Una delle immagini che meglio di altre convoglia il senso della provincia italiana per il calcio negli anni ‘90 sono i balconi - con vista sul rettangolo di gioco - pieni di gente, di stendini da ritirare, di sigarette fumate con i gomiti sulle ringhiere: a Reggio Emilia c’è stato un periodo in cui ai piani più alti degli stabili di Viale Olimpia e Via Mirabello aveva senso accalcarsi per osservare una squadra che appena affacciatasi in Serie A, sotto la direzione di Franco Dal Cin, prometteva calciatori di livello mondiale e stadio di proprietà, sogni sproporzionati rispetto alle reali dimensioni del club.
Invece dopo 10 giornate della stagione ‘93-’94 la Reggiana ha solo 6 punti e non ha ancora mai vinto. È stata sconfitta dal Parma nel derby Emiliano e ha strappato uno 0-0 alla Roma, nel giorno in cui è morto Federico Fellini. Nei venti giorni di stop in cui la Serie A si fermerà per permettere alla Nazionale di dare l’ultimo affondo nella qualificazione ai Mondiali americani impazza il mercato. Dal Cin non è nuovo a operazioni sensazionali: dieci anni prima ha portato a Udine Zico, ha una maniera di condurre gli affari picaresca, avventuriera, massimamente trasognante. A inizio stagione ha convinto Claudio Taffarel a fermarsi in Emilia, trasferendosi da Parma a Reggio, per preparare il Mondiale che poi vincerà. Ora sta trattando Davor Suker e il colombiano Freddy Rincon, uno dei protagonisti dello 0-5 rifilato dalla Colombia all’Argentina, che la Parmalat ha acquistato e parcheggiato al Palmeiras, in attesa che si liberi un posto a Parma. Reggio sembra un’ipotesi plausibile per il prestito.
Meno credibile, invece, pare la voce che vorrebbe Dal Cin vicinissimo a Paulo Futre, uno dei calciatori più entusiasmanti della sua generazione, intristito a Marsiglia dopo anni di gloria all’Atletico Madrid. Ma l’aggettivo incredibile è anche il propellente principale che muove ogni azione di Dal Cin.
È per questo che giovedì 18 Novembre Paulo Futre viene scortato dai Carabinieri all’Hotel Posta, pieno centro di Reggio, dove viene presentato come nuovo giocatore della Reggiana. Ha gli occhi di chi non sta capendo bene cosa gli stia succedendo intorno, ma crede che possa essere qualcosa di positivo. «Era convinto di venire a giocare per lo scudetto», ricorderà Dal Cin anni dopo.
L’entusiasmo innocente dello Stadio Mirabello il 21 Novembre 1993 è tutto negli striscioni in curva: la coreografia che va in scena è la rappresentazione grafica di un’Internazionale onirica, i colori delle bandiere di Romania e Portogallo che si fondono in un arcobaleno che stride con il cielo plumbeo, che minaccia nevischio. Benvenuto Dorin, Benvenuto Paulo, si legge nelle rispettive lingue madri dei due giocatori, agli estremi della curva. Un altro stendardo recita: «Futre-Di Pietro uguale salvezza». La speranza, nell’autunno di Mani Pulite, percorre vie insondabili. La Reggiana affronta la Cremonese, in campo dal primo minuto ci sono Paulo Futre e Dorinel Mateut. Il portoghese, con quella maglia granata numero dieci, sembra una dagherrotipia d’altri tempi.
Una sintesi piuttosto sgranata dell’eccezionalità di quella giornata.
C’è chi dice che Futre abbia accettato la Reggiana perché ormai finito. «Bene, quando arrivo io a Reggio? Dopo due gol in due partite al Marsiglia e uno, in Nazionale, all’Estonia», ricorda lui. All’OM era arrivato in estate: i francesi erano freschi campioni d’Europa, Paulo reduce da un semestre al Benfica, scelto per dimenticare un addio agrodolce all’Atletico di Madrid, in cui aveva vinto la Coppa nazionale distruggendo il Boavista in finale, praticamente da solo. Alla presentazione ufficiale era apparso vestito da rockstar, con i rayban e un sorriso sprezzante che aveva fatto piegare ai suoi piedi, con un sorriso inebetito, anche Eusebio. In sei mesi si era guadagnato l’ovazione benfiquista nonostante fosse cresciuto nei rivali dello Sporting, con cui aveva debuttato diciassettenne dopo esser stato scoperto da Aurelio Pereira, che di lui dirà «non ho mai visto nessuno che aveva così tanto amore per la palla, per il gioco».
A Marsiglia aveva trovato una maglia troppo larga, una presenza ingombrante come Dragan Stojkovic a chiuderlo, una società che stava affondando per lo scandalo della combine con il Valenciennes e aveva disperato bisogno di liquidità, dopo aver venduto nella stessa sessione Boksic alla Lazio. In effetti, Futre non stava per niente male. Contro l’Estonia aveva segnato un gol strepitoso, che sarebbe rimasto il suo ultimo con la Seleçao: un gol che era la cifra del suo talento maturo, espettorato durante tutte le qualificazioni.
«Dio vuole, l’uomo sogna e l’opera nasce», recita un proverbio portoghese.
Con l’Italia aveva giocato tutta la partita, senza incidere: i portoghesi si erano piegati al gol di Dino Baggio e avevano dovuto abbandonare il sogno dei Mondiali. Non stava male fisicamente, Futre. Ma era distrutto emotivamente. E Reggio era la destinazione perfetta, il punto più vicino al nadir da cui ripartire alla ricerca di un nuovo zenit.
Ricordo di aver visto il servizio su Reggiana-Cremonese a Novantesimo Minuto, come spesso mi accadeva in quel tempo, senza sapere cosa fosse successo durante la partita. Di Futre conoscevo le gesta e l’iconografia con la maglia dell’Atletico, senza averlo mai visto giocare davvero: dopotutto facevo appieno parte di quella generazione che per un bel tratto ha dovuto immaginare come giocassero calciatori più o meno fuori dai radar compiendo una complessa opera di razionalizzazione di foto e comportamenti sui campi di Sensible World of Soccer. Di Futre quindi sapevo che era bassino, che aveva i capelli lunghi e lo sguardo impertinente di chi ha il genio a bruciargli dentro, che era veloce e il pallone gli rimaneva incollato ai piedi. Qualcosa che sorprendentemente corrispondeva alla realtà.
Il gol segnato contro la Cremonese, il primo - e per lunghi tratti unico - con la maglia della Reggiana, era un perfetto cloridrato di quel che sapevo di Paulo Futre: rapidità e funambolismo. O forse era soltanto la summa di quel tipo di talento che non ha tempo, e che finisci per riconoscere a primo sguardo in qualsiasi epoca.
Defilato sulla sinistra, spalle alla porta, appoggia a Zanutta, il capitano: Zanutta lancia in profondità verso Mateut, che fa sponda su Morello, il quale in caduta riesce ad allungare la punta del piede e far proseguire la corsa del pallone verso Futre. Il portoghese ora è in area, vicino al vertice sinistro: potrebbe tirare, invece converge, va a imbucarsi tra due difensori della Cremonese, come a complicare le cose, come ad arrovellare un cubo di Rubik vicino alla soluzione. Poi libera il sinistro, e la rete si gonfia.
C’è molta magia, in quella partita: anche oggi che la rivedo, non più tredicenne. L’esordio, la neve, l’incredulità di poter ammirare così da vicino un talento così abbacinante. La prima vittoria in campionato. Anche l’infortunio, per un fallo più scomposto che cattivo di Pedroni, che costringe Futre a uscire dal campo in barella, ha qualcosa di incantato, la scena triste di un kolossal, quella accompagnata dagli archi in dissolvenza.
Sembrava una semplice lussazione, poi si è cominciato a parlare di distorsione. La Tac avrebbe confermato la rottura subtotale del legamento rotuleo del ginocchio destro, con stop di 3 mesi.
Durante questa quarantena, tra le molte partite iconiche messe in programmazione, Teledeporte ha trasmesso la finale della Copa del Rey 1992 giocata al Santiago Bernabeu tra Real e Atletico, vinta dai colchoneros. Può apparire assurdo, ma è innegabile che la carriera di Futre, la cristallizazione della sua legacy, ogni tentativo di comprensione del suo significato per i tempi che gli sono appartenuti, sono tutti processi che passano attraverso tre partite molto diverse tra loro: una finale di Coppa dei Campioni, quella dell’87; questa finale di Copa del Rey giocata in uno degli stadi più iconici del mondo; e infine un altrimenti anonimo Reggiana-Cremonese disputato alla provincia di un impero, quello della Serie A degli Anni Novanta.
La partita completa della Finale di Copa del Rey 1992. Il gol di Futre nasce da un’uscita palla al piede dalla difesa di Schuster superba.
Di quella finale di Copa del Rey, oggi, Paulo Futre dice che non la scambierebbe neppure per cinque campionati. Alzare la coppa in casa del nemico più blasonato deve essere in effetti una soddisfazione pressoché ineguagliabile. «Dicono che un gol sia come un orgasmo… è una bugia. Però quando ho segnato il gol del 2-0 mi stavano per uscire le vene dal collo. Se esiste l’estasi, nella vita, l’ho raggiunta lì: sono entrato in un’altra dimensione». Alle due del mattino del giorno della partita Futre aveva sentito bussare alla porta. Era Luis Aragones, l’allenatore. «Ti ricordi l’umiliazione a Pizo Gómez?», gli aveva chiesto.
Pizo Gómez era stato un centrocampista dell’Atletico: non un fenomeno, ma un onesto atleta, un faticatore della mediana. Per qualche ragione alcuni giocatori del Real, che vivevano nella stessa sua zona residenziale, lo avevano cominciato a prendere di mira. Una volta, mentre Pizo era fermo a un semaforo, Michel e altri, tra cui Gordillo, giocatori del più nobile Real e dotati di un talento sicuramente più marcato, lo avevano accostato. «Sei il nostro idolo, Pizo!», gli avevano gridato per schernirlo. Poi gli avevano chiesto un autografo. «È arrivato il giorno della vendetta», aveva continuato Aragones serio, la notte prima della finale. «Guardami negli occhi: non puoi fallire. Né per me, né per i tuoi compagni».
Per Futre, comunque, a prescindere da cosa c’era in palio, ogni sfida ai blancos era una battaglia campale. L’opportunità di sovvertire l’ordine costituito, un germoglio di rivoluzione.
Futre contro il Real, eccitante come l’odore del napalm al mattino.
Lo si percepisce in maniera chiara se si approfondisce il rapporto di Paulo Futre con il Real, con ogni singolo giocatore del Real deputato a fermarlo - a partire da Chendo e finendo con Paco Buyo. Del portiere madridista Futre aveva una foto appesa in bagno, come Rocky Balboa quella di Ivan Drago. La guardava per motivarsi. Astuto e irriverente, pestifero ma mai sgarbato, dotato di una signorilità elegante, da torero più che da giocoliere, a Futre venivano i demoni dentro quando giocava contro il Real, ma ancor di più quando davanti a sé si ergeva Francisco Buyo: «Per me era il diavolo», dice. Una volta, con l’Atletico sotto di tre reti, gli aveva strappato la palla dalle mani e l’aveva scagliata contro la rete, esultando. Un gesto piuttosto folle: essere matto, però, era l’unica cosa davvero ragionevole da fare, per Futre, quando l’avversario aveva la maglia bianca delle merengues.
«Non mi faccio piani. Che sia quello che vuole il destino», dice in un’intervista da giovanissimo, nella stagione d’esordio con lo Sporting Clube. E il destino, con Futre, almeno inizialmente, è stato decisamente benevolo. Un anno dopo l’esordio nella massima serie portoghese si è trasferito da Lisbona a Oporto per vestire la maglia dei Dragões. Aveva tutto quello che serviva per aiutare il Porto a tornare a vincere la Primeira dopo sei anni, e per farlo in maniera entusiasmante: velocità, un’educazione nel piede sinistro così composta da apparire sfacciata, una dribblomania funambolica, la predisposizione a lasciarsi alle spalle quanti più avversari possibile, portiere incluso.
Con l’algerino Madjer e Fernando Gomes, due volte scarpa d’oro a metà degli anni ‘80, formava un tridente formidabile. Da esterno sinistro imparò a farsi conoscere nella Coppa dei Campioni ‘86-’87: sembrava appartenere, allo stesso tempo, alla cerchia mitica dei Grandissimi Talenti e a una categoria di calciatori che sembravano catapultati nel presente da un futuro lontano. Nella semifinale contro la Dinamo Kiev di Lobanovskyj, al di là del gol magniloquente dell’andata, giocò una partita di ritorno di una maturità sorprendente, con un approccio che non appartiene a quegli anni, forse più ai nostri.
La Dinamo era una squadra che amava apportare pressione sul portatore di palla avversario? Bene, Futre il perfetto grimaldello per scardinarne il piano gara. Spalle alla porta manteneva il possesso, per poi girarsi fulmineo e sistematicamente saltare uno o due avversari, creando superiorità. Da esterno si trasformava spesso in interno sinistro, stringeva verso il centro del campo, muovendosi negli spazi di mezzo, per prendersi il pallone e dettare l’affondo del terzino. Non è un caso che il vero punto di svolta della finale di Vienna contro il Bayern sia stato proprio lo spostamento di Futre, che nella prima frazione aveva giocato da seconda punta, sull’esterno.
Quando a 21 anni ha alzato la Coppa dei Campioni sembrava che gli si stesse spalancando di fronte un destino aureo. Nessuno avrebbe potuto immaginare che nove anni più tardi sarebbe già stato un ex calciatore.
Nell’estate dell’87, da vincitore della Coppa dalle grandi orecchie, Futre partecipò - senza entusiasmare - al Mundialito che si teneva a Milano. Con l’occasione Pinto da Costa, presidente del club portoghese, aveva quasi concluso l’accordo per la sua cessione all’Inter di Ernesto Pellegrini se non fosse che nell’hotel scelto come ritiro dal Porto, il pomeriggio precedente alla firma del contratto, si presentò un omaccione con uno sguardo bonario che strideva con la sua vulcanicità.
Jesús Gil era candidato alla presidenza dell’Atletico, e il suo piano elettorale passava attraverso l’acquisto di Paulo Futre. «Ah, sei tu Futre!» gli aveva detto, leggendone il nome sulle ciabatte. Cinque ore più tardi lo stava già scortando alla discoteca Jacara di Madrid per presentarlo come il futuro rinforzo dei colchoneros.
Nello scegliere la Spagna, e in particolare l’Atletico, Futre ha compiuto - chissà quanto involontariamente, quanto seguendo una trama dettata dal destino - una scelta inscritta nelle sorti parallele del calcio della penisola iberica, che dopotutto, in quegli anni, era accomunato da grandi talenti sbocciati dai vivai, successi a livello di club ma anche una certa sterilità a livello di Nazionali. Scegliendo l’Atletico, per di più, Futre si è posto in quel binario romantico - molto en vogue negli anni ‘80 - dei geni calcistici che sposano realtà minori, come se volessero in qualche modo immolarsi in un afflato di massima benevolenza, rasente la santificazione. Futre, già da immediatamente dopo la vittoria della Coppa dei Campioni, ha cominciato a essere un meraviglioso sconfitto, epitome di una serie di calciatori pervasi da una Sindrome di Buzz Aldrin immeritata e quindi ingiusta: a partire dal Pallone d’Oro dell’87, che probabilmente meritava e che invece finì a Ruud Gullit.
Per trasferirsi in Spagna ha sfidato le leggi del suo paese, in cui il servizio militare era obbligatorio - fatto che di per sé gli avrebbe dovuto pregiudicare il trasferimento all’estero. Era pronto a dichiararsi profugo e a non fare ritorno in Portogallo per cinque anni, pur di realizzare il sogno di giocare in Liga. «Deve dare l’esempio ai portoghesi», gli aveva detto l’ambasciatore portoghese in Spagna, cercando di farlo desistere. «Non se ne parla neppure», aveva risposto lui. «Darò l’esempio trionfando qua». Il Presidente della Repubblica Mario Soares lo chiamò al telefono per intimargli di tornare: la risposta fu la stessa. Qualche giorno più tardi, il parlamento approvò una legge che dispensava gli atleti professionisti dal servizio militare.
«Questo sabato sera non aveva bisogno di brillantina come John Travolta», dice il telecronista. Il gol contro il Valencia è uno dei più belli di Futre con l’Atletico.
A Madrid Futre non si è potuto togliere, forse, le soddisfazioni che avrebbe meritato. Ma al centro dei suoi pensieri non c’è mai stato il palmares: Futre giocava obbediente solo al suo manifesto estetico. I suoi controlli nello stretto, i suoi primi tocchi, gli assist di una sensualità morbida, quasi melliflua: in ogni giocata condensava una ribellione ai canoni, all’ordine costituito, a volte anche al buon senso, che tornava a raggrumarsi nel raziocinio solo nell'assist, la sua arte più pregevole.
Il coro che i tifosi colchoneros gli hanno dedicato, che ne scandisce il nome, è sull’aria di “We will rock you” dei Queen. Altro assist pazzesco questo con il Real, in cui supera Buyo con una pisadita di suola.
Forse è per questo che Gil lo ha preso così a benvolere: perché condividevano una vis viveur, un’irrefrenabile voglia di stupire, l’incontenibilità del carisma. Si specchiavano.
Gil aveva fortemente voluto che diventasse il capitano della squadra già alla seconda stagione, anche se aveva solo ventitré anni e nella rosa c’erano molti spagnoli, alcuni anche habitués della Nazionale, o cresciuti nella cantera. E se lo aveva fatto era perché Futre era capace di tenergli testa.
C’è un aneddoto a spiegarlo meglio: nella rosa dell’Atletico c’era un ventenne cresciuto nel vivaio, Aguilera, al quale era stato diagnosticato un osteosarcoma. Gil aveva promesso pubblicamente che qualsiasi cosa fosse successa gli avrebbe fatto firmare un contratto da professionista. Il tumore, poi, si era scoperto essere benigno: eppure Gil prendeva tempo, e il contratto per Aguilera non arrivava.
Nello stesso periodo Futre stava trattando il rinnovo del suo, di contratto. Quando arrivò il momento delle firme, Futre posò la penna. «Presidente», disse, «ora chiama il ragazzino e fagli firmare il contratto, altrimenti io non solo non rinnovo, ma racconto anche perché». Mezz’ora più tardi Carlos Aguilera era in sede per firmare il suo contratto. In quel momento lo spogliatoio prese ad accettarlo come capitano.
Futre e l’Atletico Madrid di Gil sarebbero rimasti un binomio inscindibile se lui non fosse stato Paulo Futre, l’Atletico - in quel periodo storico in maniera inconfutabile - la seconda squadra di Madrid e Gil semplicemente Gil.
Dopo una sconfitta nel derby l’Atletico, nel gennaio del 93, aveva imboccato una strada sterile: i risultati non arrivavano e Luis Aragones aveva cominciato ad addossare parte delle colpe a Futre. Il quale, da primadonna bizzosa qual era, non si era tirato indietro e aveva minacciato di lasciare il club. Gil si trovava tra due fuochi, ovviamente, e se fosse stato fatto diversamente forse avrebbe atteso fino alla fine della stagione. Invece, di pancia, decise di recidere il ramo che gli avrebbe fruttato più denaro, e di farlo assecondando di fatto Futre. «Preferisco lasciarmi con un amico che con una discussione», disse. Per questo Futre finì al Benfica.
Un anno e mezzo più tardi lo intervistavano nel cortile della sua casa a Reggio. «Ho passato domeniche terribili, da calciatore rotto, inservibile». Come può vivere, un calciatore abituato a essere al centro delle scene, ad addossarsi tutte le responsabilità, una lontananza così lunga dalle luci della ribalta? Come si finisce con tre rapidi giri di tango dal sollevare la Coppa dei Campioni a un quartiere residenziale sulla via Emilia, con una Pontiac station wagon parcheggiata nel vialetto, con in testa il pensiero di mollare tutto quando il ginocchio si gonfia al punto da sembrare «la testa di ET»?
Silvio Berlusconi ha sempre dimostrato una certa predisposizione all’innamoramento per calciatori dotati di un talento narcisistico, che interpretavano il gioco con una vena edonistica. In questo Paulo Futre era della stessa pasta del “Bichi” Borghi: la mossa di ingaggiare il portoghese per la tournée che il Milan disputa in Asia nel precampionato del 1995 si inscrive in questa tradizione di infatuazioni, di sogni bagnati, e Futre per un momento deve convincersi che tornare quello di un tempo è possibile, e farlo con la maglia del Milan sarebbe magnifico.
Sei settimane dopo la firma del contratto, però, in allenamento ha una ricaduta al ginocchio. Non ha ancora disputato un minuto di gara ufficiale, viene operato. Non tornerà che per una manciata di minuti nell’ultima di campionato, contro la Cremonese, per uno strano caso del destino. E a noi non rimarrà che il dubbio di come sarebbe potuto essere osservarlo in campo insieme a Baggio e Weah.
L’unica partita di Futre con il Milan, il giorno dell’addio di Tassotti e Donadoni, di una doppietta di Di Canio, di un avvicendamento con Roberto Baggio.
Tra Milano e il ritiro c’è una brevissima parentesi al West Ham, e un ritorno piuttosto sentimentale all’Atletico, dopo sei mesi di inattività, per giocare due partite scarse con la maglia numero 12, in onore del suo pubblico, quello che durante la presentazione lo aveva osannato fino a costringere Gil a troncare il suo discorso per passargli il microfono.
Le ultime malinconiche apparizioni sono in Giappone, con una squadra che si sarebbe sciolta l’anno successivo, come a sottolineare la caducità della gloria, come a volerne accompagnare il fade-out. «Sull’aereo, durante il viaggio di ritorno dal Giappone, mi sono tagliato i capelli. Così non avrei avuto voglia di tornare a giocare. Mi sono tagliato la coletacome i toreri. Ero pronto per appendere gli scarpini». Simbolicamente, durante la conferenza stampa d’addio, si presenterà con un paio di scarpini tra le mani, quelli indossati la sera di Vienna, quella in cui ha vinto la Coppa dei Campioni. La ritualità dell’ostensione del feticcio che rappresentava, più di ciò che era stato, ciò che sarebbe potuto essere.
Nel nostro immaginario, nel mio almeno, Futre rimarrà sempre una grande illusione. Il simbolo - triste, come ogni archetipo portoghese - di una sensazione che ha avuto troppe volte bisogno di una massaggio cardiaco emozionale. Il bluff, forse, di una grandeur, più che reale, alla quale ci era necessario rimanere incollati. «Abbiamo ingannato la gente», dice Pippo Marchioro qualche mese dopo il suo infortunio, nel post partita di una gara vinta al Mirabello contro la Juventus. «Tutti aspettavano in suo rientro in squadra oggi, invece ne avrà ancora per due settimane. Ma come si fa a spiegarlo ai tifosi? In questo ambiente qualche illusione bisogna pur darla».
Mi sembra un po’ il riassunto di cosa abbia significato Futre: un’attesa perenne, una promessa che in ogni momento minacciava di non poter essere mantenuta, e nella quale, pur tuttavia, non abbiamo smesso di credere, fino alla fine. Illudendoci, come si fa solo in amore. O nel calcio, se solo riuscissimo a convincerci che in fondo non sono che la stessa cosa.