
Inter-Milan è già finita, Marcus Merk ha deciso di aver visto abbastanza, in campo stanno piovendo fumogeni. Nessuno di quelli ha dato il via al delirio, a uno degli epiloghi più incredibili del fitto album del derby di Milano e dell’intero calcio europeo. Ma la storia si sta compiendo davanti agli occhi dei fotografi e non resta che aspettare: arriverà un momento in cui tutto sarà esteticamente perfetto, irripetibile, in cui la scena sarà faticosamente compiuta.
A volte per scattare la foto giusta possono servire minuti, altre volte ore, nei casi peggiori giorni. Stavolta no. Dietro i tabelloni si muovono come api attorno a un alveare i fotografi che animano il bordocampo. Stefano Rellandini è una di quelle api. Ha visto Marco Materazzi, ha visto Manuel Rui Costa. Li ha visti parlare, avvicinarsi. «Il primo veniva descritto da alcuni come un macellaio; il secondo era il suo contrario, più gentile, artistico nel suo modo di intendere il calcio», ha detto Rellandini in un’intervista alla BBC descrivendo quei secondi di attesa. Vede i due che confabulano a distanza, una distanza che si riduce piano piano: vi basterà cercare su internet per scoprire che prima di quella foto ne sono state scattate molte altre. È come se il desiderio di Rellandini stesse per dare vita a una delle istantanee più significative di tutti i tempi, almeno in termini calcistici. Arriva il momento in cui Materazzi, con le gambe incrociate dietro al tacco come un umarell davanti a un cantiere, poggia il braccio sulla spalla di Rui Costa. Eccolo, lo scatto. «Di quella sequenza, li ho colti in quella posa in un solo frame».
Inter-Milan del 12 aprile 2005 è allo stesso tempo una partita da cancellare per il modo in cui è stata giustamente sospesa e da ricordare per una fotografia leggendaria, ma anche la partita che secondo una ricostruzione fin troppo facilona, pur con qualche minimo fondamento, ha segnato una svolta nella carriera di Nelson Dida, colpito da uno dei bengala lanciati dal settore più caldo del tifo interista. Ed è un incrocio della storia del nostro calcio che vede al centro tanti personaggi più o meno importanti, l’accelerazione dell’iter di una legge che ha cambiato il modo di vivere e frequentare gli stadi, persino un certo modo della politica calcistica e non di affrontare le vicende legate al campo.
IL CONTESTO
Fino al 27 febbraio 2005, l’Inter non conosce la parola sconfitta. Il problema è che conosce, con fin troppa frequenza, la sensazione agrodolce del pareggio, ben sedici in campionato fino a quel momento. È la prima Inter di Roberto Mancini, l’uomo rampante del calcio italiano, alle spalle due anni brillanti alla guida della Lazio salutata non senza tumulti nel corso dell’estate. Il Milan è forse nella versione più scintillante dell’epopea ancelottiana, e non solo perché al fianco di Andrij Shevchenko è stato messo Hernan Crespo, arrivato in prestito dal Chelsea. È una squadra che nelle sue notti migliori sembra semplicemente inarrestabile, ma ha anche passaggi a vuoto preoccupanti, come la sanguinosa settimana di gennaio in cui prima cade a Livorno (1-0, gol di Corrado Colombo) e poi in casa col Bologna (0-1, Tomas Locatelli). Nonostante tutto, si presenta al derby di ritorno di campionato appaiato alla Juventus in testa a quota 54 punti. Il Milan ci arriva sullo slancio dello 0-1 di Old Trafford nell’andata degli ottavi di Champions, una zampata di Crespo a punire una smanacciata orrenda di Roy Carroll dopo un destro da fuori di Seedorf. Meno sorridente è l’Inter, che a Oporto non è andata oltre l’1-1 con gol di Oba Oba Martins, risultato che rende comunque il ritorno abbordabile alla luce della regola sui gol in trasferta.
Il derby che va in scena a San Siro quel 27 febbraio attraversa momenti di rara bruttezza, tra le poche cose da segnalare c’è un destro al tritolo di Verón sul quale Dida porta avanti con fierezza la candidatura a miglior portiere del mondo, decisamente giustificata alla luce degli ultimi due anni in cui si è elevato al livello di Gigi Buffon. Il Milan senza Shevchenko fatica, a un certo punto Ancelotti decide addirittura di richiamare Rui Costa per Costacurta, avanzando Serginho che in precedenza aveva dovuto rilevare Kaladze.
Il gol che decide la sfida e che vale la prima sconfitta della stagione interista ha una dinamica goffa, grossolana: angolo Milan da sinistra, la difesa interista libera, Gattuso calcia di prima intenzione dal limite e la traiettoria incrocia il piede di Kakà, che sembra aprire il piatto per provare un controllo e invece finisce per spiazzare Toldo. Mancini mette Adriano, ma è tardi. Siamo nel bel mezzo del periodo «Non vincete mai»: l’ultima gioia interista risale al marzo 2002. In quest’arco di tempo c’è stata anche la semifinale di Champions del 2003.
Quel derby di campionato è un passaggio fondamentale non tanto per la stagione del Milan, quanto per quella dell’Inter, che abbandona definitivamente qualsivoglia ambizione di rimonta scudetto, scivolando a -14 dalla coppia di testa, scavalcata anche dalla Sampdoria e costretta a rimboccarsi le maniche per difendere il piazzamento Champions. Soprattutto, non fa che alimentare un nervosismo neanche troppo latente, un’insofferenza sempre crescente nei confronti del concetto stesso di stracittadina.
E così, quando il Milan piega ancora lo United con un gol stavolta straordinario di Crespo, un colpo di testa lasciato partire grazie a un collo di adamantio, e l’Inter spazza via il Porto, trascinata da quello che per mesi, nella stagione precedente, era sembrato qualcosa di molto vicino al miglior attaccante del mondo, Adriano, la mente va immediatamente al rischio derby nel sorteggio. Per il primo gol, il brasiliano sfrutta una deviazione sul diagonale mancino. Quindi si alza la maglia: «Filipesi 4,13», c’è scritto, dando lavoro agli esperti delle Scritture. «Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica», è il responso. C’è comunque chi polemizza, come il vescovo di Como, Alessandro Maggiolini: «Suggerirei di non confondere Dio e il calcio. Certo, è sempre meglio che esporre una parolaccia, ma uno può sempre ringraziare il Signore per conto suo».
Per segnare il secondo spara sotto la traversa, sul primo palo, un pallone che non avrebbe avuto senso colpire di sinistro. Eppure inventa un tocco a metà tra la punta e l’esterno del piede, abbinando potenza e precisione. Per calare il tris, dopo il momentaneo 2-1 del Porto, stringe da destra portando la sfera sul piede preferito per trovare l’angolo lontano. È una tripletta che riporta Adriano al centro del discorso calcistico dopo mesi di difficoltà, i primi segnali di uno squilibrio che poi ci avrebbe privato della sua stella in maniera definitiva. La citazione biblica come campanello d’allarme, risposta ai detrattori ma in realtà manifesto di un malessere profondo. Qualche mese più tardi, a provare a tendere la mano al brasiliano, sarebbe arrivata una lunghissima lettera aperta di Gianluca Vialli, pubblicata sulla Gazzetta dello Sport, che consiglio di leggere per intero andando oltre l’estratto che segue.
"Non stai attraversando un momento di grande forma e sembri arrabbiato, anche se forse è più onesto dire che stai giocando male e sei incazzato nero. Voglio dirti che capisco quello che stai provando. Lo capisco perché qualche anno fa, quando io giocavo e tu eri ancora un bambino, ho provato le stesse cose. Anch’io ero considerato un campione e, come te, ero spesso al centro dell’attenzione. Anch’io, come te, sono stato caricato di grandi responsabilità, calcistiche s’intende, quando ero ancora un ragazzo con qualche pregio e molti difetti. […] Anch’io, come te, ho dovuto convivere con il fardello della responsabilità di essere considerati degli esempi, dei leader. Dai compagni che ti guardano e sono pronti a seguirti, ai tifosi che ti vorrebbero il più bravo in campo e immune da qualsiasi tentazione fuori. La vita del campione è fatta di onori ma soprattutto di oneri. Leader è colui che smette di chiedere cosa la squadra sta facendo per lui e comincia a domandarsi cosa può fare lui per la squadra. […] Tu sei Adriano l’Imperatore e questo non te lo devi scordare mai. Scusandomi per l’intrusione con affetto e ammirazione, Gianluca Vialli".
Lo spauracchio principale per le italiane in gara (c’è anche la Juventus qualificata ai quarti dopo aver eliminato il Real Madrid) è ritenuto praticamente all’unanimità José Mourinho, campione in carica col Porto ma trasferitosi al Chelsea perché «se avessi voluto un lavoro facile, sarei rimasto al Porto: una bellissima sedia blu, il trofeo della Champions League, Dio e, dopo Dio, io», come disse nella conferenza stampa di presentazione rimasta nella storia per la definizione di "Special One" che ne ha accompagnato la carriera. Ma anche Mou vuole evitare le italiane: «Sono perfette, per batterle serve tanto cervello».
Alla fine, però, l’urna di Nyon dice proprio Inter-Milan, mentre la Juve pesca un Liverpool che in quel momento viene dipinto dai più come abbordabile. Giorgio Tosatti definisce il sorteggio del derby «una beffa fortunata» perché guarda oltre, all’accoppiamento con il quarto più debole del lotto, quello tra PSV e Lione. C’è un’autostrada per la finale, dunque, bisogna solo saperla percorrere.
Le reazioni vanno dalla convinzione di Mancini («Vogliamo eliminare il Milan e andare a vincere la Champions: dopo che non vinci da tanto un derby, prima o poi deve accadere il contrario») alla prudenza di Ancelotti («Volevamo tutti evitare questo derby, ma il clima sarà diverso da quello del 2003: quello era un Milan che stava nascendo, ora siamo maturi»), passando per la sofferenza mista alla scaramanzia della coppia composta da Massimo Moratti («Se il destino ha voluto così, benissimo: la sofferenza la proveremo tutti, una gara del genere crea più passione delle altre») e Adriano Galliani, al quale basta l’ennesima battuta per liquidare il sorteggio: «Non so se dovrò andare dal cardiologo. Si vede che Sant’Ambrogio voleva che ci incontrassimo di nuovo».
L'ANDATA
Alla luce dell’andamento in classifica, l’aria che tira alla vigilia del derby di andata è a dir poco bizzarra: l’Inter, che in campionato è molto indietro, viene descritta da alcuni come potenziale favorita più che altro per la possibilità di non sentire la pressione della corsa scudetto, con cui invece il Milan sta facendo i conti da mesi. Andrea Scanzi (sì, quell’Andrea Scanzi) al momento del sorteggio scrive sul Manifesto che "l'Inter, specie oggi che con Mancini prova a giocare a calcio, dopo 15 anni di cancrena estetica, non può perdere in eterno i derby: non adesso, con una squadra schizofrenica ma piacevole, divertente, meritevole. […] Il gioco dei pronostici - e delle leggi non scritte - dice che la finale più probabile è Inter-Juventus. […] Shevchenko arriverà all'appuntamento col fiato corto, come Van Nistelrooy contro il Milan. Di contro c'è un Adriano strepitoso e un ambiente desideroso di rivalsa". Ma il 20 marzo Adriano esce al 43’ durante Inter-Fiorentina e deve iniziare il suo percorso di avvicinamento al doppio derby alle prese con un infortunio che lo costringerà a saltare l’andata, e non è un affare da poco.
Le indiscrezioni riferiscono anche che ci sarà un altro assente di lusso: Silvio Berlusconi, uscito con le ossa rotte dal responso delle Regionali, in cui il centro-destra ha perso 12 confronti su 14, bilancio impietoso che non vede il 14-0 solo per la tenuta di Formigoni in Lombardia e Galan in Veneto. Si gioca il 6 aprile, la scoppola elettorale è fresca di due giorni, "il Cavaliere" è talmente spiazzato da accettare un confronto con Massimo D’Alema a Ballarò e annunciare che non ha intenzione di dimettersi, mentre Romano Prodi, in uno slancio di entusiasmo, decide di annullare le primarie.
Inter e Milan arrivano al derby più fresche del previsto anche per un altro evento non da poco: sabato 2 aprile, alle 21.37, viene annunciata la scomparsa di Giovanni Paolo II. Notizia ampiamente nell’aria, al punto che il CONI, già in mattinata, prima dell’annuncio del decesso, decide di fermare tutto lo sport italiano per il weekend per decisione del presidente Gianni Petrucci.
Il sorteggio dice che in casa gioca il Milan, chi immagina il remake della tiratissima doppia semifinale di due anni prima rimane sorpreso e tramortito. Il Diavolo sbanda nel primo tempo, si aggrappa alle parate di un Dida scintillante, che alza sopra la traversa un missile di Mihajlovic e dice no a un destro velenoso di Cruz. I rossoneri rifilano così il primo destro al corpo con una capocciata di Stam a un passo dall’intervallo, quando la testa è già proiettata agli spogliatoi e il dolore si fa più intenso. Lo imita, nella ripresa, Shevchenko, al dodicesimo gol in carriera nei derby di Milano.
Una volta subito il primo gol, l’unica minaccia interista verso la porta di Dida è un palo esterno di Karagounis, mentre Toldo deve tenere a galla i suoi con un miracolo sul potenziale 3-0, sempre di Sheva. A questo punto, per il Milan, il solo fantasma possibile sembra essere quello di La Coruña, ed è per quello che Ancelotti invita i suoi, come è da prassi, a ripartire sei giorni più tardi come se si fosse sullo 0-0. L’unica speranza per la partita di ritorno, in casa Inter, sembra essere il ritorno di Adriano. È una speranza utopica, ultraterrena, che ha ben poche radici nella realtà: il brasiliano ci sarà, certo, ma in che condizioni?
LA NOTTE DELLA VERGOGNA
Dopo 45 partite stagionali, l’Inter di Mancini ha perso soltanto due volte: entrambe col Milan, contro cui aveva pareggiato la prima uscita (0-0). Ecco perché monta, alla vigilia, l’aria del ribaltone tattico, visto che la difesa rossonera ha sempre neutralizzato le tre coppie d’attacco (Vieri-Adriano, Vieri-Martins, Cruz-Martins). A Bologna, match che cade tra le due sfide di Champions e che l’Inter vince con un gol di Cruz, sceglie il 4-2-3-1. Mancini fa svolgere ai suoi la rifinitura direttamente a San Siro. Nel frattempo, la potenziale sfida Adriano-Kakà viene declinata dal Corriere della Sera in questo modo.

In casa stavolta gioca l’Inter, che dopo la maglia bianca dell’andata si presenta con quella blu-grigia che richiama apertamente la vittoria in Coppa UEFA del 1998. Ad accrescere una tensione già palpabile c’è il ritorno, al centro della difesa interista, di Marco Materazzi, che dopo nemmeno tre minuti di partita va a contatto con Shevchenko e stramazza al suolo appena l’ucraino lo sfiora in un testa contro testa che l’arbitro tedesco Merk amministra con l’indifferenza richiesta dalla circostanza.
Il primo a scaldare i guanti di Dida è Veron con il solito destro da fuori area. Può ben poco invece Toldo quando Shevchenko si porta il pallone sul piede teoricamente debole e sfodera un mancino dal limite semplicemente imparabile. Inter-Milan 0-1 alla mezz’ora vuol dire solo una cosa: che "il Diavolo" è già in semifinale, visto che ai nerazzurri servirebbero quattro gol da mettere insieme nel giro di un’ora dopo non essere stati in grado di segnarne nemmeno uno in tre precedenti e mezzo.
Adriano non è neanche lontanamente vicino alla sua versione migliore, Dida fa buona guardia su un sinistro di Kily Gonzalez e nella ripresa ha bisogno di farsi aiutare dal palo per dire di no a Martins, entrato proprio al posto di un Adriano costretto ad alzare bandiera bianca, quindi stende la manona su un destro di van der Meyde diretto all’angolino. L’Inter pareggia al 70’ sugli sviluppi di un corner con Cambiasso, Merk annulla per un contatto lieve tra Cruz e Dida. È il momento in cui si scatena il putiferio.
È come se le proteste in campo dessero il via a quelle, folli, dagli spalti. Iniziano a piovere fumogeni sulla porta rossonera e uno di questi centra in pieno Dida sulla parte alta della spalla. Le inquadrature basse della regia internazionale mettono in mostra bottiglie di ogni tipo, arance, residui di fumogeni. Merk ferma ovviamente il match e manda le squadre negli spogliatoi, quindi viene abbozzato un riscaldamento per provare a riprendere con il Milan che testa la condizione di Abbiati, destinato a entrare in campo. Alla fine Merk si arrende. I 76 Paesi collegati con San Siro scoprono che un quarto di finale di Champions League può essere sospeso con quasi venti minuti da giocare per quella che, secondo i retroscena delle ore successive, non è una reazione istintiva, ma una decisione preparata a tavolino. Troppo sistematica l’azione che ha visto in trenta secondi o giù di lì, far arrivare di tutto in campo, immediata persino la seconda ondata al tentativo di far ripartire il match con ancora torce e fumogeni lanciati dagli spalti.
Nel momento in cui Merk fischia la fine, la riunione convocata d’urgenza dell’Osservatorio Nazionale, voluta dal ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, è finita da circa un’ora. Si è appena deciso di dare il via a una sperimentazione allo stadio Friuli, che dovrà essere avvicinato in maniera considerevole al tanto sbandierato modello inglese: via le barriere, approvato l’ingresso della figura dello steward per ridurre l’impatto delle forze di polizia negli stadi, il biglietto nominativo. La concomitanza con il delirio di San Siro è soltanto una bizzarra coincidenza, così forte che il ministro, che ha già predisposto una sorta di editoriale destinato al Corriere della Sera per spiegare il suo punto di vista, deve aggiungere un post scriptum per l’occasione: "In attesa delle conclusioni delle indagini che ho immediatamente disposto, preferisco evitare commenti sui fatti di San Siro".
Il clima attorno al calcio italiano, in quei giorni, è irrespirabile. Lazio-Livorno si è conclusa con l’arresto di sei tifosi toscani e 248 denunciati. Dopo il match, un gruppo di tifosi ha infatti azionato il freno di emergenza del treno di ritorno, scendendo nella stazione di San Pietro per devastarla. Durante la partita, da una parte lo striscione "Roma è fascista" e croci celtiche, dall’altra incidenti con le forze dell’ordine prima e dopo il match, oltre alle bandiere con falce e martello che ricevono la condanna persino dell’arcicomunista Armando Cossutta. Il calcio passa dalle pagine sportive a quelle di cronaca sui giornali che non trattano solo di sport. Fioccano le inchieste giornalistiche, inizia a farsi largo il concetto di divieto di trasferta, si ha da subito la percezione di un momento spartiacque.
Intanto la FIGC, guidata da Franco Carraro, prova a far passare la linea dura, quella delle sospensioni delle partite al primo lancio di fumogeni in campo con 0-3 a tavolino. Una novità che scatena l’ira dei presidenti. Corioni (Brescia): «Non sta né in cielo, né in terra: ogni squadra ha un gruppo di tifosi pazzi che così può danneggiare appositamente una società». Cellino (Cagliari): «Siamo già ostaggi dei tifosi, è una decisione presa solo per dare un segnale forte». Spinelli (Livorno): «Assolutamente fuori luogo, così ci prestiamo al comportamento di mille furbi». Benigni (Ascoli): «Una stupidaggine di Carraro: basterebbe infiltrare dei tifosi nella curva avversaria per avere partita vinta». Foti (Reggina): «Siamo ritenuti responsabili in termini oggettivi di cose che non possiamo controllare direttamente». Zamparini (Palermo): «Diamo via libera all’impunità dei delinquentelli».
Nel frattempo la Digos smentisce la teoria delle violenze programmate parlando di "reazione emotiva" anche perché tre tifosi arrestati per i lanci e tre soltanto denunciati non si conoscerebbero tra loro. L’Inter per qualche giorno teme l’esclusione dall’Europa per un anno, ma alla fine se la cava con il 3-0 a tavolino e quattro turni a porte chiuse, più altri due congelati e pronti a essere comminati in caso di ulteriori intemperanze dal 2005 al 2008. L’ultima coda polemica se la regala Mancini: «Dire che è andata bene mi sembra un’esagerazione, che cosa dovevano farci più di quello che hanno fatto? Ci sono stati errori di pochi e le conseguenze arrivano a noi. Ogni volta che accadono queste situazioni vengono sempre fuori tutti i moralisti: si è sempre fatto poco per evitare queste cose, ma in Italia, si sa, non si fa mai nulla».
Come segno di reazione, vengono disposte bonifiche nelle zone che circondano gli stadi d’Italia. All’Olimpico il bottino di caccia è addirittura di due bastoni nascosti nelle siepi. Così, nel fine settimana successivo alla vergogna e all’entrata in vigore delle nuove normative FIGC (sospensione in due atti con squadre a metà campo minacciando lo stop definitivo in caso di nuovi incidenti; possibilità decisionale estesa alle forze dell’ordine; 0-3 a tavolino in caso di partita interrotta), a far notizia è la sparata di Rino Foschi, dirigente del Palermo, che reagisce a un torto arbitrale dicendo che «quel rigore segnalato dall’assistente è come un ultrà che tira un petardo in campo: non va sospeso per una giornata ma a vita».
Quanto alla notte di Inter-Milan, la montagna partorirà il topolino: condanna di quattro mesi per l’unico tifoso identificato dalle immagini, appena maggiorenne al momento della sentenza ma minorenne il giorno del derby, e un anno di divieto di ingresso negli stadi.
Resta da affrontare un solo capitolo di questa storia, quello legato a Nelson Dida, che a distanza di vent’anni vive intrappolato nei pensieri collettivi come un fenomeno fino al lancio di quel bengala e poi, da quel momento, in perenne difficoltà. È un ricordo alterato, ingigantito da due errori chiave in quella parte finale di stagione: l’uscita un po’ avventata sul colpo di testa di Trezeguet che di fatto consegnerà lo scudetto alla Juventus e la reazione lenta sul destro da fuori di Smicer in finale di Champions League contro il Liverpool, ignorando per esempio la parata sul successivo rigore di Xabi Alonso, poi velocissimo nel tap-in del 3-3.
Chiuderà il 2005 con la nomina di miglior portiere dell’anno FIFPro World XI, e al secondo posto nella classifica stilata dall’IFFHS. Il suo rendimento andrà effettivamente via via calando, ma più per ragioni legate agli infortuni che alla svolta di un fumogeno che non ha mai voluto riconoscere come tale. Nelle sue interviste, anche in quelle post carriera, non c’è mai il riferimento a quell’episodio come momento scatenante delle sue difficoltà. Rimarrà con alterne fortune tra i pali del Milan fino al 2010, vendicando Istanbul nella notte di Atene, e guardiano della Nazionale brasiliana fino all’ottobre del 2006, lasciandola solo su sua decisione. L’altra foto che resterà di quell’Inter-Milan cristallizzato nella storia del calcio europeo per sempre ha ovviamente lui come protagonista. È stata scattata un istante dopo l’impatto del fumogeno sulla sua spalla.
Dida ha gli occhi chiusi, è ancora in piedi, la fiamma è alle sue spalle e sembra voler dare un tocco di colore alla maglia verde con lo scudetto sul petto. Ai piedi ha già una bottiglietta, sullo sfondo si intravede Jaap Stam con le mani sui fianchi, che assiste all’inizio del delirio. Com’è che diceva Cartier-Bresson? «Il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e della precisa organizzazione delle forme che danno a quell'evento la sua espressione».