Il 24 maggio 2017 in occasione della finale di Europa League tra l’Ajax di Bosz e il Manchester United di Mourinho, a dieci minuti dalla fine è entrato in campo Frenkie de Jong, all’epoca appena ventenne. In quella stagione aveva giocato una manciata di partite con la prima squadra e i suoi pochi minuti in quella finale passano quasi inosservati davanti a un risultato che non cambia (0-2 per il Manchester United, che si aggiudicherà così il suo terzo trofeo stagionale). Nonostante ciò, già in quello scampolo disperato si intravedono le qualità di De Jong. La personalità, innanzitutto: il regista olandese chiede continuamente ai compagni di servirlo, completa 15 passaggi, di cui uno che manda al tiro un compagno, fa un dribbling, un contrasto e intercetta un pallone.
Fast forward al 24 settembre 2019. Dopo aver rappresentato il cambiamento generazionale dell’Ajax e averlo portato fino alla semifinale di Champions, de Jong è stato acquistato dal Barcellona, che sta cercando rinnovarsi sul mercato. In occasione di una partita casalinga contro il Villarreal, sul risultato di 2-1 e a venti minuti dalla fine, esce Sergi Roberto ed entra in campo lui. Il pubblico del Camp Nou esplode in un’ovazione, che in primo luogo sembra dimostrare l'apprezzamento del pubblico catalano per la splendida giocata contro il Granada solo pochi giorni prima - una brutta sconfitta per il Barcellona, in realtà, in cui però lui era stato l'unica bella notizia.
Un talento speciale
C'è da dire innanzitutto che Frenkie de Jong non è il classico talento dell'Ajax. Innanzitutto perché non è nemmeno cresciuto nell’Ajax, e la squadra di Amsterdam ha dovuto acquistarlo una volta maturo. Da giovane ha preferito crescere fuori dai grandi vivai, scegliendo invece quello del Willem II di Tilburg, dove ha fatto tutta la trafila delle giovanili arrivando a debuttare in prima squadra a 17 anni.
L’estate successiva, viene convinto a passare all’Ajax, che assicura al Willem II di Tilburg, oltre alla simbolica cifra di un euro e alcuni giocatori in prestito, il 10% della sua futura cessione (una mossa lungimirante, che quest'estate gli è fruttata una cifra tra gli 8 e i 10 milioni di euro). Ma la sua trafila nel calcio minore olandese non è finita: l’Ajax lo lascia in prestito fino a gennaio 2016 al Willem II e poi lo manda direttamente nella seconda squadra all’Ajax. Esordisce in prima squadra relativamente tardi per gli standard del campionato olandese, quindi, a 19 anni per la precisione, passando l’intera stagione 2016-17 con la seconda squadra o in panchina. Una maturazione lenta, insomma, che culmina proprio in quegli ultimi minuti della finale di Europa League persa con il Manchester United.
È solo da quella successiva, la 2017-18, che de Jong è diventato titolare, ma da lì la sua ascesa è stata rapidissima: gli è bastato un anno per diventare inamovibile nel centrocampo di ten Hag e anche in quello dell’Olanda di Koeman. Talmente rapida da costringere il Barcellona a forzare i tempi del suo acquisto, avvenuto a gennaio 2018, prima della prevedibile asta dell’estate successiva - che ha finito per investire l’amico fraterno de Ligt.
De Jong ha detto di aver immaginato la sua carriera basandosi su quella di Marc Overmars, ora DS dell’Ajax e padre putativo all'interno della squadra: prima nell’Ajax, poi un passaggio nell’Arsenal e infine nel Barça. Ma le cose sono andate oltre ogni più rosea aspettativa e de Jong ha finito per saltare una tappa, perché in pochi mesi la sua valutazione era diventata fuori mercato anche per squadre come l’Arsenal. In tre anni e mezzo in totale, con solo 57 partite con la prima squadra dell’Ajax, de Jong è stato venduto per 75 milioni più 11 di bonus futuri: il centrocampista più costoso della storia del Barcellona.
In una singola stagione, de Jong ha vinto campionato e coppa d’Olanda ed è arrivato in semifinale di Champions League con l’Ajax, e questo senza contare la finale di Nations League con l’Olanda. Ma il suo talento è apparso persino più grande delle squadre vincenti dentro al quale si esprimeva, talmente riconoscibile da farlo balzare in cima ai premi individuali della stagione: è stato votato giocatore dell’anno dell’Eredivisie e miglior centrocampista della Champions League, è stato premiato come talento olandese dell’anno e miglior giovane della Nations League. È entrato nella top undici dell’anno del premio The Best, in quella dell’Eredivisie, della Champions League e della Nations League. De Jong, insomma, è un talento unico. Iconico.
Quello che rende de Jong diverso da qualsiasi altro centrocampista, che forse è l’aspetto meno materiale ma più visibile del suo talento, è il dominio psicologico che ha quando è in possesso del pallone: in un momento storico in cui la pressione individuale e collettiva sul portatore è ormai consuetudine di quasi ogni squadra, de Jong resta freddo col pallone tra i piedi, consapevole di poter uscire fuori da qualsiasi situazione. Gioca la sua partita modificando continuamente il ritmo con cui il pallone avanza, rallentando e accelerando in conduzione, distribuendo con passaggi veloci in diagonale, corti o lunghi per cambiare gioco.
De Jong mira a disordinare lo schieramento rivale attirando a sé l’uomo e superandolo, sfruttando poi questo disordine. Un modo tutto suo di controllare il gioco, che richiede conoscenza da parte dei compagni: con de Jong bisogna muoversi in avanti quando ha palla e liberarsi dietro l’avversario, il pallone in qualche modo arriverà sul movimento.
De Jong è sempre consapevole di cosa gli succede attorno, perché attento a controllare con lo sguardo il campo prima di ricevere il pallone: muove la testa in orizzontale un numero enorme di volte all’interno della partita, così da immagazzinare informazioni continuamente e poter poi fare la mossa migliore nel momento in cui entra in possesso del pallone. Fissa mentalmente sul campo le posizioni dei giocatori della sua squadra e crea una ragnatela di possibili linee di passaggio in continuo aggiornamento. Questa capacità di unire i puntini ad occhi chiusi, insieme alla sua tecnica nei passaggi, ne fanno un giocatore difficile da pressare anche per avversari atleticamente superiori.
De Jong con Ansu Fati: due che parlano la stessa lingua.
De Jong è quel tipo di regista moderno che sfrutta la pressione avversaria come arma offensiva. E se qualcuno si muove in ritardo, o senza le dovute coperture alle spalle, de Jong sfrutta quell’aggressività per partire in progressione, o per inventare un filtrante che supera la linea di pressione. E portare quindi la propria squadra nella trequarti avversaria.
È l’accoppiata tra il cambio di passo e la capacità di mantenere il contatto con la palla in conduzione, anche in spazi molto ristretti, a permettergli di superare l’uomo con facilità, più che il dribbling puro o lo scatto iniziale: de Jong non fa numeri particolarmente fantasiosi ed è più rapido nel cambio di passo che veloce nell’allungo, ma lo si vede spesso uscire da uno scontro a testa alta e con la schiena dritta, con l’avversario che il più delle volte scivola a terra perché non riesce a tenere l’angolo di corsa con tutti quei cambi di ritmo.
Libertà e sistemi
De Jong è però anche un giocatore meno ortodosso tatticamente di quanto si possa pensare, e va lasciato totalmente libero di creare. All'interno di sistemi rigidi, il regista olandese rischia di generare problemi per i suoi stessi compagni: perché gli piace tenere tanto il pallone, e gli piace andare dove pensa che la manovra si svilupperà o debba svilupparsi. È quel tipo di giocatore che non potrebbe mai seguire un pattern fisso di movimenti meccanici.
Per questo i suoi tocchi di palla sono sparsi su tutto il campo e i suoi movimenti sono imprevedibili per chi non ci gioca da tempo insieme a lui: a volte de Jong si allontana così tanto dal pallone durante la circolazione da sembrare quasi nascondersi. Altre viene invece incontro per prendersi la palla finendo per coprire linee di passaggio ai compagni più vicini.
In questo, forse si nota il fatto che non sia stato catechizzato fin da piccolo nel gioco di posizione dell’Ajax. Ma paradossalmente questo suo isolarsi, alternato alla sua voglia di accentrare il gioco, è tornato incredibilmente utile sia per l’Ajax di ten Hag che per l’Olanda di Koeman. In Nazionale de Jong era lasciato ancora più libero di ordinare la squadra e disordinare l'avversario: perché ogni tocco in più che fa, ogni conduzione improvvisa, attira l’attenzione degli avversari e di conseguenza libera un compagno che poi lo stesso de Jong è in grado di trovare, a qualsiasi altezza nel campo.
De Jong è un giocatore creativo nel senso che crea situazioni di gioco pericolose quasi dal nulla. Gioca una partita su un piano diverso , riuscendo però a comunicare e ad entrare in contatto con gli altri quando più serve. Certo, non deve essere semplice entrare nella testa di un giocatore in grado di fare nella stessa azione il passaggio più semplice come il filtrante più complicato, che può resistere alla pressione dribblando all’indietro o partire in avanti sfruttando il movimento dell'avversario. Ma abituando i compagni ai suoi movimenti, de Jong ha dimostrato di poter far brillare tutta la sua squadra di luce riflessa.
Frenkie de Jong non utilizza i dettami tattici classici del gioco di posizione, ma il suo gioco ne riflette le idee più profonde. E in questo senso vengono in mente le parole di uno dei profondi conoscitori del gioco di posizione, Juanma Lillo: «Il gioco di posizione consiste nel creare superiorità numerica dalla propria prima linea contro chi sta pressando. Tutto è più facile quando l’uscita del pallone è pulita».
Non è un caso se de Jong è stato cercato da due allenatori che basano il proprio calcio sul gioco di posizione come Guardiola e Tuchel, e non è un caso se il suo arrivo al Barça sia stato accolto come quello di un nuovo figlio adottivo. Il suo gioco completamente lontano dall’ortodossia ricalca l’essenza di cosa cercano Ajax e Barça da quando Johan Cruyff ne ha cambiato la storia.
E forse proprio per questo l’Ajax ha sentito “suo” Frenkie de Jong anche se non è cresciuto nell’accademia di Amsterdam. E il rapporto tra de Jong e l'identità ajacide è stato talmente stretto che ha portato il club olandese a comprare una pagina intera dei quotidiani catalani e lo spazio su un bus di Barcellona per scrivere: “Godetevi il futuro". Dove il futuro, ovviamente, è Frenkie de Jong.
Come sta andando nel Barça di Valverde?
Frenkie de Jong può coprire ogni posizione del centrocampo: non solo da regista, quindi, ma anche da mezzala di un centrocampo a tre. Di preferenza si muove per ricevere sul lato sinistro dei difensori centrali (dietro al terzino sinistro, per capirci) così da avere il campo davanti da poter poi risalire in conduzione. Se invece viene schierato sul lato destro preferisce giocare più alto e con meno tocchi.
Nella prima squadra dell’Ajax ha giocato davanti alla difesa come play, come trequartista e come mezzala sia a destra che a sinistra, e persino come difensore centrale con libertà di avanzare sul campo. Proprio da difensore è entrato nell’undici titolare nella seconda parte della stagione 2017/18, prima di essere avanzato definitivamente a centrocampo in quella successiva.
Nel Barcellona, invece, la migliore posizione in campo per Frenkie de Jong dipenderà principalmente dagli altri giocatori in campo. Appena arrivato si è subito presentato il bivio se posizionarlo davanti alla difesa o nella posizione di mezzala. Al dibattito sulla questione ha partecipato praticamente qualunque figura dell’orbita catalana. E in questo dibattito, l'ultima parola, come sempre di questi tempi, ce l'ha avuta Xavi, come sempre lapidario: «Vedo Frenkie de Jong più come mezzala che come mediocentro, Busquets domina quella posizione e lo dico da un punto di vista oggettivo».
In estate Valverde non ha veramente affrontato questo nodo tattico, preferendo alternare de Jong e Busquets nella posizione di vertice basso del centrocampo e facendoli convivere solo in determinate situazioni. Il dibattito è stato ulteriormente acceso dal fatto che quando non c’era lo spagnolo l’olandese ha giocato al suo posto. E anche l'esordio di de Jong è avvenuto in quella posizione.
Poi, complice l'avvio di stagione senza Messi per infortunio, Valverde ha impostato una squadra più equilibrata possibile, fissando i giocatori in campo per coprire tutti i cinque corridoi verticali, con le mezzali molto alte nel mezzo spazio: in questo contesto hanno trovato spazio anche giocatori della Masia, come l’esterno destro Carles Pérez (promosso dalla squadra B) o quello sinistro Ansu Fati, appena sedicenne. Ancora una volta, con Busquets al suo posto, de Jong è stato portato a giocare come mezzala destra o sinistra, mentre nelle partite senza Busquets ha giocato lui vertice basso.
La scelta di Valverde però non ha dato i frutti sperati: la squadra ha vinto solo due delle prime sette partite, mostrando un gioco grigio, con Frenkie de Jong che è risultato comunque uno dei pochi a mostrare un livello all’altezza della aspettative, anche se non agevolato da un sistema che lo vede, da mezzala, costretto a muoversi solo nel mezzo spazio, e a ricevere al limite dell’area di rigore avversaria piuttosto che vicino alla propria.
Appena iniziata la partita contro il Valencia si nota quanto viene chiesto alla mezzala: de Jong è diverso dal giocatore visto all’Ajax, più attento all’uscita del pallone dalla difesa e alla costruzione della manovra in generale. Da questa azione nasce il suo cross per il gol di Ansu Fati che sblocca la partita.
Il ritorno di Messi a pieno regime dovrebbe cambiare le cose, perché la presenza del 10 argentino significa necessariamente maggiore flessibilità nel sistema. In questo contesto Valverde può cercare di costruire connessioni naturali tra i centrocampisti e Messi senza pensare troppo all’equilibrio della struttura, permettendo a de Jong di abbassarsi a prendere palla anche dietro a Busquets, nelle sue zone di campo preferite, quelle al lato del centrale di difesa, cioè.
Insomma, dovremmo finalmente vedere un sistema in cui i singoli giocatori saranno maggiormente responsabilizzati e si dovranno fidare maggiormente del loro talento. E in un sistema di questo tipo la dicotomia tra lui e Busquets dovrebbe sparire. Come scritto qualche tempo fa da Valentino Tola: «È il talento e soltanto il talento, inteso come capacità di influire sul gioco, quello che conta. La somma di “velocità+tecnica+colpo di testa+resistenza” esiste solo nei videogiochi».
Non è sommando le singole caratteristiche principali che si costruisce una squadra che vuole giocare come il Barça, ma mettendo insieme giocatori che hanno talento e che parlano la stessa lingua calcistica, con l’allenatore che deve mostrargli come meglio suddividersi gli spazi in campo e dargli la possibilità di associarsi con più linee di passaggio possibili.
In questo contesto, non bisogna nemmeno dimenticare la presenza Arthur Melo, che ha a sua volta nel proprio DNA calcistico un gioco che tende ad ordinare la propria squadra e disordinare quella avversaria attraverso la circolazione pallone. E su questi tre giocatori che dovrà poggiarsi il Barcellona del futuro. Una situazione embrionale che, forzando un po' la mano con i paragoni, ricorda quella del Barcellona prima di Guardiola, prima che Xavi, Busquets e Iniesta, cioè, cambiassero il nostro modo di vedere il calcio. Ma in quel caso si trattava di tre giocatori nati all’interno dello stesso sistema di gioco, cresciuti insieme. Per questo al Barça di oggi servirà più tempo per trovare la stessa fluidità.
C'è da dire, però, che guardando giocare già adesso Frenkie de Jong è difficile non farsi prendere dall'entusiasmo, perché l'olandese ha già dimostrato di essere pronto per questi livelli, anzi, sembra già pronto per diventare il centro del gioco della squadra di Valverde. È la stessa cosa che pensa Louis Van Gaal, che affiderebbe le chiavi del Barça già oggi a Frenkie de Jong, senza nemmeno il bisogno di indicargli la strada: «Il Barça non sta sfruttando le qualità di de Jong, bisogna adattarsi a lui».
Se questo tipo di discorsi vi sembra prematuro per un giocatore di 22 anni ricordatevi che Frenkie de Jong in due stagioni è passato da dieci minuti in campo in una finale di Europa League alla consapevolezza che possa guidare il gioco di una delle più grandi squadre europee. Insomma, non è solo retorica dire che il futuro è nelle sue mani.