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Requiem per un Imperatore
12 gen 2024
Come Beckenbauer è diventato il Kaiser.
(articolo)
26 min
(copertina)
Foto IMAGO / Sven Simon
(copertina) Foto IMAGO / Sven Simon
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Le tangenze del Kaiser nel Pantheon: l’“allievo” argentino

«Io volevo giocare, però non sapevo in che ruolo, non lo sapevo proprio. Non ne avevo idea. Cominciai da difensore. Giocare da libero mi è sempre piaciuto e tuttora mi affascina, anche adesso che, per paura che mi scoppi il cuore, mi lasciano appena toccare il pallone. Da libero vedi tutto da dietro, hai il campo intero davanti a te, hai la palla e dici: pim! usciamo di là, pum, proviamo dall’altro lato, sei il padrone della squadra». Così il quarantenne Maradona nell’incipit di Io sono el Diego, il suo denso memoir; incipit da integrare con un endorsement di qualche anno dopo, quando il Pibe de oro rivela in un’intervista di essersi ispirato da ragazzo - più che a ogni altro - proprio al Kaiser Beckenbauer.

Può sembrare una connessione spiazzante; in realtà è rivelatrice di come molti top player di ogni tempo abbiano una vocazione-predisposizione alla polivalenza, o, se vogliamo, alla “direzione d’orchestra” (allo “sguardo dell’aquila”), che poi viene declinata (per il caso, le circostanze, le interazioni con alcune persone anziché altre) in vari modi e tratti.

Semplificando brutalmente: ci sono gli “onnipresenti” come Di Stefano e Charlton, Falcao e ora Bellingham; ci sono i giocatori totali dalla cintola in su, come Cruijff, Zidane o Iniesta; e ci sono giocatori totali “difensivi” come il Kaiser o la sua eco italiana Franz Baresi. I confini tra queste categorie - fatalmente approssimative - sono in realtà molto sfumati; ma si tratta comunque di applicazioni diverse dell’universalità, di una superiore capacità “connettiva”.

Il Pibe stesso, se vogliamo, non ha perso del tutto quella vocazione originaria. Perché è vero che la sua visionarietà senza paragoni, servita da una tecnica senza paragoni, lo ha portato via via a sfornare non solo solo gol, ma più in esteso “soluzioni” quasi sempre irriproducibili, raramente modulari, tali da far materializzare il celebre aforisma di Einstein: «la logica ti porta da A a B; l’immaginazione ti porta dappertutto». Ma è anche vero, in fondo, che lui ha per certi versi solo avanzato di 30/40 metri quel dominio prospettico: ha preferito alle “uscite” di un grande libero o di un centrale difensivo - che possono diventare premesse, incubazioni di un contrattacco pericoloso - percussioni/incursioni direttamente letali, in cui il “pim” e il “pum” delle opzioni alternative si tramutano in modalità diverse per arrivare al passaggio-passepartout o al gol. Al riguardo - abbagliati proprio dai gol, da quei gol - troppo spesso tendiamo a rimuovere le illuminazioni, gli assist del Pibe de oro: vedi quello a Burruchaga nella finale di Mexico ’86 (col Kaiser sulla panchina tedesca) o i tanti del “tardo Maradona” a Napoli, come quello a Careca nella finale UEFA ‘89 contro lo Stoccarda.

Alla scomparsa di Diego, del resto, un Kaiser già malato rispondeva all’antico trasporto dell’atipico “allievo” non solo con definizioni di nobile routine («era più di un giocatore; era un artista»), ma anche con qualche ammissione a denti stretti: «è stato il mio problema più grande», con riferimento proprio alle finali Mondiali ’86 e ’90. Nonostante quella tangenza, però, lo sfasamento temporale-generazionale tra il Kaiser e Maradona rende la loro corrispondenza per così dire indiretta, “mediata”. Come è noto, la corrispondenza diretta, dentro il campo, è invece quella tra Beckenbauer e il “fratello” orange (così il Kaiser alla scomparsa di Johan Cruijff, il 24 marzo 2016).

…e il “fratello” olandese

Delle tante foto che riassumono e concentrano quella vicinanza, una le sormonta tutte: quella - oltre che iconica, pittorica, in senso strettamente figurativo- che li ritrae in perfetta coordinazione postural-gestuale - braccio destro e indice teso, a orchestrare i compagni - come fossero gli Orazi nel Giuramento di David. È un frame della sera del 7 marzo ’73 ad Amsterdam, uno dei quarti Champions più cult di sempre: nonostante la goleada ajacide, col team in stato di grazia per pressing, smarcamenti, continuità-fluidità di azione (un 4-0 che segna di fatto il passaggio alle semi, rendendo vacuo il 2-1 dei biancorossi al ritorno) quel match è una specie di linea di faglia, una staffetta dissimulata: l’Ajax vincerà quell’anno la sua terza Champions di fila (1-0 alla Juve a Belgrado), ma da quello successivo partirà il ciclo delle tre bavaresi (’74-’76).

Quanto il rapporto tra i due fosse profondo, lo riassume al meglio un intenso, commovente articolo scritto dall’olandese sul numero 166 di 11 Freunde, settembre 2015, in occasione dei 70° compleanno di Beckenbauer. Un articolo che arriva al Kaiser, forse, come un minimo lenimento, dato che ha perso da poco il figlio Stephan, appena 46enne, per un tumore al cervello; ma anche un articolo che Cruijff deve aver scritto, a sua volta, come un commiato, un ultimo saluto-abbraccio, dato che anche lui se andrà (per il noto tumore ai polmoni, con-causa le molte sigarette) pochi mesi dopo.

Partendo dall’evocazione dei loro due unici, ma memorabili, “incontri ravvicinati” (il citato quarto di Champions e la finale Mondiale ’74, in cui la Germania, battendo l’Olanda, bissa lo sgambetto di vent’anni prima a un’altra “squadra-totale” quale la grande Ungheria), Cruijff ricostruisce il crescendo della loro affettività reciproca, dal “rispetto istintivo” all’amicizia a un “legame sempre più forte”. Tra le tappe decisive, ricorda la loro frequentazione - tra seggiovie e lunghe cene - a Kitzbühel, luogo magico dello sci in cui il Kaiser risiede tra gli anni Ottanta e Novanta, e per tutti noi, va da sé, teatro di una delle più grandi imprese sportive di sempre: il secondo posto di Gustav Thöni nella libera sulla leggendaria Streif, a 3 millesimi dallo specialista Klammer.

Nel focus specifico sulle doti e i tratti del Kaiser, Cruijff ricorre poi a quell’inconfondibile capacità di sintesi e focalizzazione che caratterizza i suoi due libri “autobiografici” sui generis. A cornice e premessa, una decrizione che potrebbe valere per pochissimi “onnipresenti” (l’ubiquo Di Stefano) e che in parte rievoca la passione giovanile di Maradona: «[Beckenbauer] doveva vedere tutto, e per tutto aveva la responsabilità». Entrando nel dettaglio e specificando, Cruijff riconduce poi quel dover “vedere tutto” e quella “responsabilità” al fatto che B. fosse il giocatore deputato più di ogni altro, nei suoi team, a gestire le due fasi di un match: «Ancora oggi, resta centrale la domanda: cosa devo fare quando la mia squadra ha appena perso o riconquistato il pallone? Franz lo sapeva sempre!». Una consapevolezza a sua volta ricondotta a un’inimitabile «capacità decisionale», grazie a cui FB sapeva in ogni circostanza e situazione «quando poteva passare la palla con l’interno del piede e quando doveva calciarla in tribuna». E Cruijff non cita, lasciandole intendere implicitamente, le decine di altre opzioni/alternative risolte da quella capacità: riaccelerare/rallentare, lanciare profondo - col celebre esterno “all’ungherese - o toccare a terzini o punte in fraseggio rasoterra, scalare avanti o indietro (dinamica in cui, peraltro, era sorretto da una facoltà di ante-lettura sulle intenzioni dell’avversario quasi rabdomantica, come appare dai tanti video in Rete).

In coda, collegando l’eleganza del Kaiser (attributo abusato, ma innegabile) a un mix di “intelligenza e tecnica” che soppianta quello, tipicamente teutonico, fondato “sulla durezza e sulla forza”, Cruijff elogia infine la nettezza-onestà dei giudizi dell’amico, credendo di vedervi riflessa una dote speculare alla propria, il cui costo sociale è un comune isolamento: «In fondo, questa è una cosa che ci unisce, perché lo sappiamo entrambi: la vita lassù al vertice è solitaria».

In realtà, qui Cruijff sa di essere generoso, è pur sempre un commiato, e i due “fratelli” non potrebbero essere, al riguardo, più distanti. La parabola dell’ajacide è tutta all’insegna di un anarchismo-ribellismo - di un’insofferenza - mai davvero mediabile, pagata a caro prezzo ovunque: all’Ajax, al Barça, in Nazionale, con i board calcistici nazionali e internazionali. Il «più grande uomo di calcio di sempre» (mediando tra il giocatore, il coach e l’“intellettuale”) è insieme, in un cortocircuito unico, un allievo amorale del miglior Nietzsche, cioè portatore di una visione in cui non c’è mai ombra di paura, di risentimento, di scaramanzia idiota, di falsa umiltà, di meschinità piccolo-borghese; e un moralista nel senso classico, spinoziano, un pedagogo che sembra aver caro, più d’ogni altro, l’aspetto formativo di un giocatore - oltre che, specie negli ultimi anni, l’educazione estetica del pubblico e dei media.

Niente o poco di tutto questo nel Kaiser, in cui l’eleganza “anche fuori dal campo” sottolineata da Brian Clough - che lo vede entrare in un ristorante “con la stessa autorità e la stessa compostezza” emanate sul campo - è solidamente fusa a un “pragmatismo” non sempre semplice sinonimo di efficacia e realismo. Certo, anche il Kaiser coach e dirigente emette sentenze abrasive: esemplare quella sul Mourinho del Triplete, tacciato di cafonaggine («Chi indossa il cachemire, non si comporta necessariamente come un cavaliere») e irriso per la Nemesi feroce del suo “risultatismo” nella Manita subita al Camp Nou dal Barça di Pep. Salvo poi, qualche anno dopo, scagliarsi contro lo stesso Pep alle sue prime vere difficoltà a Monaco (la doppia semifinale Champions contro il Real di Carletto), con la stessa abrasività rovesciata, a base di stilettate da bar: gioco “boring”, possesso-palla “inutile” se non segni e lasci anzi occasioni all’avversario, e così via. A ben guardare, tutto coerente con la sua frase-cult tanto magnificata anche in queste ore («Non vince il più forte, ma chi vince è il più forte»), un sillogismo ambiguo, non così edificante e molto poco cruijffiano. E tutto questo a tacere di certi slittamenti del pragmatismo-realismo in zone di opacità legale: vedi i problemi di evasione fiscale “sanati” con la fuga al Cosmos a fine carriera; le accuse sui 4 voti “comprati” per far assegnare il Mondiale 2006 alla Germania; quelle, a contrario, su mazzette ricevute per dare il consenso a Russia 2018 (pagate dal parlamentare russo Sergey Kapkov). Tutti passaggi che invaliderebbero la rosea valutazione dell’’Équipe, secondo cui la soggezione del Kaiser, nel transito marsigliese, a un “bandito” come Bernard Tapie sarebbe “la seule fausse note” di una carriera impeccabile.

Non solo Olanda: la prima new wave tedesca

Eppure, nonostante questa diffrazione oggettiva, Cruijff e Beckenbauer sono davvero affratellati.

Ci sono cerniere biografiche profonde, a partire dalle prime sequenze delle loro parabole. Cruijff nasce nel ’47 (il 25 aprile) in un’Amsterdam post-bellica coi traumi ancora da elaborare-cicatrizzare, se il giorno della Liberazione (7 maggio ’45) i nazisti hanno mitragliato la folla in Piazza Dam (30 morti); e Beckenbauer nasce due anni prima (11 settembre), in un quartiere operaio, Giesing, di una città (Monaco) in larga parte in macerie, non troppo diversa dalla Berlino ripresa da Rossellini, proprio nel ’47, in Germania anno zero, il cui titolo allude alla Stunde Null, l’ “Ora zero” di cui parlano i tedeschi.

Tutti e due, non sembrano destinati al calcio in maniera lineare: il piccolo Johan ha la madre che lavora nella taverna dell’Ajax (la “squadra del ghetto”) e viene usato come caretaker (raccatapalle, lustrascarpe dei giocatori, addetto alle bandierine), ma a lungo andare non gli viene concesso di calciare perché - ricorda Galeano - «troppo gracile di fisico e troppo forte di carattere»; il piccolo Franz vede la freddezza del padre, Franz sr., un impiegato delle poste impermeabile al calcio, compensata dalla lungimiranza della madre, Antoine Hupfauf, che lascia invece liberi i figli di giocare («una grande donna», dirà anni dopo Walter, il fratello del Kaiser) e dello zio Alfons, giocatore del Bayern, che lo accompagna ai campi dell’SC Munich ’06, il cui stadio è vicino a casa. Campi in cui troverà, tra l’altro, un giovane coach-reduce, che ha perso una gamba in guerra ed è «più veloce con le grucce di come lo sarebbe coi suoi due arti»: Franz Neudecker, un “very fine man” che coglie per primo il grande talento del bambino e crede totalmente in lui.

Ma per avvicinare la vera cerniera tra Johan e Franz (decisiva per illuminare la parabola del Kaiser oltre i luoghi comuni) bisogna tornare a quella foto iconica, a loro due fusi in quell’eco figurativa: Johan col 14 criptato, Franz col 5, “il” suo numero (anche se in carriera ha usato anche il 4 - specie in Nazionale - e il 6), ovvero il numero di tanti altri polivalenti, da Falcao a ZZ a Bellingham. Dobbiamo cioè, zoomare sulla seconda metà dei Sessanta, momento in cui l’irruzione sulla scena deltotaalvoetbal olandese oscura o almeno vela altri break, o rivoluzioni minori, come quello del calcio tedesco. Senza la messa a fuoco di quel break, e della sua dialettica col totaalvoetbal, infatti, è impossibile comprendere la genesi del Kaiser, cultural-filosofica prima ancora che tecnica, e quindi della sua interpretazione innovativa del ruolo di libero o difensore-costruttore.

Beckenbauer indica la sua casa a Monaco, in Zugspitz Straße.

Secondo Jonathan Wilson, tutto decolla dopo la sconfitta tedesca nella finale di Wembley ’66, innesco di una metamorfosi filosofico-tattica che porterà in pochi anni a un rovesciamento riassunto prima in in un 2-3 nei quarti dei Mondiali messicani (grande gol del Kaiser) e poi, soprattutto, a un'Inghilterra-Germania 1-3 (qualifiche di Euro ‘72, sempre a Wembley) ritenuto dagli inglesi “traumatico” come il 3-6 subito dalla Grande Ungheria vent’anni addietro. È una sintesi fedele a metà.

Da un lato, è vero che in Germania nazionali non soddisfacenti portano strutturalmente a revisioni-rivoluzioni: e se questo succede dopo una vittoria (vedi il restyling verso le Academies dopo il successo a Euro ’96, sempre in Inghilterra, che la Federazione ritiene equivoco e poco “brilliant”), figurarsi dopo una débâcle come Wembley ’66, che pure avviene con molte attenuanti, a partire dall’arbitraggio e dal non-gol di Hurst. In effetti, quei sei anni segnano una cesura marcata: dopo quell’1-3, L’Équipe parla di “calcio che viene dal 2000”, con altri giornali che esaltano un gioco basato sul “grande ritmo” che muove la palla e “gli scambi di posizioni” dei giocatori, il tutto condensato nelle giocate esemplari del Kaiser stesso o dello “scapigliato” Günter Netzer; e il ct tedesco Helmut Schön vede i Leoni “congelati a sei anni prima”, ancora “combattivi” ma “inferiori tecnicamente”. Il contrappunto, però - e il paradosso è che a ricordarlo sia lo stesso Wilson - è che quel break non è avvenuto direttamente in Nazionale, ma è stato incubato (si è avviato) ben prima - anche del ’66 - in due club come il Borussia Mönchengladbach e il Bayern stesso. È un intreccio, quello della prima new wave tedesca, per certi aspetti vertiginoso, da seguire con attenzione.

Al Gladbach (Renania-Vestfalia), tutto ruota intorno a un vero Padre fondatore come Hennes Weisweiler, Direttore-docente, tra il ’57 e ’70, nella leggendaria Accademia di Colonia (dal 2005 intitolata a lui) in cui ha plasmato decine di coach tedeschi, a partire dal suo allievo più noto, Jupp Heynckes; ancora adesso, va da sé, l’Accademia prosegue in quel lavoro formativo e altamente selettivo (a ogni tornata passano solo 24 “prescelti” su 80 candidati), come mostra la qualità di allievi dell’ultima “generazione-Foresta Nera” come Klopp, Löw e Flick. Mentre insegna all’Accademiacome Fußball-Lehrer, Weisweiler costruisce al Borussia il primo grande ciclo (1964-75, con orgia di titoli), allevando un’impressionante covata di talenti (Bonhof e Vogst, Netzer e Wimmer, lo stesso Heynckes, l’imprendibile folletto danese Allan Simonsen e l’elegantissima ala Karl Del’Haye), ma soprattutto caratterizzando il team con un gioco fondato su un dinamismo fluido e corale e sulla polivalenza di giocatori in incessante interscambio, imprevedibile specie per assetti - come quelli italiani - legati all’“uno contro uno” in ogni zona del campo. Lo snodo decisivo, da estendere in larga parte anche al break bavarese, è che rispetto al totaalvoetbal olandese il gioco del Gladbach manca di altri tratti-chiave: il possesso, l’offside sistematico (invece adottato alla grande da Maestri belgi come Goethals e Thys) e soprattutto del pressing, che verrà davvero importato in Germania - ricorda Cristoph Bierrmann, il curatore dello scritto di Cruijff sul Kaiser - solo con la seconda new wave di coach neo-sacchiani: il mentore di Klopp, Wolfgang Franck, e il deus ex machina del mondo-Redbull, Ralf Rangnick. Il che spiega bene il crash di Weisweiler nell’unico anno di panchina blaugrana (’75-’76), all’insegna di forti contrasti con Cruijff, formato sul totaalvoetbal ajacide e oltretutto insofferente - come il resto della squadra - alle consegne gerarchico-meccaniche del tecnico renano.

Il Kaiser come lo conosciamo: dalle note di Čajkovski…

A Monaco, in quasi perfetta sinergia-simmetria, parte intanto un altro break in “lunga durata”, avviato e condotto sotto l’ala di un presidente visionario e ambizioso come Wilhelm Neudecker (’62-’79, per curiosa coincidenza lo stesso cognome del giovane coach di FB al Munich ’06)). L’innesco è dato da due tecnici croati di Zagabria, Zlatko Čajkovski, più o meno come il musicista russo (1963-68, nickname “Tschik”) e Branko Zebec (1968-70), tutti e due notevoli ex-giocatori, con connotati diversi.

Čajkovski, e questo è un dettaglio decisivo, è stato un difensore di complessione bassa e compatta (163 cm per 66 kg) ma dalla grandissima tecnica, con particolare sensibilità e precisione nei passaggi. Come coach, si diploma proprio all’Accademia di Colonia sotto Weisweiler, assorbendone i principi dinamico-posizionali e andando a farsi le ossa in Israele, Turchia e Olanda prima di tornare sul Reno e vincere addirittura la Bundesliga. A quel punto, Neudecker lo porta a Monaco, sapendo che si adatterà bene (“Tschik” ha un addiction, oltre che dalle sigarette, dai pasti a “birra & salsicce”) e confidando nel suo calcio “sperimentale e offensivo”. È nel suo quinquennio che nasce, non a caso, il BM leggendario fondato sull’asse composto dal portiere Sepp Maier (già lì dal ’62), dallo stesso Kaiser Franz, che arriva nel ’64, e dal centravanti Gerhard “Gerd” Müller (nello stesso anno), ex operaio in una fabbrica tessile (fa turni di 12 ore al giorno) che i primi coach ritengono negato al calcio in quanto “nano traccagno” dagli sproporzionati quadricipiti da pesista.

Ed è proprio “Tschik” a plasmare per primo nel Kaiser il giocatore che conosciamo, come riassumono alcuni passaggi-chiave. Nella citata finale del Mondiale ’66, un Beckenbauer ventenne (col 4 sulla maglia), è ancora un centromediano puro, che in quel match deve sacrificarsi sul grande Bobby Charlton (i due si elideranno a vicenda) ma che di norma imposta “avanzato”, contando sulla copertura del libero Schulz. Čajkovski - da ex difensore di costruzione-rilancio - rimane colpito dal suo mix di qualità fisico-atletiche (181 cm per 79 kg, per i tempi una complessione né bassa né fragile), varietà e finezza tecnica, capacità di lettura previsionale delle situazioni: e parlandone con lui (che a sua volta ne parla con Schön) contribuisce ad arretrarne la posizione per ampliare ulteriormente il grandangolo (ricordiamo, di nuovo, l’incipit del Pibe). Un ridisegnamento che troverà la quadratura proprio a partire dal ’66 con l’arrivo al Bayern di Hans-Georg Schwarzenbeck, il titanico “stopper” che consentirà al Kaiser di giocare da libero-mediano, cioè difendendo e insieme “sganciandosi”, in evoluzione rispetto al ruolo ricoperto fino ad allora.

Zlatko Čajkovski e Franz Beckenbauer.

Anni dopo, ricordando quello “switch”, FB sottolineerà proprio come sia stato risolutivo l’aver cominciato da mediano, in quanto anche da “libero” - dizione, a questo punto, quanto mai riduttiva - ha poi sempre giocato più concentrato sulla costruzione che sull’interdizione, con mente sgombra da ansie prettamente difensive. Fondamentale, in questo passaggio, è notare come qui Čajkovski operi allo stesso modo di Michels all’Ajax, vedendo in Franz un perfetto equivalente dei centrali ajacidi di fraseggio; prima il serbo Velibor Vasović, poi il tedesco (di Heidenheim) Horst Blankenburg, grande interprete del ruolo (lo ricorda, oggi, l’ultimo Stones del City di Pep, che ha anche tratti alla Hulshoff), ma sempre chiuso, in Nazionale, proprio dal Kaiser. È un tratto da memorizzare: qui, le sagome di Cruijff e Beckenbauer nella tanto citata foto iconica del marzo ’73 collimano in pieno: comprendiamo come il Kaiser avrebbe tranquillamente potuto essere un ajacide o un orange (più difficile, anche se non impossibile, il contrario per Cruijff).

Ancora meglio di “Tschik” come calciatore (qualcuno ne favoleggia addirittura come di un simil-Cruijff più arretrato, ma parliamo comunque di un terzino-ala sinistra goleador, avvantaggiato da una corsa-monstre: i 100 in 11’’netti palla al piede), Zebec è come coach un “rivoluzionario morbido”, meno incline di “Tschik” al possesso (a sua volta in ogni caso sempre lontano da quello ajacide), ma vero innovatore nel training, tra “durissima fitness” e disciplina ferrea, oltre che più pragmatico e meno “giochista”. Durerà poco- nonostante gli ottimi risultati- per un rapido deterioramento dei rapporti col gruppo, acuito anche dall’aggravarsi della sua dipendenza dall’alcol.

Il punto è che nell’ottica di Neudecker la “connection croata” porta al club, insieme alla fondazione di uno stile, un consistente palmares “interno” (Čajkovski, oltre alla salita in Bundesliga, due Coppe nazionali; Zebec, in meno della metà del tempo, due Bundesliga e una Coppa), ma carenti risultati internazionali: la sola Coppa Coppe di “Tschik” contro il Rangers Glasgow, ’66-’67. In definitiva, il presidente vuole la Champions, imprescindibile per il definitivo leap di “status” del team. E la Champions arriverà, per tre edizioni di fila (’74-’76), ma con tecnici tedeschi, secondo un processo paradossale - semine “esotiche”, raccolti “autoctoni”- rivisto di recente, col calcio posizionale di van Gaal e Pep che prepara il terreno per le Champions di Hitzfeld, Heynckes e Flick. È come se per vincere il Bayern dovesse “temperare” le importazioni-acquisizioni periodiche, ruminarle e metabolizzarle nel proprio (teutonico) calcio meta-storico fatto di “strenght and eagerness”: fisicità, equilibrio, concretezza.

A ben guardare, tutto torna. Abbiamo visto come il break della prima new wave tedesca fosse privo dei tratti costuitutivi del totaalvoetbal, cioè possesso, con la parziale eccezione di Czic, pressing e offside: come le innovazioni posizionali e l’affinamento tecnico-dinamico (cui aggiungiamo il drastico abbassamento anagrafico dei roster: il primo Gladbach di Weisweiler ha un’età media di 21 anni) dovessero convivere proprio coi tratti di un calcio classico, essenziale, da Bauhaus o da quartetto di Haydn (proprio L’Imperatore, eletto non a caso a inno tedesco). Oppure, passando a paralleli già avanzati, più pop-rock, potremmo ricordare nel totaalvoetbal l’equivalente- oltre che del coevo cinema di Kubrick, anche solo per A Clockwork Orange e - dei primi album dei Pink Folyd, Ummagumma o Atom Heart Mother: parallelo non casuale, dato che l’adozione dell’ur-calcio totale ajacide avviene sotto il segno di tecnici britannici come Jack Reynolds e Vic Buckingham. Mentre potremmo vedere nel “nuovo calcio” tedesco dei secondi Sixties un equivalente dei più geometrici Kraftwerk, magari con qualche speziatura di Tangerine Dream, o - pensando al ribellismo anarco-libertario di Netzer, fin da look e outfit - dei più acidi, eversivi Faust.

…al calcio totale “ben temperato”

Com’ è noto, la tradizione vuole che Beckenbauer diventi il Kaiser in una celeberrima istantanea dopo un’amichevole a Vienna nel ’68, che lo ritrae vicino alla statua di Franz Joseph I, da cui il nickname di Fußball- Kaiser, poi contratto semplicemente in (Der) Kaiser. Per alcuni, questa è una versione distorta, se non una leggenda metropolitana. Tra le versioni alternative, c’è quella che vede il nickname derivare dalla somiglianza di FB con Ludwig II di Baviera, il sovrano alienato oggetto di un famoso film di Visconti con Helmut Berger. Oppure c’è la radicale contestazione del magazine Welt Am Sonntag, secondo cui il nickname deriverebbe dalla finale di Coppa di Germania ’69 contro lo Schalke, in cui Beckenbauer umilia, stalkerizza la star Reinhard Libuda, soprannominato König von Westfalen, “il Re di Westfalia”; al che, ha chiosato di recente John Ashdown sul Guardian, i media tedeschi si rendono conto di come “only an emperor could overshow a king” («Solo un imperatore può oscurare un re»).

L'imperatore e l'imperatore.

Comunque sia andata - l’ultima versione parrebbe la più verosimile - da quel momento FB non diventa solo la dorsale mobile, il “centro erratico” del Bayern così come Cruijjf lo è dell’Ajax: diventa, di fatto, un giocatore-CEO, un boss ancora più pervasivo di quanto non sarà un manager come Sir Alex allo United. La prova più eclatante è che sia lui a scegliere, a tutti gli effetti, i due tecnici successivi, con board e ambiente molto scettici. Si tratta, in tutti e due i casi, di ex-vice di Helmut Schön nella Germania; per il Kaiser, quindi, sono dei “mastici” ideali tra club e Nazionale. Nel caso del primo, il leggendario Udo Lattek, quel pedigree dovrebbe bastare a convincere chi obietta che Lattek, fino a quel momento, non ha allenato alcun club. Il che vale anche per il secondo, Dettmar Cramer (solo un pasaggio all’Hertha), con cui però il Kaiser ha un legame più tortuoso: secondo versioni accreditate, tutto risalirebbe a diversi anni addietro, quando il 18enne Beckenbauer- messo fuori rosa dalla Nazionale giovanile per il rifiuto di sposare la girlfriend del tempo, da lui messa incinta- viene reintegrato proprio grazie alla mediazione di Cramer. Fatto sta che - con Lattek e Cramer - al Bayern riesce l’ultimo leap voluto dal presidente Neudecker.

Lattek è un “east-man” di Bosemb, allora Prussia orientale, oggi Polonia, con tratti comuni ai due predecessori croati: con Čajkovski condivide la formazione all’Accademia di Weisweiler; con Zebec la velocità di corsa (anche lui 11’’netti sui 100), solo che essendo molto meno tecnico del croato è giocatore più scompensato («ero spesso più veloce della palla»). Vista nell’insieme, la sua parabola è da genialoide itinerante-vincente (16 titoli in tutto): dopo il primo ciclo al Bayern (in cui rastrella tre Bundesliga e la Champions), finirà proprio al Gladbach del Maestro, proseguendone i successi, quindi al Barça (vari trofei tra cui una Coppa Coppe) prima del secondo ciclo a Monaco (altre tre Bundesliga e due Coppe di Germania). Il suo arrivo post-Zebec, coincide con l’introduzione di due novità rilevanti: l’inaugurazione della maxi-sede da 70.000 mq di Säbener Straße (campi di training, uffici, ristorante sociale, palazzetto dello sport); e il nuovo Stadio Olimpico in luogo di quello glorioso ma obsoleto di Grünwalder Straße (che durerà fino al 2005, anno del passaggio al bianco-Apple dell’Allianz Arena).

È la cornice ideale per il citato leap in Champions, vinta nella mitica doppia finale del ’73-’74 contro l’Atletico di Lorenzo (Aragones arriverà l’anno dopo); un’altra Lattek la perderà molto più tardi, nell’'87 al Prater, contro il Porto di Jorge, beffato dal tacco di Madjer. La chiave del suo successo - oltre a una notevole sapienza tattica - è soprattutto nel saper utilizzare al meglio la maturazione dell’amalgama avviato dai croati: sotto di lui, gli automatismi-sincronismi e l’associarsi per memoria implicita (“subliminal”) toccano livelli mai raggiunti prima, a cominciare dall’intesa Kaiser-Schwarzenbeck nello sganciarsi/coprire. In più, inserisce nel team titolare due altri tasselli-chiave: il fluidificante “beat” Paul Breitner, il “comunista” del gruppo, equivalente di Netzer al Gladbach; e il massccio Uli Hoeneß, più tardi tra i presidenti più carismatici (e controversi) del club.

Con Beckenbauer, Lattek ha in comune la perdita precoce del figlio Dirk, per leucemia (ma a soli 15 anni) e un declino segnato dal Parkinson.

L’entrèe di Cramer, che gli succede dopo un lungo apprendistato in Giappone (dove è tutt’oggi mitizzato per aver sviluppato il movimento-calcio), Egitto e Usa, viene a volte paragonata a quella di Stefan Kovács (duramente criticato da Cruijff) all’Ajax del post-Michels: una raccolta di messi da semine precedenti (tutti e due “rastrellano” due Champions), in cui l’aspetto di intelligente gestione prevale su un originale contributo tattico/creativo. È una visione, nell’insieme, riduttiva. Però è indubbio che come in quell’Ajax - o come nel primo Milan capelliano - l’architettura-Bayern che Cramer eredita dalla costruzione dei croati e di Lattek ha ormai raggiunto gradi di auto-organizzazione del sistema talmente elevati da non necessitare d’altro che di messe a punto o affinamenti.

Lì il Bayern tocca un equilibrio- simboleggiato dall’apogeo stesso del Kaiser Franz- riassumibile nella formula di calcio totale “ben temperato”, dove, in coerenza con quanto detto prima, l’attributo del clavicembalo bachiano conti più della familiarità colla rivoluzione olandese. Quel tipo di calcio, trasferito (e personalizzato) dal saggio Schön nella RFT con le integrazioni del caso (i giocatori stessi del Gladbach) costituirà il più grande ciclo di una Nazionale prima dell’avvento della Spagna-Barça di Del Bosque: semifinale con l’Italia a Mexico ’70, vittoria a Euro ’72 (demolendo in finale l’URSS), vittoria ai Mondiali in casa del ’74 contro l’Olanda di Cruijff, finale a Euro ‘76 persi ai rigori contro la Cecoslovacchia, sigillo l’iconico cucchiaio di Panenka a Maier. Non è sorprendente, quindi - e senza nulla togliere al suo magistero - che Cramer sia ricordato oggi in primo luogo per i nickname fioriti sulla sua complessione minuta (161 cm per 53 kg), come der laufende Meter,“il metro che cammina” o il “Napoleone del calcio” (qui anche con una più lusinghiera allusione alla sua sottigliliezza strategica, in contiguità con un altro nickname, der Professor), tanto che nei tunnel dell’Olimpico svettava una sua foto in abiti da Bonaparte.

Exit: Requiem per un Imperatore

Il bilancio del Kaiser al Bayern è esaltante ai limiti dell’intimidatorio: tra ’64 e ’77, 427 match, 60 gol, nessuna espulsione: sull’ultimo aspetto, il libero più contiguo a lui è senz’altro Gaetano Scirea. E al Bayern - come club non tanto dell’establishment, ma come il più adatto a un conservatore che vota dichiaratamente CDU/CSU, in pratica un democristiano - sarebbe alla lunga, probabilmente, finito in ogni caso. Anche se va ricordata, tra le pochissime sliding doors della sua parabola, la biforcazione iniziale: ovvero quando il Franz 13enne, ragazzino smanioso di giocare per l’adorato München 1860- allora squadra leader della città - ne affronta gli under-14 in amichevole a Neubibergh coi suoi compagni del Munich ’06, restando coinvolto in una rissa e beccandosi un cartone (o uno schiaffo: le versioni divergono) da un avversario, Gerhard König, così da virare al Bayern per ripicca. Anche se altri, più prosaicamente, riconducono la virata alle molto maggiori disponibilità economiche dei biancorossi.

Quella parabola, sotto la linearità fulgida e insieme quasi glaciale della “carriera”, ha avuto fuori dal campo momenti delicati e difficili: tre mogli e cinque figli, le controversie citate, un tratto finale che ha visto succedersi la perdita precoce di un figlio, l’irruzione del Parkinson, le due operazioni cardiache, l’infarto oculare con la quasi-cecità a destra. Una parabola scandita, più che da sliding doors, dai tanti diversi luoghi di residenza: gli anni ’70 a Grünwald, sobborgo di Monaco noto per i Bavaria Film Studios, l’opulenza “brianzola” (le ville dei ricchi) e la vicinanza a Gräfelfing, il paese dell’“ispettore Derrick” Horst Tappert; il quinquennio ’77-‘82 a Sarnen, paese lacustre-fiabesco del cantone svizzero di Obvaldo; il periodo successivo- quello degli incontri con Johan- nel distretto di Kitzbühel, Tirolo austriaco, per la precisione a Oberndorf, altro luogo paradisiaco tra nevai immacolati (global warming permettendo) e camosci; e dal 2005, a Salisburgo.

Il Kaiser a Oberndorf.

Quasi certamente ha ragione il noto giornalista sportivo Marcel Reif quando ricorda a ZDF che Beckenbauer «ha sempre saputo da dove veniva: era il ragazzo di Giesing andato per il mondo»: infatti, in questi giorni , il suo quartiere d’origine è coinvolto più di altri dal lutto, come riassume la candela accesa davanti all’edificio di Zugspitz Straße, 6, accompagnata dal biglietto “Danke, Franz”. Ma nessuna città è più adatta, per l’ exit, di Salisburgo: lì sono nati Mozart e Von Karajan, creatore e interprete ideali per il requiem di un Imperatore.

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