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Parlami delle fredde notti di Stoke
15 set 2021
Reportage da una zona dell'Inghilterra forse dimenticata da Dio, ma non dal calcio.
(articolo)
11 min
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Nei giorni delle proteste per la Superlega, un tifoso del Chelsea girava con il cartello «Vogliamo le nostre fredde notti a Stoke». Se in quei giorni non capivo cosa volevano fare Agnelli, Florentino Perez e gli altri presidenti, cosa volesse dire quel tifoso lo capivo bene.

Mi sono ammalato due volte dopo un viaggio in Inghilterra, tutte e due le volte dopo una partita al Britannia Stadium di Stoke, l’unico posto al mondo dove ho visto piovere in orizzontale. Non semplicemente forte o in diagonale, com’è normale che sia quando c’è vento. Mi pioveva direttamente in bocca, come se l’interno del Britannia obbedisse a una gravità tutta sua, come se ci fosse in campo un giardiniere dispettoso che mi volesse a tutti i costi annaffiare la faccia.

E quando non piove... ( Jon Hobley/MI News/NurPhoto)

Ma, come se avessi capito che le fredde notti di Stoke sono molto più di una serie di secchiate d’acqua gelida sul viso, sono tornato una terza volta e sono stato bene. Queste “freddi notti di Stoke” erano diventate particolarmente famose nel 2010, grazie alle parole del telecronista inglese Andy Gray. Stava parlando dei possibili candidati al Pallone d’Oro e si era chiesto se Messi sarebbe stato in grado di fare quello che fa Messi di solito - appunto - in una notte invernale al Britannia Stadium. Cristiano Ronaldo, invece, a Stoke ci era passato e guardate che giocatore era venuto fuori. Io non lo so se bisogna passare per il Britannia Stadium per diventare il miglior giocatore al mondo (io ci sono passato, ad esempio, ma non è cambiato molto), so però che Messi, a non essere stato a Stoke da un punto di vista architettonico, invece, non si perde nulla.

Stoke-on-Trent ha due particolarità: una è che è policentrica, e cioè una città formata da sei diversi comuni che si sono federati in uno solo. L’altra è che i comuni che la formano riescono nell’impresa di fare schifo tutti e sei, nessuno escluso. È solo la prima (che poi sarà anche la seconda) impressione del viaggiatore, che però ha acquistato un certo vigore quando l’ho vista condivisa anche in un forum cittadino sul web dove campeggiava una foto della raccolta rifiuti con il titolo inequivocabile: «Benvenuti a Stoke: per la vostra sicurezza siete pregati di bruciare i vostri vestiti quando ve ne andate».

L’arrivo è quasi ingannevole perché uscendo dalla stazione di Stoke, dall’altra parte della strada, c’è un bell’hotel dell’Ottocento in stile elisabettiano: è decadente un po’ come tutta quell’Inghilterra che ha votato Brexit, ma ha il suo perché. Come gli interni, che in alcuni punti - di solito i più pericolosi, vicino all’acqua e all’elettricità - paiono intoccati dall’Ottocento. Ci sono fiumi di moquette e attempate receptionist che ti chiamano “daaaooorling” con la “a” talmente allungata che sembra una “o”. Insomma, tutto quello che potrebbe desiderare un viaggiatore di un secolo fa.

Uscendo le cose si fanno più complicate, anche se - almeno qui - non c’è una statua da tirare giù in nome della verità storica. L’eroe locale, piazzato davanti all’hotel, si chiama Josiah Wedgwood, che sembra uno di quei nomi inventati nei Simpson. Invece è esistito davvero, ha ammodernato il comparto della ceramica locale ed è stato anche uno dei primi inglesi a chiedere l’abolizione della schiavitù. Con un merito extra: era il nonno di Charles Darwin.

Da lì partono quattro strade, una è un ponte, le altre tre promettono di portarti da qualche parte, ma mentono. Nella prima si arriva a un’imitazione di un Poundland, il negozio che vende tutto a una sterlina (immaginatevi già l’originale che bello), attorniato da altri negozi, tutti chiusi, che, così a occhio, magari avevano provato ad alzare il livello rispetto a chi vende l’imitazione sottocosto della Red Bull; nella seconda si arriva a una farmacia nel nulla, ma dotata di ogni ben di dio. Fanno affari, almeno con me, che mi ammalo sempre.

Un posto che a quanto pare vale la pena fotografare a Stoke (Gareth Copley/Getty Images).

La terza strada porta prima a un’agenzia del lavoro dall’aria immalinconita e poi a delle insegne natalizie da film horror, che sono lì non solo a febbraio, che dici “vabbé poi le tolgono”, ma anche ad aprile. In più i Babbo Natale intorno alla scritta “Merry Christmas” hanno l’aria vagamente incazzata. Restano comunque gli unici sguardi da incrociare, perché Stoke sembra una città in cui tutti hanno deciso contemporaneamente di giocare a nascondino.

L’oasi nel deserto si trova imboccando il ponte, l’unica via d’uscita fin lì ignorata perché sembrava l’ingresso di una strada ad alto scorrimento. Si chiama The Glebe e vale quasi la pena di andare fino a Stoke per berci un paio di pinte e assaggiare il tagliere di formaggi. C’è un caminetto e ci sono vetrate colorate ed eleganti che stonano con il resto della città, dove a volte mancano direttamente le finestre.

Già, perché Stoke-on-Trent è stata tra le prime città d’Inghilterra, qualche anno fa, in cui alcune case sono state messe in vendita a una sterlina, nella speranza, mal riposta, di ripopolare l’area. L’iniziativa - chissà come mai - non ha avuto successo.

Nel pub consigliano, con un entusiasmo totalmente ingiustificato, di andare ad Hanley, “perché alla fine il vero centro è lì”. Attraversare gli altri comuni, Burslem, Longton e Tunstall, fa venire voglia di tornare al The Glebe o in albergo. O in Italia. Fenton ci viene sconsigliata perfino da quelli che s’inventano motivi per visitare altri pezzi di Stoke. Arrivati a Hanley c’è il centro scommesse, un teatro (chiuso), due night club (aperti), più qualche pub che ha visto giorni migliori. Per strada nessuno.

Lo stadio, il Britannia, è famoso per essere una specie di galleria del vento, dove anche le squadre migliori hanno perso la bussola e le partite. Negli anni dello Stoke City di Tony Pulis, tra il 2006 e il 2013, lì era tutto un «palla lunga, possibilmente anche molto alta, e pedalare», proprio mentre altrove il calcio entrava nella contemporaneità. Lì è nato il modo di dire ogni volta che una squadra giocava e vinceva contro chi provava a giocare e vincere: «Ok, bravi, ma come se la caveranno nelle fredde notti di Stoke?». Cadevano, talvolta, quelli che tornavano da una vittoria in Champions, cadevano quelli che una settimana prima si erano sentiti il Barcellona di Guardiola, squadra sbocciata nello stesso anno in cui Pulis ha esordito in Premier con lo Stoke arrivando dodicesimo e facendo uno sport più simile al tiro al piccione che al calcio.

Ecco perché quel cartello tenuto tra le mani di un tifoso ha significati più ampi, perché quella squadra, quello stadio, sono il ritorno a uno stato primigenio del calcio. Senza voler fare i romantici a tutti i costi, senza voler rimettersi le maglie dall’1 all’11 - che non lo vuole davvero nessuno, nemmeno chi lo dice - giocare a Stoke, andare a vedere la propria squadra a Stoke, sa ancora di cucina casalinga, di Shepherd's pie e fish&chips, anche se in uno stadio apparecchiato da stella Michelin.

Restò famosa nei primi anni Duemila una frase di Roy Keane, inviperito con i tifosi dopo un brutto 1-0 del suo Manchester United con il Birmingham City, perché l’Old Trafford non sembrava più quello che aveva conosciuto, «ma un funerale. Nessuno che incitava, cantava. Qui la gente viene più per mangiare tramezzini ai gamberetti che per supportare la squadra». A Stoke se vedono un tramezzino con i gamberetti lo fanno volare alto e lontano almeno quanto il pallone. E Stoke, con quella frase entrata nel gergo calcistico, non è nemmeno più solo Stoke, ma è diventata il simbolo di ogni angolo d’Inghilterra dove devi andare a guadagnarti i tre punti senza ubriacarti con l’inno della Champions nelle orecchie.

Burnley, Derby, Leeds, Birmingham, Wolverhampton sono tutte città che non hanno più niente da chiedere alla vita, solo un po’ di calcio. Venirci per un tifoso del Tottenham o del Liverpool fa parte del pacchetto che include anche il banchetto gourmet della Champions. “Mangia caviale tutti i giorni e a un certo punto ti verrà voglia di pasta al burro” si dice.

Qualche chilometro più in là c’è Blackburn. Come Stoke è un posto senza presente e senza futuro. Ha avuto i suoi anni di gloria, in campo con Alan Shearer, e fuori con le miniere e i cotonifici. Ora non ci sono più né l'uno né gli altri. L'attrazione principale è un centro commerciale che chiuderebbe alle 17, ma è già deserto alle 16:30. Ci sono finito dopo aver fallito ogni tentativo di orientarmi, trovare un centro, anche non storico, un segnale di vita.

I cartelli pedonali per il centro portano inevitabilmente a una rotonda piena di rifiuti con un albero bruciato in mezzo. All’angolo c’è un pub chiuso ormai da chissà quanto, ha le finestre distrutte e un catenaccio divelto: si potrebbe perfino entrare se ci fosse un motivo valido per farlo.

Consultare la guida dell’Inghilterra non aiuta, anzi deprime: è un esaustivo tomo di quasi mille pagine che concede un paio di righe a tutti, ma proprio a tutti: città industriali decadute, città portuali decadute, città minerarie decadute e avamposti di campagna decaduti, ma non c’è traccia di Blackburn. Nel frattempo solo negozi chiusi, finestre sbarrate, perfino case murate. Una dietro l’altra. Anche qui è nata e cresciuta la Premier League, quella che oggi è considerata una delle migliori leghe sportive al mondo. Sicuramente una delle più ricche.

Qui puoi incrociare, da tempi non sospetti, perfino qualche maglietta con scritto “Stuff Yer SuperLeague” (in pratica “La Superlega mettitela…”). Fu prodotta per la prima volta nel 1986 dalla fanzine When Saturday Comes, che oggi è una vera rivista che parla con nostalgia del calcio di ieri senza volerlo imporre a tutti i costi domani. La maglietta andò esaurita allora ed è di nuovo esaurita oggi, dove sul sito del giornale si legge «ogni tot anni dobbiamo ritirarla fuori. Stiamo ristampando le nuove dell’edizione 2021». Costa 16 sterline.

A Blackburn ho conosciuto, grazie a una foto di Ciccio Grabbi appesa a un muro di un pub per soli soci (a cui in teoria non avevo accesso), tale Birdy, una specie di celebrità locale. Mi viene presentato come il tifoso numero uno del Blackburn Rovers. Ed è una cosa che si dice sempre, ma questa volta è davvero così.

Segue la squadra ovunque nel mondo, e ogni Paese che ha visitato lo ha visitato solo per vedere le partite del Blackburn. Nessun altro motivo. Niente vacanze, niente giri turistici. Per dire, era stato a Bolzano per 24 ore solo per vedere un’amichevole estiva con la Roma, da lì è partito per la Grecia e poi per l’Asia. E com’era l’Asia? «Non lo so, ho visto solo alberghi e stadi».

Una vista dello stadio del Blackburn (Visionhaus)

Con orgoglio invita me e un amico a casa sua, noi gli chiediamo dov’è, perché ormai è tardi, dopo il Monday Night, e abbiamo l’hotel proprio davanti allo stadio. Ma non abbastanza davanti, evidentemente. «Casa mia è proprio lì, a pochi metri, però è più vicina allo stadio. Anzi è la più vicina. L’ho comprata apposta». Apposta in che senso? «Volevo la casa più vicina allo stadio e quando morirò voglio anche che le mie ceneri vengano sparse per il campo». Mmmm ok.

Sono combattuto tra accettare l’invito o fermare lì la follia. Birdy, con orgoglio, chiede: «Indovinate qual è la mia?» Non è difficile, è davvero la più vicina allo stadio ed è l’unica dipinta dei colori del Blackburn Rovers, bianca e blu. Ma si può? «No, però l’ho fatto lo stesso e alla fine non mi hanno detto niente». Entriamo e, in un incomprensibile inglese, Birdy saluta nella penombra una vestaglia e delle pantofole bianche e blu, sono di quella che presumiamo sia la moglie, che però non vedremo. Quando lei sparisce, lui accende la luce.

La prima cosa che notiamo - e sarebbe stato impossibile il contrario - è il divano, che inizialmente sembra coperto da un plaid del Blackburn Rovers, invece no, è proprio un divano del Blackburn Rovers, fatto apposta, concepito per essere così. Da chi, preferirei non saperlo. Intorno tutto - dalle tazze ai bicchieri, dai tovaglioli alle tende - è bianco e blu. Nella maggior parte dei casi è un prodotto originale del Blackburn Rovers. Ovviamente dove non è arrivato il merchandising della squadra, Birdy ha fatto da solo. Alle pareti ci sono foto tutte rigorosamente dei giocatori dei Rovers.

Foto dell'autore insieme a Birdy a casa di Birdy.

Quando si avvicina alle scale e dice, «venite su, dove tengo tutta la roba del Blackburn» mi chiedo cosa possa esserci qualcosa di più di quel che abbiamo visto sotto. È un tripudio di magliette, bandiere, sciarpe, biglietti, ricordi oltre il limite dell’assurdo: non c’è un centimetro libero sul muro e a terra spuntano cartoni pieni di roba bianca e blu. Tira fuori tute, cravatte, spille e perfino scarpe di giocatori elencando i nomi come se parlasse di Maradona e Zico, o almeno Shearer. E invece no. Il primo paio di scarpe, scopriremo, sono di un giocatore degli anni Settanta che ha fatto appena qualche presenza. Lui quelle scarpe le coccola. Le seconde sono di un ragazzo degli anni Ottanta usate durante una partita della nazionale giovanile. Birdy parla, si esalta, poi si commuove. E non toglie nemmeno in casa il basco bianco e blu che indossava anche al pub. C’è anche la maglia di Shearer, ovviamente. Ma sono i dettagli dei calciatori che magari hanno giocato solo una partita col Blackburn a stupire. Anzi, diciamola tutta, a fare paura.

Quando, esausti, chiediamo di uscire, la porta è chiusa. Io penso «eccoci qua, ora ci uccide, ci fa imbalsamare e ci usa come manichini con la maglia del Blackburn». Invece no. Prova a mostrarci altra paccottiglia: è felice, convinto che non ci sia posto più bello al mondo anche per noi, ma alla fine desiste. Quando lo salutiamo sulla porta è ormai notte inoltrata. Per quanto ne so potremmo essere stati lì sei anni.

Con fare paterno, ci ricorda che ci sarà sempre un biglietto per noi ad Ewood Park, che ci pensa lui, che il Blackburn è casa nostra. Non torneremo più a Ewood Park, né a Blackburn. Ma lui lo rivedremo, qualche tempo dopo, su tutti i giornali inglesi. E no, non nelle pagine di cronaca nera per aver imbalsamato turisti con la divisa del Blackburn - che comunque era una possibilità -, ma in quelle di sport per aver visto almeno una partita in tutti e 92 gli stadi delle squadre professionistiche inglesi: a ognuno le sue vittorie.

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