Fino a qualche anno fa, diciamo prima della perdita dell'innocenza con “lo scisma di Harden”, gli Oklahoma City Thunder erano la squadra più sexy d'America: tutti giovani, tutti atletici, tutti forti, tutti bravi ragazzi, tutti simpatici, tutti, soprattutto, vincenti. Non si poteva parlar male di loro, erano quella che gli americani chiamano una feel good story—o, come celebrava una copertina del New York Times Magazine: «A basketball fairy-tale in Middle America». L'uomo franchigia era (ed è) Kevin Durant, unanimemente riconosciuto come il secondo miglior giocatore della NBA in questo momento dietro a LeBron James e l'emblema del bravo ragazzo. Per quanto stia cercando di togliersi questa etichetta di dosso, non si può voler male a KD: ha la faccia pulita, le braccia sgombre di tatuaggi (il torso invece...), un gioco elegante e uno stile impeccabile. Ma non è di lui che vogliamo parlare qui. Qui vogliamo parlare dell'altra metà della luna degli Oklahoma City Thunder, il capro espiatorio, l'uomo che—secondo molti—“impedisce” a Durant di vincere dei titoli NBA. Il suo nome è Russell Westbrook.
Se Durant è il bravo ragazzo, elegante, quasi poetico nel suo modo di muoversi in campo e nel rilascio della palla, Westbrook è il suo opposto. Russell attacca, è diretto, non guarda in faccia nessuno. Il suo gioco è uno sporco mix di atletismo ed elasticità, procede a strappi, la sua meccanica di tiro non è fluida, la sua selezione di quando e come tirare è quantomeno rivedibile. I suoi detrattori non lo sopportano, principalmente, perché è qualcosa che va contro il sentire comune. Gioca nel ruolo di point guard, ovvero quella che anche nell'accezione più moderna risulta essere la posizione di colui che dà inizio all'attacco, che mette in ritmo i propri compagni, il direttore d'orchestra. Quello che dovrebbe fare più assist che punti. Invece Westbrook è una point guard che prima e più di ogni altra cosa tira, ed è un freak atletico. Una copertina di SLAM Magazine, la bibbia del basket USA, mostrava una foto di lui seduto con graffi sulle braccia («mi rendono più figo») e il sottotitolo: «Revolution of the point guard». Lui, invece, definisce così il suo ruolo: «Il mio obiettivo è coinvolgere tutti i miei compagni e allo stesso momento essere aggressivo. Interpreto il mio ruolo in maniera diversa rispetto a un Rajon Rondo, un Chris Paul o un Tony Parker. Il mio stile è quello di attaccare e mettere pressione sulle difese. Conosco un solo modo di giocare: alla massima velocità». In realtà, la frase che meglio definisce Russell Westbrook l'ha detta lui stesso in un'intervista con Ahmad Rashad: «La mia definizione di cosa è giusto e cosa è folle potrebbe non combaciare con la vostra idea di cosa è giusto e cosa è folle».
L'infanzia del freak
Dell'infanzia californiana di Russell Westbrook non si sa molto. A differenza di molte altre stelle NBA, di cui si sanno vita-morte-e-miracoli sin dalla più tenera età, la letteratura sul numero 0 dei Thunder è abbastanza limitata. Questo è dovuto ad almeno tre fattori. Il primo: Westbrook odia i giornalisti e i media, e si concede abbastanza raramente, per quanto poi risulti un conversatore abbastanza piacevole quando ha voglia di “aprirsi”. Il secondo: ha avuto un'infanzia complicata, ma non segnata dalla povertà—ha una famiglia solida, con entrambi i genitori, ma senza grandi storie da poter raccontare, se non le sue folli routine di allenamento. Terzo: Russell Westbrook, fino al suo secondo anno di liceo, non era questo Russell Westbrook, anzi. Quando al suo allenatore di high school viene chiesto «Ma come hai fatto a non vincere avendo Westbrook in squadra?» risponde un semplice «carissimi, quello che io avevo tra le mani era un ragazzino di 1.73 e 63 chili, non la bestia che vedete adesso». In effetti alla Leuzinger High School la stella della squadra era un altro giocatore, vale a dire Khelcey Barrs III—e in quel nome sta l'unica “storia” del suo passato che Westbrook ha voluto raccontare in questi anni.
Khelcey era il suo miglior amico, vicino di casa e compagno di squadra: un grande talento, lungo e atletico, capace di andare in prima squadra già nel suo primo anno di liceo e di andare in campo a 14 anni contro gente di tre anni più grande di lui, cosa che non succede così spesso neanche con i talenti destinati alla NBA (celebre l'aneddoto dell'allenatore che impedì il passaggio in prima squadra al 14enne Michael Jordan...). Diverse squadre di college già erano interessate a offrirgli una borsa di studio, ma il sogno di Khelcey e Russ era quello di andare a UCLA, la leggendaria università losangelina. Nel maggio del 2004, i due vengono portati dal loro allenatore a Los Angeles Southwest College per partecipare a delle partitelle che vedevano coinvolti anche giocatori universitari. In quell'occasione, secondo i testimoni, Khelcey dominò gli avversari e si dimostrò il miglior giocatore in campo, sostanzialmente certificando il suo futuro da giocatore di Division I. Dopo le partitelle, quando Westbrook era già andato via, stava chiacchierando con compagni e avversari a bordo campo e si accasciò all'indietro, andando in arresto cardio-circolatorio. Non si svegliò più. Aveva 16 anni. La diagnosi fu di cardiomegalia, reso in termini più immediatamente comprensibili dall'inglese “enlarged heart”, una condizione patologica che può avere origini sia congenite che fisiologiche dopo un lungo sforzo. Da quel giorno Westbrook ha iniziato ad aiutare la famiglia di Khelcey e porta, ogni singolo giorno, un braccialetto con le iniziali “KB3”. «Voglio che la gente sappia che Khelcey poteva essere il giocatore più forte del paese, e sarà sempre parte della mia vita» le sue parole conclusive sulla questione.
La storia di Khelcey Barrs III, con sottotitoli in cinese.
Dopo il liceo, Westbrook riesce effettivamente a coronare il suo sogno e va a UCLA, sebbene nessuna grande università si presenti inizialmente alla sua porta. Anzi, per Russ il basket non era nemmeno la sua prima preoccupazione, o l'unica ragione di vita: «Ero uno school nerd, volevo andare a Stanford e studiare, non pensavo ad andare in NBA. Poi sono diventato abbastanza bravo, ho ricevuto una scholarship e sono andato a UCLA». Le cose non sarebbero andate meglio: nel suo primo anno non ha praticamente mai giocato, racimolando solo 9 minuti di media in 36 partite, venendo considerato uno specialista difensivo e un energy guy in uscita dalla panchina. Nel secondo, in compenso, dopo l'infortunio del titolare Darren Collison, Westbrook ha iniziato a farsi un nome. Nei due anni a UCLA raggiunge due Final Four del torneo NCAA, fermandosi entrambe le volte in “semifinale” prima contro i futuri campioni di Florida nel 2007 (solo 2 punti in 8 minuti per lui), poi contro Memphis di Derrick Rose. In quella partita Westbrook segna 22 punti, prende 3 rimbalzi, dà 2 assist e ruba 2 palloni ma perde, nonostante in squadra abbia nientemeno che Kevin Love, attualmente la miglior ala forte della NBA. A fine anno le cifre parlano di 12 punti, 4 rimbalzi e 4 assist di media, che sono sì buone, ma niente di eccezionale. In lui però vede qualcosa Sam Presti, il GM degli Oklahoma City Thunder, che nonostante un provino pessimo («In assoluto il peggiore della mia vita», lo definisce Westbrook) lo prende con la scelta numero 4 in quello che è probabilmente il vero capolavoro dei suoi pittorici Draft consecutivi dal 2007 al 2009 (Durant-Westbrook-Ibaka-Harden in tre anni, impossibile fare meglio di così).
Westbrook ai Thunder
La sua avventura ai Thunder è cosa recente e ben nota: anno dopo anno il gruppo formato dai quattro di cui sopra cresce e si impone ai massimi livelli della Western Conference. Dal 2010 al 2012 vengono eliminati ai playoff solo dai futuri campioni NBA: al primo turno dai Los Angeles Lakers nel 2010, in finale di Conference dai Dallas Mavericks nel 2011 e in Finale NBA contro i Miami Heat nel 2012. Kevin Durant vince tre titoli di capocannoniere consecutivi; Serge Ibaka per due volte quella degli stoppatori, più un secondo e un terzo posto nella classifica dei migliori difensori NBA; James Harden è il Sesto Uomo dell'Anno per la stagione 2011-2012. Il pubblico della Chesapeake Energy Arena di OKC si impone come uno dei più rumorosi e caldi della Lega, sebbene non avesse masticato basket NBA fino a qualche anno prima (il “trasferimento” della franchigia da Seattle a Oklahoma City è argomento lungo e doloroso...), e in giro per la NBA si inizia a parlare apertamente di “modello Thunder” quando una squadra decide di tankare (ovvero perdere deliberatamente per avere scelte migliori al Draft) e ricostruire da un nucleo giovane, specialmente per i cosiddetti “piccoli mercati” televisivi e mediatici, come è sicuramente la rivedibile Oklahoma City.
Certo, avere Kevin Durant aiuta, ma il successo del numero 35 è inscindibile da quello della sua franchigia e dei suoi compagni. I Thunder hanno preso il modello dei San Antonio Spurs (Sam Presti è stato per anni assistente GM di R.C. Buford in Texas, e da quelle parti dicono che sia stato il 25enne Presti a scegliere tale Tony Parker alla 28 nel 2001) e lo hanno ulteriormente migliorato, tramite una straordinaria capacità di sviluppare il talento giovane a disposizione e la scelta di veterani adatti a giocare con loro. Dalle 23 vittorie del 2008-2009 (primo anno di Westbrook) sono passati alle 50 della stagione successiva, vincendo da lì in poi almeno il 60% delle partite ogni anno, ovverosia la percentuale che ti eleva automaticamente al rango delle tre o quattro contender, cioè coloro che ogni anno puntano a vincere il titolo con concrete possibilità di riuscirci. Partiti dal nulla (letteralmente: prima dell'uragano Katrina del 2005 non c'era nemmeno l'idea di portare una franchigia a OKC) sono arrivati a giocare per l'anello con una rotazione dall'età media di 23 anni e mezzo e un monte salari di appena 60 milioni di dollari, il sogno di qualunque GM della Lega.
Stay angry, Russell
Volendo estendere il paragone tra gli Spurs e i Thunder anche ai loro giocatori più importanti, Kevin Durant è sicuramente Tim Duncan, il leader silenzioso amato da tutti che guida con l'esempio; James Harden era sicuramente Manu Ginobili, il mancino in uscita dalla panchina capace di cambiare la gara e diventato “culto” per la sua barba; Russell Westbrook, per forza di cose, è il primo Tony Parker, ovvero lo “scavezzacollo” che va fuori controllo, che attacca come un matto, che “fa casino” e magari rischia di farti perdere la partita ma di cui non puoi fare a meno. Magari, ora che Tony Parker viene considerato tra i primi 5 giocatori della Lega, non lo ricordiamo, ma una volta la sua nomea era di un francese stizzoso che non eseguiva gli schemi e veniva severamente cazziato da Gregg Popovich per le sue improvvisazioni. Westbrook è più forte e più decisivo per le sorti della sua squadra rispetto al primo Parker, ma nonostante nessuno possa sostituire le sue qualità, viene cazziato e criticato in maniera uguale e forse anche maggiore.
Purtroppo, in ogni squadra “perfetta”, ci vuole qualcuno con cui prendersela se le cose non vanno bene, e quel qualcuno è inevitabilmente Russell Westbrook. Intendiamoci: la gente di OKC lo adora, lo ha adottato come un figlio ed è questo tipo di affetto che lo ha portato ad accettare un contratto leggermente più basso rispetto al massimo possibile quando ha esteso il suo accordo coi Thunder, proprio per avere la possibilità di vincere a OKC e di farlo con gli altri compagni, per lui diventati “fratelli”. E Westbrook non è semplicemente forte, è fortissimo. Basta vedere l'ultima delle sue prodezze, ovvero il canestro allo scadere contro i Golden State Warriors. Nel momento in cui Serge Ibaka tira, Westbrook sta tagliando alle spalle del suo difensore per smarcarsi verso la linea dei tre punti, a circa sei metri dal canestro. Non appena vede che non può ricevere il pallone, immediatamente cambia direzione e scatta verso il ferro per andare a prendere un rimbalzo che lui–e solo lui–potrebbe pensare di andare a prendere tra le point guard in NBA. Lo strappa dalle mani di Jermaine O'Neal (che pur senza l'atletismo di un tempo rimane 211 cm x 115 kg), raccoglie il salvataggio (altrettanto miracoloso) di Thabo Sefolosha con una reattività insensata e, con le spalle al canestro, disorienta Harrison Barnes con una finta, gira sul piede perno sistemato un millimetro oltre la linea dei tre punti e segna il tiro della vittoria. In un'azione c'è tutto Westbrook: la forza fisica e l'atletismo nell'andare a contestare quel rimbalzo, la determinazione e la ferocia nel recuperare un pallone che sembrava perso, il talento istintivo nel disorientare il difensore e contemporaneamente sistemare i piedi per il tiro e le palle di segnare un canestro del genere. Il tutto quando, invece di uscire dalla linea dei tre punti per un difficile tiro da tre allo scadere, la logica avrebbe suggerito un comodo e normale appoggio da due punti, in modo da pareggiare la partita e mandare tutti al secondo supplementare. Il suo commento? «Io non vado per il pareggio. Non c'è bisogno di andare per il pareggio».
Nonostante canestri del genere li possano segnare solo una manciata di giocatori al mondo, Westbrook è e rimane oggetto di critiche aspre e feroci da molti dei suoi detrattori. Le principali accuse che gli vengono rivolte provengono principalmente dall'esterno di OKC (media, tifosi, appassionati ecc...) e riguardano la sua selezione di tiri, il mancato coinvolgimento dei compagni (in particolare Kevin Durant) e la sua tendenza a perdere molti palloni. Posto che tutti e tre gli argomenti hanno delle motivazioni più che sensate, proverò qui a smontare le argomentazioni su questi tre punti appoggiandomi su dati statistici.
Dicono: “Si prende troppi tiri”
Westbrook è indubbiamente un giocatore che tira tanto e spesso. In carriera ha una media di 16,4 tiri tentati a partita, cifra che si alza fino a quasi 19 negli ultimi quattro anni, più di qualsiasi altra point guard in NBA che non si chiami Derrick Rose. Contando i 4.400 tiri totali tentati sempre nello stesso arco di tempo, ci sono solamente due giocatori ad averne tentati di più in NBA: i loro nomi sono Kobe Bryant e Kevin Durant. Oltre a tirare molto, Westbrook ha anche percentuali dal campo non entusiasmanti (43% dal campo in carriera, 30% da tre).
Westbrook nell'attacco dei Thunder gestisce tantissimi palloni: le nuove telecamere di SportsVU e i dati forniti a NBA.com ci dicono che in questa stagione ha una media di 71,2 “tocchi” nella metà campo offensiva, 13esimo nella Lega, e tiene il pallone per un totale di 6,6 minuti a partita, quinto in NBA (Kevin Durant, per fare un paragone, si attesta sui 56 tocchi e 2,9 minuti di possesso). Nonostante questa mole di possessi enorme, riesce a essere molto efficace: produce 0,30 punti per tocco in attacco, un dato che tra le guardie solo James Harden (0,40), Monta Ellis (0,36) e Steph Curry (0,31) superano.
Da rimbalzo a schiacciata dopo un coast-to-coast: 5 secondi netti
Le situazioni principali da cui arrivano questi punti sono sicuramente le penetrazioni e i pull-up jumper, ovvero il vecchio caro palleggio-arresto-tiro. Westbrook attacca il ferro 7,7 volte a partita (nono in NBA), anche se in questa stagione sta facendo molta fatica (sotto il 24% al tiro in queste situazioni, il peggiore in NBA tra quelli che ne provano almeno 3 a partita), principalmente per la ruggine dovuta al ritorno (affrettato?) dall'infortunio al menisco dello scorso aprile. Dal palleggio-arresto-tiro, invece, ricava 9,6 punti a partita, terzo in NBA dietro a Steph Curry e Chris Paul, situazione nella quale è piuttosto efficace (37,5% al tiro, nella top 20 tra quelli che ne tentano almeno 5 a partita) ma delle quali, spesso, abusa (in situazione di pick and roll, se ha spazio dopo aver “girato” sul blocco, è quasi automatico che parta il tiro, spesso nei primi secondi dell'azione e senza che nessun compagno abbia toccato la palla).
La sua capacità di attaccare il ferro e l'assoluta mancanza di paura nel prendere contatti da gente molto più grossa di lui lo rendono, in compenso, una macchina da liberi impressionante: in questa stagione ne tira 7,4 a partita, ottavo in NBA (solo Ty Lawson di Denver ne tira di più tra le point guard) e in carriera ha un rapporto tra tiri liberi tentati e tiri dal campo tentati di 0,383, quasi 10 punti percentuali in più di Derrick Rose (o,281), tanto per citarne uno che attacca il ferro in maniera comparabile. Una volta in lunetta, poi, Westbrook si mantiene costantemente sopra l'80%, dato che insieme ai numeri impressionanti di Kevin Durant e, quando ancora c'era, di James Harden, ha reso gli Oklahoma City Thunder la squadra che negli ultimi quattro anni non solo ha tirato più liberi (6.747, +9 rispetto a Denver), ma anche quella che ne ha segnati di più in NBA—5.531, quasi 600 (!) più dei secondi.
Westbrook è una point guard che ha come primo obiettivo quello di tirare, specialmente con soluzioni personali (solo 644 dei suoi canestri in carriera sono arrivati da assist dei compagni, meno del 22% del totale). Questa è sicuramente la sua forza ed è su questo che i Thunder hanno basato il loro gioco offensivo: Oklahoma City non ha avuto il miglior attacco della NBA (110,9 punti su 100 possessi) nelle ultime quattro stagioni nonostante gli errori e le brutte percentuali diWestbrook, ma proprio per la capacità dei vari Westbrook, Harden e Durant di creare dal palleggio e mettere in crisi le difese avversarie. I Thunder hanno bisogno che il numero 0 si prenda così tanti tiri, perché il loro attacco è strutturato in modo tale che la maggioranza dei tiri vengano presi da quei tre (ora rimasti in due) e dall'efficacia dei “giocatori di complemento” come Ibaka, Sefolosha e Collison dai loro scarichi.
Sia chiaro: Westbrook si prende un sacco di brutti tiri. Si prende talmente tanti tiri che lo fa anche quando gioca a NBA 2K, come mi ha raccontato il produttore del videogioco Rob Jones («Vederlo giocare è impressionante, è come nella realtà: prende il suo alter ego e cerca di segnare 50 punti ad ogni partita»). Ci sono occasioni in cui i suoi stessi compagni lo prenderebbero a schiaffi («a volte lo ammazzerei», ha dichiarato in tempi non sospetti Kendrick Perkins). Ma nel grande schema delle cose i Thunder vivono e hanno bisogno di quei tiri. Se togliessero quelle conclusioni a Westbrook non solo lo danneggerebbero (visto che il suo forte è segnare, come abbiamo visto), ma danneggerebbero pure l'intera squadra, costringendo quei giocatori di complemento, presi apposta per vivere degli scarichi delle stelle, a prendersi più responsabilità (e quindi “facendo vincere” le difese avversarie). Lo stesso Kevin Durant, che rimane comunque il leader per tiri tentati della squadra negli ultimi anni, senza avere al suo fianco Westbrook sarebbe costretto a prendersi più tiri e sporcare in questo modo le sue percentuali, che su un volume “ridotto” gli hanno permesso di raggiungere livelli di efficienza che non si vedevano da 25 anni (solo Larry Bird è riuscito a concludere una stagione da 50%-40%-90%—intese come percentuali dal campo, da tre e ai liberi—pur segnando sopra i 2000 punti in singola stagione).
Il canestro dell'anno fino a nuovo ordine.
Dicono: “Deve coinvolgere di più Durant”
Questi dati portano a una domanda: Russell Westbrook è un giocatore egoista? A specifica domanda, il suo compagno di stanza a UCLA, Kevin Love, risponde così: «In questa Lega devi essere egoista. Sì, a volte Russell si prende dei brutti tiri e li toglie dalle mani di Kevin Durant, ma io vorrei sempre avere dalla mia parte uno come lui, perché tutto il resto del suo gioco è del massimo livello. È sempre stato così fin dall'high school: essere egoista lo ha portato ad essere quello che è ora». Sostanzialmente la sua risposta è sì, però chissenefrega. La mia risposta è: non necessariamente.
Certo, i suoi 51 passaggi totali a partita lo vedono solo al 30esimo posto nella Lega (un po' pochi per uno che ha così tanto il pallone tra le mani), ma sono comunque solo due in media meno di Stephen Curry (uno che decisamente non è considerato egoista), senza contare che quando passa la palla produce 1,5 assist che portano a tiri liberi (primo in NBA), 1,5 passaggi-che-portano-all'assist (i cosiddetti hockey pass) a partita (16esimo) e un totale di 11,4 assist potenziali a partita (ovvero passaggi che portano direttamente a un tiro di un compagno, che segni oppure no—tanti quanti LeBron James, per dirne uno). La cosa che più fa storcere il naso ai puristi, però, sono “i tiri che toglie a Kevin Durant”: l'anno scorso Westbrook ha tirato 18,7 volte a partita, un tiro in più di media rispetto al compagno, risultando terzo in NBA dietro solo a Bryant (20,4) e Carmelo Anthony (22,2).
Posto dei già accennati discorsi sull'efficacia di KD con meno tiri e della distribuzione dei tiri all'interno dell'attacco dei Thunder, quello che mi viene in mente sentendo queste lamentele sul gioco di Westbrook è: ti piace Kevin Durant? Se sì, allora sappi che KD è diventato questa cosa qui (se non il più grande, uno dei più grandi realizzatori della storia della NBA, tre volte capocannoniere negli ultimi quattro anni) giocando con Russell Westbrook, non nonostante Westbrook. E le poche partite che KD ha giocato senza Russ al suo fianco ci hanno mostrato un giocatore che, se costretto a fare di più, perde un po' dell'efficacia clamorosa messa in mostra insieme a Westbrook, dovendo fare i conti con difese che “lo aspettano” e che possono concentrarsi solo su di lui. Non è un caso che i Thunder abbiano vinto solo cinque di quelle 12 partite (di cui due contro Utah quest'anno, ovvero la peggior squadra NBA).
La presenza di Westbrook cambia tutto, e rende sia Durant che i Thunder una macchina infernale. Nella scorsa stagione (la prima senza Harden) i due hanno registrato 2.619 minuti insieme in campo, più di qualsiasi altra coppia in NBA, e in quei minuti i Thunder hanno segnato 112,2 punti su 100 possessi, subendone solo 99,7, con un plus/minus netto di +7,6 (vale a dire che quando i due sono stati in campo insieme i Thunder hanno vinto mediamente con 7,6 punti di scarto): solamente LeBron James e Dwyane Wade possono vantare numeri migliori, pur avendo giocato quasi 700 minuti di meno. Nella scorsa stagione Durant ha segnato 213 canestri da assist di Westbrook: per fare un paragone, la connection di “Lob City” Chris Paul-to-Blake Griffin ne ha prodotti 207. LeBron-to-Wade a Miami? 115.
L'assioma secondo il quale “se non ci fosse Westbrook, Durant ne farebbe 35 a sera”, o peggio ancora “con un playmaker puro KD sarebbe inarrestabile”, è per me una delle cose più incomprensibili che si possano scrivere sulla loro collaborazione. Durant ne fa già 30 a sera con Westbrook, la coppia è già ai massimi possibili nella Lega, Durant è già inarrestabile, non c'è bisogno che venga toccata o modificata. Un “playmaker puro”, quella figura mitologica che pensa-prima-al-passaggio-e-poi-a-tirare, in questa squadra di giocatori di ruolo non avrebbe senso, perché non porterebbe quella pressione sulle difese avversarie necessaria per far rendere al meglio il resto dei compagni e, allo stesso tempo, ne metterebbe di ulteriore a Durant, che avrebbe sulle spalle l'intero peso dell'attacco.
La connection di OKC
Dicono: “Perde troppi palloni”
Il rapporto tra Westbrook e le palle perse è quantomeno complicato. I dati “grezzi” ci dicono che negli ultimi quattro anni nessuno ha perso più dei suoi 871 palloni, una media di 3,6 a partita pareggiata solamente da Rajon Rondo nello stesso periodo di tempo. Affinando un po' i dati però notiamo che negli ultimi quattro anni Westbrook ha una percentuale di palle perse su 100 possessi del 14,4%, 25esimo in NBA, 9 punti percentuali in meno del capoclassifica Rondo. Cosa significa tutto ciò? Semplice: che Westbrook gestisce molti palloni (e per questo motivo i dati grezzi salgono) ma che non è così scapestrato con la palla in mano, anche perché piuttosto che rischiare di perdere un pallone con un passaggio improvvisato (cosa che ad esempio Rondo ha elevato ad arte), semplicemente lo tira.
Inoltre, i Thunder chiedono a Westbrook di essere sempre aggressivo con la palla in mano, un atteggiamento che inevitabilmente lo porta a rischiare molto di più rispetto a un “playmaker puro” e a esporsi molto di più alle critiche della gente quando si butta in mezzo all'area in cerca di avventure pericolose. Non è un caso quindi che negli ultimi quattro anni i Thunder siano la seconda squadra NBA per palle perse su 100 possessi (14,2, secondi solo ai Celtics), ma nonostante ciò mantengono comunque il miglior attacco complessivo nello stesso periodo e un record di squadra ampiamente vincente. L'allenatore di RW, Scott Brooks, ha dichiarato che «certe persone hanno in testa un'idea di come debba comportarsi una point guard della vecchia scuola. Westbrook non lo è. È talmente importante per noi che non può esserlo». Le avventure a centro area e le accelerazioni senza controllo di Westbrook, insomma, sono un rischio calcolato: sì, c'è la possibilità che perda dei palloni e magari rompa il ritmo offensivo della squadra, riuscendo quasi a “farti perdere da solo” nella giornata sbagliata, ma i vantaggi a lungo termine di un atteggiamento del genere superano di gran lunga gli svantaggi nel breve.
Westbrook è uno di quei giocatori che il genio di Bill Simmons definisce “90/10 guy”: sai benissimo che può “mettere sul tavolo” un 90% di cose ottime, ma non puoi fare a meno di notare e dare rilevanza a quel 10% di cose negative. E, aggiungo io, spesso a sproposito, perché nella giornata giusta RW è capace di portarti a tanto così dal battere i Miami Heat sul loro campo in Finale NBA, come successo in gara-4 delle Finals del 2012 quando i 43 punti di Westbrook hanno rischiato di scrivere una storia decisamente diversa a quelle Finali che ora appaiono quasi “scontate” (nei playoff solo Rondo ha segnato 44 punti agli Heat dell'era-LeBron, ma giocando ben 10 minuti più di RW).
Russell, l'uomo
La cosa che ha reso Russell Westbrook quello che è ora è la sua motivazione: nel corso degli anni ha preso le critiche che gli venivano fatte («non sei abbastanza alto», «non sei una vera point guard», «non vali la quarta scelta assoluta», «è colpa tua se KD non vince il titolo») e ha passato una quantità indicibile di tempo a dimostrare agli altri che si sbagliavano, migliorando il suo corpo e il suo gioco. Il padre, che per qualche motivo noto solo a lui non crede nel sollevare pesi, portava lui e suo fratello a correre, fare “suicidi” e affondi sulla sabbia delle spiagge californiane, così come a casa lo obbligava a rinforzare i polpacci in doccia (!) e a scuola era solito fare piegamenti e sollevamenti in corridoio tra una lezione e l'altra («facevo un sacco di cose idiote in effetti», il commento di Russ).
Russ e Harden: i bei vecchi tempi
Tutti gli allenatori che lo hanno avuto lo adorano: Mike D'Antoni e l'intero staff della Nazionale sono tornati dall'esperienza con Team USA rimanendo fortemente impressionati dalla sua etica lavorativa. Il suo allenatore in estate, Rob McClanaghan, ha il dovere di impedire a Westbrook di allenarsi tutti i giorni per preservare il suo fisico, ma spesso non ci riesce («Va ad allenarsi di nascosto, ho amici che mi chiamano e mi dicono che è in palestra a fare tiri senza di me...», ha dichiarato).
I suoi compagni, poi, lo adorano: non un singolo giocatore ne ha mai parlato male e Kevin Durant lo chiama apertamente fratello, e non nel senso comune di bro, ma proprio come fratello. In particolare KD si divertente a prenderlo in giro per il suo evidente narcisismo e il suo essere “diva” chiamandolo “Sasha Fierce”, ovvero l'alter ego con cui Beyoncé chiama la sua parte più “estroversa” (e, casualmente oppure no, pure il nome del nuovo husky di RW). Certo, ci sono stati e ci saranno degli occasionali e ben documentati scazzi tra i due o con altri (ad esempio Thabo Sefolosha) ma in quale squadra, di qualsiasi livello, non ci sono?
La verità è che, riprendendo le parole di Kevin Love, uno come Westbrook preferisci sempre averlo dalla tua parte piuttosto che contro. Perché la sua ferocia, la sua energia, il suo incessabile modo di attaccare la partita è contagioso, e quando la partita si decide sei certo di poter “andare in guerra” con uno come lui, che non avrà mai paura di prendersi l'ultimo tiro perché, fondamentalmente, a Westbrook non gliene frega un cazzo di niente.
Le parole non sono scelte a caso: sono quelle che Westbrook ha rivolto, in maniera certamente più educata, in una conferenza stampa dopo quella Gara-4 di Finali NBA, in cui un suo errore (un fallo commesso con la squadra già in bonus) condannò definitivamente alla sconfitta i Thunder (che erano arrivati fino a lì grazie anche ai suoi 43 punti). La domanda era su cosa ne pensava della prevedibile reazione dei media, storicamente critici nei suoi confronti e in particolare in quei playoff, dopo quell'errore. La risposta è un manifesto del Westbrook-pensiero: «Quello che voi dite non mi rende felice, non mi rende triste, non mi fa niente di niente. Non è una sfida personale contro di voi, non sono io contro il mondo, il mondo non è contro di me. Ci sono solo io insieme ai miei compagni che cerchiamo di vincere».
Il suo rapporto complicato con i media gli ha impedito di avere buona stampa nella sua carriera e di essere dipinto come probabilmente meriterebbe, ma non per questo Westbrook non è riuscito a costruirsi un personaggio attorno al suo stile fuori dal campo. I blogger di moda più all'avanguardia lo hanno definito “nerd chic”. Il suo campionario di occhiali finto-nerd («ho perso il conto di quanti ne ho a casa quando sono arrivato a 45, tutti senza lenti»), giacche a quadrettoni, camicie improbabili, papillon coloratissimi, pantaloni-pinocchietto (per i quali sembra avere una malsana passione), calzini fantasiosi e mocassini discutibili è sterminato.
La cosa bella è che c'è un ragionamento dietro al suo stile («Mi ci vuole un po' a scegliere i miei vestiti») ed è perfettamente consapevole di quello che la gente pensa di lui («So che alcuni dei miei look possono sembrare un po' eccentrici»), ma, ancora una volta «quello che voi ritenete essere giusto o folle è diverso da quello che io ritengo essere giusto o folle», Russ dice «sto bene come sto, cercando di divertirmi col mio stile». Il che, a pensarci bene, ci dice molto di cosa è Westbrook: uno che ha raggiunto quello che vuole essere e non si vuole piegare a quello che gli altri vogliono che sia.
Proprio su questo argomento negli ultimi anni è diventato celebre su Twitter l'hashtag #LETWESTBROOKBEWESTBROOK, creato dal giornalista di CBS Matt Moore contro questo volere a tutti i costi rendere RW qualcosa che non è: una point guard ordinata e precisa, un giocatore meno istintivo, uno che perde meno palloni, una persona che si veste in modo normale. Forse, tutti quanti, dovremmo semplicemente smettere di farci così tante domande e rimanere a guardare Westbrook mentre recupera l'ennesimo rimbalzo e parte a testa bassa verso il canestro avversario, travolgendo compagni e avversari prima di alzarsi per un'altra poderosa schiacciata. Perché alla fine il basket, specialmente in NBA, è anche questo: farsi prendere da un entusiasmo primordiale davanti a quello che questi giocatori sono in grado di fare con una palla in mano.
E non sono in molti a fare quello che fa Russell Westbrook con una palla in mano. Anzi, diciamoci la verità: non lo fa nessun altro.
#LETWESTBROOKBEWESTBROOK