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Fare i conti con François Zahoui
13 apr 2018
La storia del primo giocatore africano in Serie A.
(articolo)
17 min
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Gli entusiasti sostenitori dell'onnipotenza del Dio Internet andrebbero probabilmente in crisi se gli si chiedesse di trovare informazioni sul Torneo di Marsiglia. Che informazioni abbiamo? 1) non è il più famoso torneo di tennis che si gioca indoor a febbraio e che quest'anno è stato vinto dal russo Karen Khachanov, ma un meno nobile torneo di calcio giovanile; 2) il torneo non sembra essere sopravvissuto ai giorni nostri, ma godeva di una certa notorietà all'inizio degli anni Ottanta se è vero che 3) nel 1981 l'Ascoli vi scovò un trequartista ivoriano di diciott'anni di nome Zahoui, come dichiarato dallo stesso allenatore ascolano dell'epoca, niente meno che Carlo Mazzone, il quale non mancò di dargli un caldo benvenuto: «Zahoui non lo conosco. Me lo hanno segnalato per aver disputato un buon torneo giovanile a Marsiglia».

La carriera italiana di François Zahoui, il primo calciatore africano della storia della Serie A, ha un prologo tuttora avvolto nel mistero. Negli anni, molti siti e giornali hanno bruscamente liquidato la questione dando per scontato che nel 1981 “gli osservatori ascolani” ne fossero rimasti folgorati a questo fantomatico Torneo di Marsiglia. Ora, in Francia esiste ed è celeberrimo il Torneo di Tolone, appuntamento estivo riconosciuto anche dalla FIFA in cui nei decenni si sono messi in mostra Zidane, Henry, Cristiano Ronaldo eccetera; oppure il Torneo di Montaigu, che da quarant'anni mette in vetrina i migliori under 16 del mondo nella valle della Loira. Ma del Torneo di Marsiglia nessuno ne sa niente. Allora dobbiamo rassegnarci e far iniziare l'avventura italiana di Zahoui come quella di Bocca di Rosa che entrava in scena scendendo dal treno nella stazione di Sant'Ilario, e tutti s'accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario.

Nessuno è straniero

Fino ai tardi anni Settanta l'Italia era ancora soprattutto un Paese di emigrazione e ben poco di immigrazione. Proprio nel 1981, in occasione del censimento, per la prima volta l'ISTAT si occupò anche degli stranieri e li quantificò in 321 mila persone, di cui circa un terzo “stabili” e i rimanenti due terzi genericamente definiti “temporanei”, senza distinguere quelli che oggi chiamiamo “migranti”, caratterizzati da condizioni abitative e lavorative precarie, da chi invece si trovava in Italia per affari o magari per turismo. La superficialità con cui in quegli anni le stesse autorità italiane affrontavano la questione degli stranieri si traduce nel linguaggio stanco e stereotipato con cui fu accolto il buon Zahoui: peraltro, la stessa natura dell'operazione non sembrava immune dal cavalcare i soliti cliché dell'italiano tutto cuore e del bovero negro. Ma facciamo un passo indietro.

Com'è noto, il calcio italiano chiude le porte agli stranieri dopo l'apocalittica sconfitta di Middlesbrough contro i ridolini della Corea del Nord, 19 luglio 1966. Da quel giorno chi è già dentro può rimanere – e in alcuni casi rimarrà molto a lungo, da Altafini a Schnellinger, da Hamrin a Nené -, ma non sono consentiti ulteriori arrivi, e così sarà fino al 1980. I quattordici anni di embargo non portano risultati troppo apprezzabili a livello di club, con appena quattro vittorie su 42 edizioni di coppe europee (tre del Milan, una della Juventus), e provocano invece un progressivo scadimento della spettacolarità del campionato, con alcune giornate in cui si segnano anche meno di 10 gol in 8 partite, fino al bagno di sangue e di credibilità dello scandalo del Calcioscommesse nella primavera del 1980. Riaprire le frontiere è soluzione quasi obbligata, anche se con il contagocce: nell'estate che segue agli Europei 1980, organizzati dall'Italia con ampi vuoti tra gli spalti a riprova della disaffezione del pubblico.

Le 16 squadre di Serie A sono quindi autorizzate a comprare uno straniero per ciascuna. Rispondono presente in undici, e le scelte cadono su cinque europei (l'irlandese Brady, gli olandesi Krol e Van de Korput, il tedesco Neumann e l'austriaco Prohaska) e sei sudamericani (gli argentini Bertoni e Fortunato e i brasiliani Eneas, Falcao, Juary e Danuello). Eneas e Juary sono gli unici due giocatori di colore di questa prima tornata, e attorno a loro fioccano e fioccheranno negli anni aneddoti pittoreschi. Di Eneas si dirà che si era commosso vedendo la neve a Bologna («Solo il pensiero di andarla a pestare mi fa venire i brividi e mi blocca lo stomaco», dichiarò alla Gazzetta); di Juary, acquistato dall'Avellino, il recentemente scomparso Luigi Necco ha ricordato la spedizione in tribunale insieme al suo presidente Sibilia per omaggiare Raffaele Cutolo con una medaglia d'oro con dedica: l'aver riportato l'episodio a Novantesimo Minuto gli costò la gambizzazione fuori da un ristorante, da parte del suscettibile clan di Don Raffaé.

Di africani neanche l'ombra, e la cosa è comprensibile: all'epoca, sotto il Sahara, il calcio di fatto non esiste. Dal 1966 al 1980 solo una squadra dell'Africa Nera si è inerpicata fino alla fase finale di un Mondiale: il famigerato Zaire del 1974, i cui drammatici retroscena rimarranno a lungo nascosti. Nel 1970 e nel 1978 le uniche Nazionali africane presente ai Mondiali (unica occasione di conoscere giocatori africani) sono le “vicine” Marocco e Tunisia, che rimediano anche figure decorose pur non superando la prima fase a gironi. A che pro, allora, spendere soldi e giocarsi l'unico jolly disponibile per calciatori sconosciuti e inaffidabili? Le uniche notevoli eccezioni, inoltre, vengono naturalmente attirate per motivi culturali e linguistici dal calcio francese: lì vanno a giocare i due massimi fuoriclasse africani degli anni Settanta, il maliano Salif Keita e il camerunese Roger Milla, che non avremo mai il piacere di vedere sui nostri schermi.

Sfogliando l'album Panini della stagione 1979-80 troviamo un solo giocatore nato in Africa: Claudio Gentile della Juventus, nato a Tripoli da genitori italiani, cresciuto in Libia fino a otto anni e da qui l'odiato soprannome di “Gheddafi”. Di giocatori neri neanche l'ombra: l'ultimo è stato il brasiliano Nené del Cagliari, sull'isola fino al 1976, seguito a stretto giro di posta dal connazionale Cané del Napoli, lui sì nero da far paura, gratificato dai tifosi partenopei dell'immortale coro “Didì, Vavà, Pelé / site 'a uallera e Cané”. Anche fuori dalle raccolte di figurine le persone di colore sono bizzarri alieni senza diritto di cittadinanza e di parole che non siano “sì badrone”, con l'accento macchiettistico tramandato dai film di Totò che scimmiotta il dittatore Mobutu in “Totòtruffa”: gli africani cannibali col pentolone, i tamburi e l'anello al naso. Non si può più cantare in pubblico Faccetta Nera, ma i concetti sono identici.

La stessa parola “negro” - o nella sua accezione vezzeggiativa “negretto” - è ampiamente tollerata, per esempio come definizione degli abitanti del famoso Continente Nero di Edoardo Vianello (“paraponziponzipò!”), anche se la censura radiofonica si abbatte su uno degli attacchi più folgoranti della storia della musica italiana: «Ho perso un'altra occasione buona stasera/è andata a casa con il negro, la troia», le parole con cui inizia Colpa d'Alfredo di Vasco Rossi, contenuta nel disco omonimo che esce il 3 aprile 1980. “L'ho vista uscire mano nella mano con quell'africano che non parla neanche bene l'italiano” è una frase che oggi, nonostante i rigurgiti xenofobi che ben conosciamo, scatenerebbe l'indignazione del "popolo del Web", come viene chiamato. E il colmo della vicenda è che il “negro” che fa tornare a casa il buon Vasco con le pive nel sacco era un deejay italianissimo di nome Santo Sottile, che tuttora non perde occasione per raccontare quell'aneddoto da Febbre del Sabato Sera in versione modenese.

Da “Yuppies – I giovani di successo”, Carlo Vanzina, 1986, trenta secondi piuttosto esplicativi del raffinato umorismo sulle persone di colore negli anni Ottanta italiani.

Il grande pubblico sostanzialmente ignora anche come se la passino laggiù in Africa, anche se sospetta non benissimo. Il primo grande evento di sensibilizzazione sul tema della fame nel mondo è ancora di là da venire: il Live Aid, organizzato da Bob Geldof e Midge Ure sul finire del 1984, che culminerà nel concerto mondiale del 13 luglio 1985. Ma nell'aprile 1981 si svolge a Ginevra una conferenza ONU sui rifugiati in Africa, in cui il segretario delle Nazioni Unite Kurt Waldheim ha esposto il problema dei campi profughi che ospitano milioni di esuli in condizioni disperate provenienti da almeno 25 Paesi africani, molti dei quali eufemisticamente definiti “in via di sviluppo”, e ha avviato una raccolta fondi di circa un miliardo di dollari. Sono ben pochi i quotidiani che vanno oltre le due colonne all'interno.

Arriva Zigulì

Al fantomatico Torneo di Marsiglia arriva dunque la folgorazione di un misterioso osservatore dell'Ascoli per il diciottenne François Gagui Zahoui, trequartista dello Stella Club di Abidjan. I documenti ufficiali collocano la sua data di nascita al 21 agosto 1962 e il luogo di nascita in Treichville, quartiere bidonville della capitale ivoriana, che prende il nome dal francese Marcel Treich-Laplène, primo esploratore della Costa d'Avorio e primo amministratore coloniale. Secondo Wikipedia, “una delle caratteristiche di Treichville è che le vie non portano dei nomi ma sono numerate da 1 a 25”. Il costo dell'operazione è tuttora avvolto nel mistero, anche se – come si diceva all'epoca commentando i risultati del Totocalcio – le quote sono popolari: si va dai 10 ai 55 milioni di lire e lo stipendio mensile è il minimo sindacale per la categoria, un milione e duecentomila lire. Messa così, quella del presidente ascolano Costantino Rozzi sembra più che altro una mossa populista, un'abile provocazione da parte di chi non può permettersi certi stranieri e tuttavia, vanitoso e desideroso di quella ribalta mediatica che il calcio anni Ottanta aveva iniziato a concedere con generosità, non rinuncia al suo strapuntino nei salotti televisivi. È altresì evidente che il solidissimo Ascoli di Carletto Mazzone, arrivato undicesimo e destinato addirittura a un clamoroso sesto posto nel campionato seguente, di Zahoui non ha alcun bisogno.

Girano leggende perfettamente in linea con gli stereotipi indicati: Zahoui è stato pagato in tute e forniture sportive; per qualcuno ha trascorsi da operaio in un'azienda produttrice di bottiglie; per altre penne persino illustri, per esempio Roberto Beccantini sulla Stampa, invece “faceva l'idraulico”. Arriva in città nei giorni in cui Ascoli è in subbuglio per il clamoroso arresto di Angiolino Gasparini, il biondo stopper arrestato per aver acquistato 50 grammi di cocaina: è il primo caso di calciatore italiano a cadere ufficialmente nella polvere. Hanno trovato il suo nome sull'agenda di un trafficante argentino e, prima di uscire e aver accertato l'uso esclusivamente personale, si farà anche otto giorni di carcere in cella d'isolamento, con tre anni d'anticipo sul tipo emiliano che dava la colpa ad Alfredo. Vicende che neanche sfiorano l'esistenza del piccolo Zahoui, che tifosi e stampa locale soprannominano subito “Zigulì”, come le caramelle alla frutta ospiti fissi di ogni farmacia che si rispetti.

Infastidito dal clamore mediatico, nel precampionato Mazzone mette le mani avanti, ritirando fuori la storia del torneo giovanile a Marsiglia: «Ma io 'sto ragazzo non lo conosco». L'Ascoli vive benissimo anche senza: in casa perderà una sola partita su quindici (contro la Roma) e si prenderà in lusso di portar via tre punti su quattro alla Juventus campione d'Italia. Zahoui se ne sta in tribuna senza neanche immalinconirsi, tanto alieno è il mondo in cui è precipitato. Ma un mercoledì pomeriggio di ottobre arriva a sorpresa la grande occasione, in casa della lanciatissima Fiorentina di De Sisti.

È il recupero di una partita rinviata un mese prima per pioggia, che la squadra di Mazzone sembra blindare su uno 0-0 di titanio, quando arriva l'imprevisto: due minuti dopo non aver visto una palla colpita da Ciccio Graziani ampiamente oltre la linea, l'arbitro Benedetti, forse ripensando a quell'errore, premia un tuffo dell'argentino Bertoni con un calcio di rigore. Mazzone decide di buttarla esplicitamente in caciara, ritardando l'esecuzione del penalty da parte di Antognoni operando con esasperante lentezza il secondo cambio: fuori Trevisanello, dentro Zahoui con la sua maglia numero 15 nuova fiammante. L'operazione riesce coi fiocchi: Antognoni calcia un rigoraccio centrale, facendoselo respingere dal portiere di Brini. Manca un quarto d'ora alla fine e a quel punto le consegne di Mazzone a Zahoui sono poche, semplici e inesorabili: vatti a mettere in fuorigioco. Ma lui, con il contagioso entusiasmo del parvenu, dopo un solo minuto di serie A commette subito fallo su Ferroni: ancora carica ancora di adrenalina per il rigore parato, la panchina ascolana esplode di proteste. Mazzone tira un calcio a un pallone e l'arbitro lo allontana insieme al presidente Rozzi, che com'è noto si faceva trovare spesso e volentieri in panchina accanto all'allenatore. I quotidiani dell'epoca fotografano tutti allo stesso modo i primi diciotto minuti di Africa nella storia del calcio italiano: «Il negretto della Costa d'Avorio si faceva pescare sempre in fuorigioco, ma pare che fosse nei piani di Mazzone questo atteggiamento per perdere tempo», scrive La Stampa. «È proprio vero che ormai i tecnici le studiano tutte».

Un osservatore maligno potrà persino far notare che quella magnifica Fiorentina perderà lo scudetto tra mille polemiche e proprio per quel solo punto svanito per il troppo nervosismo di capitan Antognoni seguito all'ingresso in campo di Zahoui. Dopo un altro paio di meteoriche presenze contro Como e Avellino, sempre entrando a partita in corso, “il negretto” sparisce purtroppo dai radar per quasi tre mesi, nonostante dopo il debutto di Firenze la recensione di Mazzone fosse degna almeno delle quattro stelle: «Debbo dire che all'inizio ero un po' scettico. Veniva da un paese che calcisticamente non ha mai offerto niente, era una perfetta incognita. Tecnicamente è molto ben impostato, ha degli spunti irresistibili, è difficilissimo fermarlo quando ha la palla al piede. Fondamentalmente è un trequartista: salta facilmente l'avversario, manda in gol i compagni di squadra, va al tiro lui stesso. Se fosse stato italiano sarebbe stato valutato comodamente sui 500-600 milioni di lire. I difetti? È un po' carente nei contrasti, nei rientri difensivi e gli manca ancora il collaudo agonistico vero e proprio».

Per il concorso “Usa anche tu uno stereotipo sull'Africa nei tuoi articoli di giornale”, l'attacco del pezzo della Stampa sull'esordio in A del nostro eroe: “Ad un quarto d'ora dalla fine è suonato il tam-tam di François Zahoui”. A lato, un Carletto Mazzone immortalato nella sua tipica espressione carica di bonomia.

Chi si aspettasse da quest'articolo importanti annotazioni sul bagaglio tecnico di Zahoui rimarrebbe fortemente deluso. Zahoui gioca undici partite in due campionati e solo una da titolare, in un Ascoli-Cesena a suo modo storico, il 25 aprile 1982. «Mazzone vuole vederlo all'opera prima di chiedere la conferma o meno. Ha disputato una prestazione sufficiente, senza infamia e senza lode. Tecnicamente non è sprovveduto», scrive ancora La Stampa. Chi non si accontenta di ingialliti ritagli di giornale può invece divorare questo servizio della Domenica Sportiva vergato da Pino Scaccia su Ascoli-Genoa 1-1 del 4 aprile 1982, uno reperto filmato disponibile sul Web con Zahoui in azione con la maglia del Picchio. Vi compare senza preavviso negli ultimi quindici secondi, prendendosi subito la scena come le vere stelle: «Oggi, in mezz'ora, ha dimostrato di non saper fare solo il portafortuna».

È evidente che la dimensione più interessante di Zahoui è quella fuori dal campo. Come vive negli anni Ottanta ad Ascoli un teenager africano totalmente eradicato dalle sue origini? «Prima di arrivare da voi conoscevo solo due persone che vivevano in Italia: il Papa e Adriano Celentano», aveva confessato a settembre in un articolo di colore (ok, ci siamo cascati anche noi). «La vostra cucina è molto buona e mi piace tutto, soprattutto la bistecca alla fiorentina. Gli ascolani mi vogliono bene e tutti cercano di aiutarmi per non farmi sentire solo. Numerose famiglie mi hanno invitato a casa».

Un'altra leggenda metropolitana, d'altra parte, riferisce che viva con la fidanzata Justine inviando a casa gran parte del suo modico stipendio. Ma, intervistato dalla Gazzetta tanti anni dopo nel 2010, rivelerà invece squarci di straziante solitudine di provincia neanche fossimo in una canzone di Samuele Bersani: «Quando arrivai ad Ascoli in città c'era solo un altro africano. Dopo quattro mesi che ero lì lo incontrai per strada, e mi fermai a salutarlo».

Zahoui lascia l'Italia nell'estate 1983 senz'aver mai fatto neanche mezza polemica, e a differenza di molti stranieri suoi contemporanei che si sono sentiti “incompresi”, continuerà a spendere parole meravigliose per il nostro calcio e i suoi protagonisti. Quando il Bologna di Mazzone giocherà in coppa UEFA a Lione, nella primavera del 1999, andrà addirittura a far visita al vecchio maestro, di cui conserva ancora oggi un ricordo splendido: «E anche di gente come Anzivino, Menichini, Brini, Novellino. Quella con l'Italia è una grande storia d'amore». Il futuro gli riserverà incroci persino più incredibili, trovando un posto nella rosa della prima squadra di un certo Arsène Wenger, per cui presta servizio al Nancy dal 1984 al 1987, da titolare fisso: 101 presenze e 8 gol, non troppo lontano dalle medie realizzative di un Özil. Nei primi tre anni da allenatore professionista, Wenger vince appena il 29% delle partite, terminando in bellezza con una retrocessione al terzo anno con un attacco drammaticamente arido, nonostante 17 partite su 38 senza subire gol. Chissà che idea Zahoui si era fatto di lui.

Poi cos'altro? Altre cinque stagioni al Toulon, sempre in Prima Divisione, smarrendo via via i galloni del titolare, e infine al Nevers, con appena quattro presenze in una Nazionale ivoriana che negli anni Ottanta non era neanche lontanamente al livello di quella degli anni Duemila. Ma torna clamorosamente in auge nell'agosto 2010, quando si ritrova per caso alla guida della Costa d'Avorio per una bizzarra amichevole estiva ad Upton Park, lo stadio del West Ham, contro la prima Italia di Cesare Prandelli, fresca reduce dal traumatico mondiale sud-africano. Come omaggio involontario e volontà di revival anni Ottanta, la Nazionale scende in campo con il primo centravanti nero della storia azzurra, vertice dell'ABC, l'estemporaneo tridente Amauri-Balotelli-Cassano di cui non si vedranno repliche. Vincono 1-0 gli Elefanti, al termine di 90 minuti che non lasceranno traccia alcuna nella grande e piccola storia del nostro calcio. Ma Zahoui, sempre con quel suo fare educato e silenzioso, tiene botta addirittura fino alla Coppa d'Africa del 2012, cercando di spingere la Costa d'Avorio al secondo titolo continentale della sua storia. Dai gironi alla semifinale vincono cinque partite su cinque senza mai subire gol e arrivano da grandi favoriti alla finale con l'underdog Zambia, giunto in fondo come sospinto dall'energia mistica della squadra terminata dal terribile incidente aereo dell'aprile 1993. Drogba spedisce in cielo un rigore nel secondo tempo, l'equilibrio precario regge per tutti i 120 minuti e alla fine, dopo 18 rigori, vince lo Zambia.

Nell'album Panini della stagione 1981-82 la figurina di Zahoui è strategicamente posizionata accanto a quella del centravanti Hubert Pircher, finto straniero nato in realtà a Bressanone.

Non si trovano smentite alla notizia che Zahoui sia attualmente il CT del Niger, e lo sia dal 2015. Certamente saranno più accattivanti le vicende umane degli altri pionieri africani del calcio italiano, dal senegalese Roger Mendy che arriverà a Pescara già trentaduenne nel 1992 a un ghanese formidabile che sbarcherà nel 1994 a Torino con le ingombranti generalità di Abedi Pelé. Anche se viviamo tempi bui, la considerazione dei calciatori neri è un po' migliorata nei decenni: quando Paolo Berlusconi, commentando nel 2013 l'arrivo al Milan di Mario Balotelli, ha avuto l'imprudenza di dire: «Andiamo a vedere il negretto di famiglia», (quasi) tutti hanno scosso la testa in tono di commiserazione. La storia di Zahoui ha però il merito di essere eccezionale senza che il suo protagonista lo sia mai stato, nella buona e nella cattiva sorte. Eppure, nella sua folle normalità di ufo sbarcato ad Ascoli all'inizio degli anni Ottanta, è arrivato ad affermare concetti come: «Senza un po' di Mazzone, non puoi fare Wenger». Alla fine, François Gagui Zahoui è l'unico grado di separazione tra Arsène Wenger e Carletto Mazzone.

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