensori, ndr), consentendo a uno dei terzini di posizionarsi dietro la linea difensiva».
Se questa strategia in un primo momento viene adottata solo da formazioni di bassa fascia, il catenaccio si impone ad alti livelli alla fine degli anni ’50, quando Viani arriva al Milan e conquista lo scudetto nel ’59, e successivamente con Helenio Herrera all’Inter, che vince due Coppe dei Campioni tra il 1964 e il 1965.
Oltre ai compiti di copertura, il libero teoricamente poteva avanzare (perché con il catenaccio c’era un uomo in meno nella zona centrale del campo), per avere a tutti gli effetti un passatore in più a centrocampo. Ma al di là di qualche eccezione, come Santamaria negli anni ’60, Beckenbauer negli anni ’70, Krol e Passarella tra gli anni ’70 e ’80, oltre agli italiani Cera e Scirea nello stesso periodo, l’interpretazione del ruolo è rimasta fondamentalmente difensiva e distruttiva.
Il libero copriva lo spazio alle spalle della linea difensiva e usciva per contrastare il portatore di palla, ma difficilmente era in grado di convertire un’azione difensiva in offensiva o gestire l’uscita del pallone. Più spesso si “limitava” al tackle e, una volta recuperata palla, a calciarla in avanti.
Per questo forse Franco Baresi può essere visto come l’ultimo grande interprete di questa élite di liberi “totali”, il più grande libero italiano assieme a Gaetano Scirea grazie proprio alla qualità e alla profondità del suo gioco.
Chi era Franco Baresi
Per descrivere brevemente il suo gioco si potrebbe dire: Baresi era l’ultimo difensore in fase di non possesso e il primo regista in quella di possesso. E interpretava queste due fasi in maniera eccelsa, trasmettendo un’idea di insuperabilità, versatilità e inarrestabilità palla al piede che gli ha conferito un’aura quasi mitologica.
Il paradigma del libero direttamente da un Milan-Juve della stagione 1983/84: Tardelli supera un centrocampista del Milan e Baresi esce per fronteggiarlo, mentre gli altri difensori rimangono in marcatura (Galli e Tassotti) o a presidio dell’area (Spinosi).
Non ha il portamento elegante né l’aspetto curato di Scirea - già nei primi anni di carriera la fronte alta e i capelli ricci in disordine diventano un tratto distintivo di Franchino, il suo vero nome all’anagrafe - il suo incedere emana piuttosto una «virile bellezza gladiatoria», come scriveva all’epoca Gianni Brera, per narrare un libero animato da un furore agonistico che nei contrasti, in particolare quando entrava in scivolata, esprimeva una forza bruta, necessaria per alimentare la sua leadership in campo ed entrare in connessione con compagni e avversari.
Alla base di un talento straordinario, non solo per la continuità delle sue prestazioni e la longevità (ha debuttato in serie A nel 1978, a 18 anni ancora da compiere, e si è ritirato nel 1997) ma anche per la sua abilità fuori scala nel leggere il gioco.
È singolare che ad esplicitare il suo pregio principale in un modo così immediato ed evocativo sia stato non un addetto ai lavori, bensì un regista cinematografico quale il tedesco Werner Herzog: «Baresi era il migliore quando non aveva la palla perché sapeva leggere il gioco: riusciva a capire quello che sarebbe successo, e non c’è stato mai nessun altro giocatore come lui che ha capito così bene fisicamente lo spazio come è capitato a lui, davvero sensazionale. Mi piacerebbe davvero, nel fare i miei film, essere uno che riesce a capire il cuore dell’uomo e gli spazi come l'Amazzonia proprio come Baresi ha capito il gioco».
Il dominio mentale e tecnico di Baresi sul gioco si traduceva in una capacità di anticipare le mosse dell’avversario tale da fargli compiere scelte controintuitive, o addirittura sconsigliabili. Non era raro vederlo abbandonare la posizione per uscire sul portatore di palla con il rischio di disordinare la linea difensiva e il sistema di marcature, ma si muoveva con una decisione e una velocità tale che appariva come una forza della natura, che quasi ineluttabilmente avrebbe rubato palla all’avversario.
Anche per questo il difensore, che nel corso della sua carriera vestirà soltanto due maglie, quella del Milan e quella della Nazionale (per un totale di 800 presenze), ha rappresentato un giocatore dallo stile quasi impossibile da replicare, in grado di posizionarsi costantemente tra palla e porta.
Un esempio di uscita controintuitiva, dalla finale dei mondiali del ’94. Jorginho riceve palla in fascia, Baresi chiama la salita della difesa: il terzino brasiliano potrebbe crossare, ma il capitano azzurro “scommette” sul passaggio in fascia per Mazinho, che taglia alle spalle di Benarrivo. Baresi rischia moltissimo, perché decide di scoprire il centro e disinteressarsi del suo uomo, Romario, ma chiude l’azione con una delle sue scivolate iconiche.
Uno stile irripetibile
Baresi è entrato nell’immaginario collettivo grazie alle sue chiusure in scivolata e, nel periodo di Sacchi, con il suo braccio alzato a chiamare il fuorigioco.
Le sue scivolate erano soprattutto laterali a contrastare un giocatore in fascia prima del cross, o per respingere il traversone. Affondava su entrambi i lati soprattutto con il piede destro, il suo preferito, mentre nei tackle in cui non andava a terra utilizzava anche il sinistro. Scopriva il centro sia per coprire il terzino, ed evitare così che l’esterno avversario entrasse dentro al campo, ma anche perché, complice una statura troppo “normale” per un difensore - un metro e 76 centimetri - il gioco aereo non rientrava nei suoi punti di forza (anche lì, però, le letture delle traiettorie lo aiutavano ad arrivare prima o meglio su molte palle alte) e preferiva intervenire prima che la palla venisse alzata.
Qualora invece non riuscisse ad allargarsi, si posizionava sul primo palo, o in alternativa copriva lo scarico per il giocatore al limite dell’area.
Il suo approccio al duello individuale era, come si dice oggi, proattivo, nel senso che solitamente era Baresi a compiere la prima mossa e attaccare la palla, ancora prima che l’avversario potesse riceverla o pensare a puntarlo.
La sua esuberanza fisica, unita alle sue letture, gli consentiva un’interpretazione aggressiva, lo portava ad accorciare in avanti, anche molto lontano dalla porta. L’uno contro uno puro, inteso come quella contingenza in cui un difensore viene puntato frontalmente e non può imporre il proprio contesto, non rientrava forse tra le sue specialità in senso assoluto, considerata la scarsa propensione ad accettare fasi passive (ossia temporeggiare accompagnando l’uomo) e, considerato che se veniva superato non risparmiava interventi rudi che gli potevano costare dei cartellini (anche per sopperire, nella parte finale della sua carriera, a un’esplosività muscolare declinante).
In ogni caso, Baresi assumeva una postura peculiare, con il corpo rivolto verso l’esterno, relativamente vicino all’avversario e il tronco quasi in posizione eretta. Se il portatore andava dalla parte opposta a quella in cui era orientato, Baresi si poteva permettere il lusso di girarsi dandogli le spalle, senza perdere, neanche in quei frangenti, il contatto visivo con la palla, sempre in grado di leggere le intenzioni del rivale.
C’è un’azione che aiuta a comprendere meglio l’esplosività e la visione di gioco di Baresi in quelle situazioni, che viene dalla semifinale dei mondiali del ’90, che l’Italia perderà ai rigori con l’Argentina.
Giusti lancia in profondità, mettendo Burruchaga e Caniggia nelle condizioni di giocarsi un 2 vs 1 contro Baresi. Il libero azzurro esce su Burruchaga mentre quest’ultimo sta per ricevere la palla, ma il numero 7 lo anticipa passandola di prima, di testa, a Caniggia.
Da questa sequenza emerge, oltre ad un’elevata propriocettività e, una volta di più, la sensibilità delle letture, tutta l’esplosività dei quadricipiti, che si esprime nei cambi di direzione veloci e nelle distanzi brevi. “La qualità principale di Baresi è l’accelerazione – raccontava il preparatore atletico del Milan di Sacchi Vincenzo Pincolini - aveva la capacità di arrivare al massimo della velocità in uno spazio veramente esiguo”.
Nonostante un fisico non particolarmente strutturato, Baresi aveva la forza d’urto di un camion, capace di ribaltare letteralmente gli avversari senza accusare il contrasto, e giocare su un timing pazzesco, che gli permetteva di compiere interventi ad altissimo coefficiente di rischio non solo evitando il fallo, ma addirittura togliendo il pallone al portatore.
Regista totale
L’azione ideale, archetipica, di Franco Baresi è quella in cui esce per anticipare l’uomo o scappa verso la porta per recuperare un giocatore in velocità, si impossessa della palla e avvia l’azione offensiva.
Baresi è stato uno dei più grandi convertitori di azioni difensive in offensive di questo sport, non semplicemente appoggiandosi al compagno più vicino, ma contribuendo attivamente alla progressione della sfera. Con tanti uomini oltre la linea della palla e un campo lungo davanti a sé, Baresi non esitava a innescare la transizioni offensiva partendo in conduzione e ribaltando il campo con l’impeto e la rapidità del diavolo della Tasmania dei Looney Tunes.
Conduceva palla in verticale buttandosi nello spazio libero come se fosse l’idea più semplice e per questo efficace, con gli avversari che ogni volta sembravano spiazzati, quasi come se si trattasse di un evento inaspettato, a cui non erano in grado di opporsi - anche per la difficoltà nell’era pre Sacchi, caratterizzata dalla zona mista (un’evoluzione del catenaccio, che però rimaneva ancorata alle marcature a uomo integrali) di organizzare delle scalate e assorbire così l’inserimento di un giocatore per il quale non sono previste marcature a uomo dedicate.
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Palla al piede, il suo dominio tecnico e analitico si esprimeva in una falcata imperiosa, che rappresentava una forma di eleganza sui generis, meno leggiadra e più grave, quasi militaresca, ma non per questo meno fluida. Anche perché Baresi aveva dalla sua uno scatto e un allungo eccezionali, oltre che un’ottima resistenza agli urti e una buona mobilità negli spostamenti laterali.
Quando lo chiudevano chiamava la triangolazione, appoggiandosi a un riferimento avanzato, per poi correre in avanti e ricevere il passaggio di ritorno: se solo il suo repertorio avesse compreso anche il tiro, avremmo assistito a un calciatore universale a tutti gli effetti, in grado di svolgere entrambi le fasi quasi in autonomia. Invece in carriera ha segnato “soltanto” 34 reti, di cui 22 su rigore.
Malgrado non spiccasse come tiratore, Baresi è stato un ottimo passatore. Talvolta forzava, sbagliando, la misura dei passaggi lunghi, ma semplicemente perché nel calcio pre guardiolista il lancio, più che un’opzione per cercare l’uomo alle spalle delle linee, era uno strumento per evitare di perdere il possesso vicino alla propria porta. Inoltre, nel Milan dei primi anni ’80 e nell’Italia di Vicini, Baresi era uno dei più responsabilizzati in questo fondamentale proprio per la relativa precisione sia con il destro, sensibile in tutta la sua superficie, che anche con il sinistro.
La sua creatività, unita alla capacità di accompagnare l’azione, faceva da valvola di sfogo, una variazione sul tema per impostare e raccordare il gioco in formazioni dal baricentro basso, poco coordinate nei giochi offensivi, che si basavano soprattutto su iniziative individuali per risalire il campo.
Baresi faceva da moltiplicatore di linee di passaggio sia con la palla che senza: quando si ritrovava a gestire direttamente l’uscita palla, in assenza di soluzioni sul corto optava per un lancio diagonale, o in alternativa entrava dentro il blocco avversario in conduzione per attirare su di sé uno o più uomini e liberare un compagno su una linea più avanzata. O, ancora, si muoveva per dettare un passaggio, aprendosi in fascia o avanzando per aiutare i centrocampisti nel ricircolo del pallone.
Qui Baresi sale all’altezza di Ancelotti, vede il movimento del terzo uomo, Carnevale, e lo serve con un tocco di prima.
Da libero a difensore centrale
Lo spartiacque della storia di Baresi (e del Milan) è stato il 1987, l’anno dell’arrivo di Arrigo Sacchi sulla panchina del Diavolo. La rivoluzione copernicana dell’allenatore di Fusignano cambierà irreversibilmente il calcio italiano e internazionale, mutuando i principi del “calcio totale” olandese: squadra corta e marcatura a zona - che si sviluppa sotto forma di pressing e fuorigioco - i capisaldi del suo progetto, imperniato attorno a un’idea di calcio offensivo.
«Quando ho iniziato la maggior parte dell’attenzione era rivolta alla fase difensiva – spiega Sacchi – avevamo il libero e le marcature a uomo. La fase offensiva si riduceva all’intelligenza, al senso del singolo e alla fantasia del numero 10 (...) mi convinsi che il vero problema era la nostra mentalità, pigra e difensiva».
Nel suo Milan non è più l’uomo il riferimento principale, bensì lo spazio, la palla e il compagno: “Avevo l’abitudine di dire ai miei giocatori che, se giocavamo con 25 metri di spazio dall’ultimo difensore al centravanti considerate le nostre qualità, nessuno avrebbe potuto batterci. Perciò la squadra doveva muoversi come una cosa sola su e giù per il campo, ma anche da destra a sinistra”.
«Volevo che la squadra fosse padrona del gioco in casa e in trasferta – sempre Sacchi, come già riportato in un articolo di Daniele V. Morrone perfetto per chi vuole approfondire questo aspetto - era difficile far capire il nuovo modo di giocare, il movimento sincronizzato della squadra senza palla, avere 11 giocatori con e senza palla sempre in posizione attiva. Avere una difesa attiva vuol dire che anche quando hanno palla gli avversari tu sei il padrone del gioco. Con tale pressione li obblighi a giocare a velocità, ritmi e intensità tali per cui non essendo abituati vanno in difficoltà».
Con Sacchi la difesa non sarà più composta da due marcatori, un terzino tornante e il libero, ma da 4 uomini in linea: due centrali e due terzini. Baresi si trasforma in un difensore centrale a tutti gli effetti, malgrado i presunti screzi con l’allenatore, che secondo la leggenda avrebbe obbligato il suo capitano a sorbirsi i vhs con i movimenti di Gianluca Signorini, il libero del Parma che ha allenato nel biennio 1985-’87.
Da difensore centrale, Baresi rimaneva maggiormente ancorato alla linea, ma declinava il nuovo ruolo in maniera ugualmente aggressiva, preferendo uscire in avanti per cercare l’anticipo o il contrasto lontano dalla porta, piuttosto che difendere in posizione.
«La linea difensiva guidata da Baresi – commenta Morrone - si muove in funzione della posizione palla e non degli uomini, per individuare l’attimo propizio a esercitare la trappola del fuorigioco con la salita contemporanea di tutti e quattro gli uomini. L’ex libero diventa il difensore più forte del mondo, anche perché il sistema nasconde la normalità della sua struttura fisica e ne esalta invece le letture, la velocità e la tecnica (...) Il famoso braccio alzato di Baresi a chiamare il fuorigioco è l’immagine del Milan di Sacchi tanto quanto i movimenti coordinati di Gullit e Van Basten».
Un sistema reso possibile grazie alla capacità da parte di Baresi di coprire tanto campo alle sue spalle, che gli ha permesso di aumentarne ulteriormente il livello delle prestazioni, ma soprattutto la centralità e il peso emotivo all’interno della squadra.
«Raccontano i giocatori del Real Madrid – ha detto Jorge Valdano - che i rivali del Milan non guardavano né loro né il pallone: guardavano solo Baresi. Così si rispetta un vero capo. Raccontano ancora che ad ogni fuorigioco provocato gli scappava un sorriso».
Franco Baresi era un’emanazione diretta dei dettami del suo allenatore, al punto che sembrava gli avesse impiantato il chip dei movimenti della zona, talmente era automatizzata la sua interpretazione. Baresi del resto ha sempre agito come una molla pronta ad allungarsi in tutte le direzioni, la differenza è che con Sacchi tutta la squadra si muoveva in maniera coordinata e sincronizzata per togliere la profondità all’avversario e recuperare il pallone più in alto possibile.
Una delle situazioni caratteristiche di quel Milan, tratta dalla storica semifinale dell’andata della Coppa dei Campioni del 1989 contro il Real Madrid, terminata 1-1. Qui Baresi esce su Schuster chiamando la salita dei compagni fino a ridosso della mediana: il centrocampista tedesco non ha soluzioni verticali ed è costretto ad allargare sulla destra.
La difesa saliva non soltanto su palla coperta, ma anche su un passaggio laterale o addirittura su palla scoperta: la trappola del fuorigioco si innescava anche quando il portatore di palla aveva superato il centrocampo e avanzava verso la porta per rifinire l’azione. In questo modo si toglieva tempo e spazio all’avversario per ragionare, un po’ come un atleta che corre verso un ostacolo da saltare, che però a sua volta si muove verso l’atleta stesso.
«Il pressing non si basa sulla corsa e nemmeno sul lavoro duro – ha detto sempre Sacchi – si basa sul controllare lo spazio. Se permettiamo ai nostri avversari di giocare nel modo nel quale sono abituati, la loro fiducia aumenterà. Ma se riusciamo a fermarli, allora diminuirà. Questa era la chiave: il nostro pressing era tanto psicologico quanto fisico».
Il Milan, per riprendere le parole di Morrone, «parla un’altra lingua» anche in fase di possesso, scandita una fluidità posizionale impensabile e incontrastabile all’epoca, che si traduceva «in 5 giocatori davanti alla linea della palla – spiegava Sacchi – un uomo largo a destra e uno a sinistra».
I rossoneri hanno raggiunto il proprio apice nel 1988 grazie all’arrivo di Rijkaard: fino alla promozione di Costacurta nell’XI titolare l’olandese giocherà al fianco di Baresi, ed era come se il Milan avesse schierato due centrocampisti in difesa, data la loro proprietà di palleggio e visione di gioco. Ma anche perché si potevano alzare contemporaneamente per seguire l’azione.
Sempre Real Madrid-Milan del 1989: Rijkaard supera la linea mediana e Baresi cerca di suggerire una linea di passaggio. L’avanzata dei due centrali difensivi è compensata dall’accentramento dei due terzini, Tassotti e Maldini.
Un centrocampista mancato?
«Mi piaceva il suo stile e il suo modo di fare. Non mi sembrava così forte in fase difensiva, perché era molto più bravo con la palla. Invece è migliorato in maniera straordinaria e divenne quasi insuperabile» racconta Fabio Capello, il tecnico che l’ha allenato tra il 1991 e il 1996.
Forse per questo motivo, unito alla presenza di Scirea, in Nazionale Bearzot ha provato ad adattarlo a centrocampo. Un ruolo che il difensore del Milan non ha mai digerito (nonostante fosse comunque capace di inventarsi giocate eccezionali), probabilmente perché ha riscontrato difficoltà a trovare la posizione.
Da centrocampista era costretto a ricevere in zone più alte e con l’uomo alle spalle, senza considerare che quando non è lui a gestire l’uscita palla, si doveva muovere in funzione principalmente dell’appoggio al di là della mediana avversaria. Paradossalmente giocando più avanti la sua influenza sulla manovra si riduce, perché da mediano ha meno campo per portare palla, e in più doveva rimanere maggiormente bloccato, specie quando doveva coprire la salita della mezzala. In fase difensiva, invece, tendeva a schiacciarsi sulla difesa, anziché uscire per contrastare l’avversario.
Dopo essere diventato campione del mondo nel 1982 senza essere mai sceso in campo, Baresi ha disputato le Olimpiadi del 1984, chiuse al quarto posto. «Bearzot ha le sue idee: come libero non mi considera proprio. Non vedo un gran futuro azzurro per me in questo ruolo. E da centrocampista raccolgo solo delusioni e critiche». Baresi si è sfogato il 29 novembre 1984, lo stesso anno in cui ha dato l’addio alla Nazionale, salvo poi ritornare con Vicini nel 1986. Con il tecnico romagnolo giocherà un grande mondiale nel 1990, ma sarà l’edizione seguente, con Sacchi, a consegnarlo definitivamente alla storia.
Nel ’94, nel corso della seconda partita del girone contro la Norvegia, Baresi si rompe il menisco. La rassegna americana sembrava già terminata, ma invece è riuscito a tornare in campo per la finale con il Brasile, ad appena 24 giorni dall’infortunio. Un recupero lampo che ammanta di una sfumatura epica una partita mostruosa, in cui ha tenuto a galla una squadra accartocciata nella propria metà campo, che aveva difficoltà a distendersi anche perché le due punte, Baggio e Massaro, venivano accompagnate al massimo da un laterale (Donadoni o Berti) ed erano costrette a mettersi in proprio per guadagnare qualche metro.
I sudamericani hanno controllato per tutti e 120 minuti la palla, piantando le tende nella metà campo azzurra, creando superiorità in zona centrale grazie ai tagli degli esterni Mazinho e Zinho, abili a entrare dentro al campo per poi associarsi agli attaccanti, Romario e Bebeto, che si alternano sul corto e sul lungo per disordinare la difesa.
Malgrado una supremazia tecnica e territoriale così evidente, il Brasile è entrato difficilmente in area proprio perché la linea difensiva – che ha cambiato tre volte assetto nei 120 minuti a causa dell’infortunio di Mussi, sostituito da Apolloni - guidata da Baresi riusciva a togliere la profondità pur senza schiacciarsi a ridosso dell’area di rigore.
Baresi ha giocato al di sopra di una condizione precaria una partita paradigmatica in cui istinto e razionalità si sono fuse in armonia: contro due degli attaccanti più dinamici del Mondiale, autori di 8 gol complessivi, Baresi ha spostato ancora più in là il concetto di anticipo, accorciando puntualmente su due avversari che in campo aperto lo avrebbero fatto soffrire, e uscendo sistematicamente su palla coperta come in fascia.
https://twitter.com/Dryzinho_praero/status/1110552518067712000?s=20
Gli highlights individuali della sua finale. Baresi sembra quasi in grado di esercitare un’attrazione magnetica nei confronti della palla.
Una prestazione («la più bella della mia carriera con gli azzurri» ha dichiarato il diretto interessato) che inevitabilmente a posteriori viene ridimensionata, o comunque passa in secondo piano dinanzi al rigore sbagliato dopo i supplementari, che decide di tirare nonostante sia stremato dai crampi (nelle immagini tra l’altro si vede Baresi portato via dai barellieri).
In carriera aveva già calciato 28 rigori segnandone 22, compreso quello di Italia ’90 contro l’Argentina, tuttavia era reduce da due errori, risalenti al 1992 contro Ascoli e Juve. Come di consueto, ha optato per una rincorsa lunga (parte un metro fuori dall’area) e dei passi piuttosto rapidi, tuttavia anche l’ultimo passo è rimasto molto lungo, tanto che è arrivato con la gamba d’appoggio più avanti del dischetto.
Così, nel colpire la palla con il destro ha dovuto inesorabilmente inclinare il corpo all’indietro, e ne è uscito un rigore pessimo, che ha spedito ben oltre la traversa.
«Calciavo qualche rigore anche nel Milan – ha raccontato Baresi - ma non ero proprio uno specialista. Mi feci avanti convinto e deciso perché c’era bisogno di qualcuno che facesse coraggio alla truppa, in un momento cambiai decisione su dove tirare e purtroppo mi sbilanciai, colpendo il pallone in malo modo. Dopo di me sbagliarono anche Massaro e Baggio... un incubo per tutti».
Le lacrime dopo la premiazione restituiscono un’idea di umanità e fragilità aliena ad un personaggio apparso sempre chiuso e invulnerabile agli stimoli esterni: Baresi acquisisce una sensibilità nuova e diventa l’icona a tutto tondo di quella giornata, di cui sentirci orgogliosi e in cui annegare il nostro dolore.
Dopo il ritiro
Franco Baresi si è imposto come uno dei più grandi giocatori di sempre anche perché si è saputo adattare ed evolvere in un ventennio in cui il calcio è variato irreversibilmente, tanto che lui stesso ha cambiato ruolo.
È stato il perno di una delle squadre più vincenti e innovative di questo sport, con cui ha vinto 21 titoli, tra i quali 6 scudetti, 3 Coppe dei Campioni e 2 intercontinentali. A livello individuale ha sfiorato il Pallone d’Oro nel 1989, arrivando secondo dietro al suo compagno di squadra Van Basten: «Ma non mi sono mai fatto un cruccio – ha ricordato - già arrivare dietro a Van Basten è stato come vincerlo perché in quegli anni lì lui era come Messi». A fine 1999 è stato votato dai tifosi come “milanista del secolo”. Il libero nativo di Travagliato è stato preferito a Rivera, Nordahl, Liedholm, Van Basten e Maldini, anche perché verosimilmente il voto è stato influenzato dal ricordo, ancora piuttosto fresco, del ritiro nel 1997.
Un successo che d’altro canto rende la misura di quanto sia stato amato e legato ai colori rossoneri. Dopo il ritiro Baresi è diventato responsabile del settore giovanile e vice presidente del Milan e in seguito a una fugace esperienza di 81 giorni al Fulham nel 2002, prima da “director of football” e poi da consigliere del presidente, è tornato in rossonero come allenatore della Primavera, che ha guidato dal 2002 al 2004.
Dal 2016 ricopre l’incarico di “brand ambassador”, ma se da una parte è un peccato che una figura del suo acume e della sua intelligenza non sia riuscito a travasare fuori dal campo questo suo talento in un ruolo più significativo, dall’altra ci resta intatto il suo ricordo in campo, forse impareggiabile anche con le migliori intenzioni.