Il futuro dipende dal presente
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo introduce il principio di relatività galileiana. È il 1632, anno della prima pubblicazione, e Galilei riporta per bocca di Salviati, uno dei tre personaggi del dialogo, l’esempio del gran naviglio: nella sottocoperta di una nave è impossibile determinare attraverso l’osservazione di eventi fisici, come un salto in avanti o il volare di farfalle, se la nave sia ferma (in quiete) o in moto rettilineo uniforme rispetto al sistema di riferimento, la Terra. In due parole: il moto non è un concetto valido in senso assoluto, ma relativo all’osservatore che lo considera.
Così, chi abbia osservato l’Inter di Roberto Mancini, dal 15 novembre ad oggi non può essere in grado di determinare se il movimento è reale o solo un'impressione, né di spiegarsi perché la classifica è rimasta immobile.
La presentazione di Mancini. Sorrisi imbolsiti, sullo sfondo un telone, il prato finto, l’erba immobile.
Fine 2014: salire sui pedali
Chiedersi se l’Inter si sia spostata o meno rispetto alla gestione Mazzarri, però, è semplicemente la domanda sbagliata. L’eredità di Mazzarri lasciava diversi interrogativi di gestione, come il casolare diroccato dello zio di campagna, quello che avresti preferito intestato a tuo fratello.
I motivi che hanno portato alla necessità di un avvicendamento in panchina, nonostante le ferme convinzioni dell’allenatore toscano, erano tutti rintracciabili sul campo e non dietro le quinte. L’impraticabilità del 3-5-2 con Hernanes e Kovacic interni di centrocampo si specchiava nel gioco orizzontale, senza soluzioni di sbocco né movimenti degli attaccanti, e la palla che ondeggiava sterilmente da un lato all’altro del campo: il mal di mare riportato su di un rettangolo verde.
Ma a ben vedere i problemi nascevano a monte, nelle difficoltà di eludere il primo pressing avversario e l’uscita della palla affidata spesso ai lanci lunghi. La fase difensiva non brillava di suo, vessata dagli equivoci sulle marcature, dagli errori di comunicazione e da meccanismi mai veramente consolidati. I diciotto mesi di gestione Mazzarri hanno consegnato una squadra grigia, modesta, incapace di trovare continuità di risultati.
La classifica colloca il lavoro dei due allenatori sullo stesso livello. Le espressioni dei tifosi a fine partita tendono a confermare questa sensazione (vedere per credere Inter-Verona, ultima in casa di Mazzarri, e poi Inter-Cesena, ultima in casa di Mancini).
Prima di capire se l’Inter abbia fatto dei progressi, urge chiarire se sia cambiato qualcosa, ed eventualmente cosa: dove è intervenuto Mancini? Su chi ha puntato? È riuscito nella valorizzazione dei giocatori, o si è arreso ai loro limiti? La domanda da porsi è se la ristrutturazione del casolare sia davvero iniziata, o se Mancini non sia andato oltre la mano di tinteggiatura, con il valore della struttura destinato a rimanere tale prima di ulteriori lavori.
La prima fase
Il primo cambiamento sensibile, atteso e ampiamente invocato, è l’abbandono dell’odiatissima difesa a tre, la mossa che avrebbe dovuto cancellare le amnesie e aiutare Vidic. Ma cambia anche l’approccio.
Ritorna l’aggressività nel pressing, ritorna una bozza di gioco verticale, di scambi rapidi, di intensità fin dai primi minuti. È una squadra frenetica, propositiva, così come dichiarato da Mancini: «Non abbiamo giocatori morfologicamente velocissimi, per questo stiamo cercando di giocare, giocare, giocare, per poi arrivare al gol giocando». Per Mancini l’Inter non può fisicamente coprire il campo in contropiede, quindi cerca il recupero più alto possibile, senza grandi risultati, ma con rinnovata fiducia.
La prima fase della nuova Inter, ovvero il mini-ciclo di cinque partite che chiude il 2014 (Milan, Roma, Udinese, Chievo e Lazio), porta con sé soli 5 punti e una vittoria, a Verona contro il Chievo. Ci sono terzini che segnano tagliando la difesa come fosse burro (Holebas), retropassaggi sbagliati (Palacio contro l’Udinese) e momenti di panico assoluto (il primo tempo contro la Lazio). Se da proverbio chi ben comincia è a metà dell'opera, ecco, no, qui neanche per sbaglio.
Nuovo anno, nuovi alti e bassi
Che il vaglio della stagione dovesse passare attraverso la sottile differenza tra il correre e il correre più degli altri, Mancini l’aveva intuito subito: «Siamo nel gruppo dietro e quindi non possiamo più permetterci di forare». Ad inizio 2015, per un attimo, l’Inter è parsa correre davvero. Dopo le prestazioni vagamente positive contro Chievo e Lazio, l’Inter strappa un pareggio allo Juventus Stadium, nonostante un gol subito dopo cinque minuti e gli ultimi dieci in inferiorità numerica. Poi conquista, in casa contro il Genoa, la vittoria più convincente della stagione.
C’è Vidic che ritorna in una difesa a 4 e si impone migliore in campo, ci sono Campagnaro ricollocato terzino destro, Guarín e Medel in mediana e Palacio-Podolski-Hernanes dietro Icardi. (Sostanzialmente una sintesi delle aspettative iniziali sulla potenzialità della rosa). Si conclude così un ciclo di otto punti in quattro partite, ritmo Champions par excellence.
Nonostante il momento positivo, a volerli annotare, di difetti se ne trovano. Il pressing del Chievo aveva mandato in apnea l’impostazione (come con Mazzarri), l’inefficace transizione difensiva aveva regalato trenta metri a Felipe Anderson (come con Mazzarri), la qualità superiore del centrocampo della Juventus aveva conservato una circolazione fluida senza troppi patemi e il Genoa era spesso riuscito a creare degli uno contro uno in fase offensiva (problemi strutturali, spesso di natura tecnica).
In sintesi: l’Inter non sembrava garantire gli equilibri necessari per potersi permettere tre uomini alle spalle della punta. Anche dopo i tre gol al Genoa, Mancini non può che ribadire la necessità di migliorare: «Oggi era importante vincere e fare bene con questo modulo un po’ troppo offensivo, ma se la squadra trova un po' di condizione fisica e migliora, credo che ci possa giocare».
Le buone intenzioni dell’Inter, difesa alta e possesso di qualità, vanificate da una pessima gestione degli spazi (Juan Jesus chiede al vento una linea di passaggio). Sull’errore inevitabile di Ranocchia, l’Inter non è pronta al recupero. Felipe Anderson proseguirà dritto verso il 2-0.
Si ritorna timidamente a parlare di terzo posto, poi ad Empoli l’Inter gioca malissimo. Ne esce fuori uno 0-0 figlio delle parate di Handanovic e della scarsa brillantezza della squadra di Sarri negli ultimi metri. Un punto strappato laddove sarebbe dovuta arrivare la sconfitta (più o meno le parole di Mancini al termine).
Un’elementare triangolazione, passaggio all’interno e successiva corsa alle spalle della difesa, coglie di sorpresa tre giocatori dell’Inter. È esattamente quello che era successo in avvio contro la Juventus, è esattamente quello che succederà a Glasgow.
Terza fase: cambiare giocatori
Contro l’Empoli, però, esordisce Xherdan Shaqiri. Il grande colpo di mercato, quello per cui in centinaia invadono Malpensa, il primo nome sulla lista, l’esterno offensivo «fortissimo tecnicamente, velocissimo, di personalità». È il primo vero messaggio (dopo l’esonero di Mazzarri) della presenza attiva di Erick Thohir e della sua volontà di migliorare la squadra.
Shaqiri parte titolare qualche giorno dopo negli ottavi di Coppa Italia contro la Sampdoria. L’uno-due che detta a Podolski al minuto settantuno, un attimo prima di siglare il gol del vantaggio, vale tutte le aspettative riposte e tutti i soldi impegnati.
All’arrivo di Shaqiri (e a quello, precedente, di Podolski) seguono le firme di Brozovic e Santon. Vale la pena segnalare come le prime tre pietre su cui ricostruire l’Inter siano un classe ’92 e due classe ’91 (mentre Podolski è arrivato in prestito senza diritto di riscatto).
È talmente bello che meriterebbe di poterci allegare a didascalia «il primo di >10 gol». Invece da allora ne sono arrivati solo due, un rigore all’Atalanta e il vantaggio contro il Celtic.
Brozovic esordisce con un ottimo impatto a Sassuolo. Al suo ingresso, per la prima volta e da lì in poi per sempre, il 4-2-3-1 diventa 4-3-1-2, con Palacio affiancato ad Icardi, Guarín e Kovacic interni e Shaqiri dietro le punte.
Quindi, l’Inter assume una forma molto simile a quella che ha in mente Mancini e le cose sembrano destinate a migliorare. Invece peggiorano. Le tre sconfitte consecutive (Torino, Sassuolo e Napoli in Coppa Italia) evidenziano diversi problemi strutturali e regalano il titolo più facile: "Inter, è crisi" (qui, qui, qui, qui).
Contro il Torino l’Inter ha avuto sempre il possesso e non è mai stata pericolosa (leggasi: la partita che voleva il Torino), le difficoltà nel trovare soluzioni hanno reso abbastanza evidente che Kovacic vuole la palla sui piedi e spazio davanti a sé, e non la palla lontana e gli spazi da cercare, e che quindi non può giocare trequartista, nonostante le belle parole di novembre: «Prima preferivo giocare più dietro, però Mancini mi sta già spiegando che alla fine cambia poco, che sono io a dover cambiare posizione, anche del corpo, per non stare spalle alla porta».
La partita contro il Sassuolo è invece una di quelle sconfitte «che uno non sa neanche cosa dire», che però qualcosa dice. Dice ad esempio: con il rombo l’Inter pressa meglio e quindi attacca meglio («Nel secondo tempo abbiamo cambiato per questo motivo, abbiamo messo due attaccanti centrali e una mezzapunta sperando di avere più occasioni e le abbiamo avute»); Icardi non si può lasciare in panchina; Shaq funziona anche da trequartista e, sostanzialmente, è l’ultima volta in cui lui e Kova saranno in campo insieme.
Tra le altre cose, le incomprensibili difficoltà a difendere su calcio da fermo. All’inizio Maxi López è di Donkor, che però non ne segue il movimento sul primo palo, dove comunque ci sarebbe anche Kuzmanovic. Ranocchia tiene Moretti ma scala improvvisamente, lasciandolo solo, libero di segnare.
Prendere fiato
Tre vittorie consecutive, invece, in campionato non si vedevano dal novembre 2012, dall’illusione di Stramaccioni. I due anni di attesa per un dato statistico assolutamente alla portata raccontano la frustrante mediocrità in cui l’Inter si è reclusa. Mancini riporta tre W sul calendario infilandoci in mezzo anche il passaggio del turno contro il Celtic.
Probabilmente le scosse d’assestamento erano fisiologiche, facilmente contestualizzabili. Più probabilmente, nella modesta dimensione tecnica e carismatica in cui naviga l’Inter, il confine tra vittoria e sconfitta è talmente labile e legato agli episodi che tre vittorie di fila possono arrivare con la stessa facilità con cui sono arrivate le tre sconfitte di fila che le hanno precedute, e così via, nel più noioso e avvilente dei rollercoaster.
Questo momento positivo ha due volti: Guarín e Icardi. Anche il karma si diverte a far notare alla Curva Nord la sua inadeguatezza e gli stessi che a Sassuolo si erano visti tirare dietro le magliette con i dovuti insulti, si trasformano in trascinatori con una serie di colpi e di intuizioni che non sembravano in grado di poter garantire.
Guarín è stato per distacco il giocatore più fischiato dell’era Mazzarri. Dopo un anno da jolly, da dodicesimo uomo schierabile ovunque, WM gli aveva proposto una nuova collocazione lo scorso settembre: «Sarà impiegato come seconda punta, come giocatore offensivo, perché in questo ruolo rende al massimo». Solo con Mancini ritorna davvero al centro dell’Inter, e fiducia è la parola chiave. Catalizzatore ma non accentratore, migliora tantissimo la scelta di tiro, esplosivo sia di destro che di sinistro, libera i terzini per il cross dal fondo, uno dei pochi a creare superiorità, si dimostra il più classico degli acquisti che non lo erano. La squadra si muove al suo ritmo.
Palermo, Atalanta, Celtic. Difficile scegliere la sua partita migliore, più facile scegliere il suo gol più bello, perché è difficile farne di più belli di questo.
Per Icardi è difficile che si tratti solo di un momento di grazia. Con Mazzarri era sempre al centro del dibattito, simbolo del potenziale inespresso e delle difficoltà degli attaccanti vecchia scuola ai ritmi attuali. Si è poi dimostrato il più moderno degli attaccanti moderni, con una capacità di lettura degli spazi e dei movimenti che pochi numeri nove riescono ad abbinare alla sua media gol. Ogni partita ci sarebbe da dedicargli due/tre Vine per come smuove le marcature, torna a recuperar palla (anche nella trequarti avversaria), crea linee di passaggio.
Vedere per credere le due azioni che portano al gol nella trasferta di campionato a Napoli: in area non c’è mai. La freddezza con cui calcia poi un "Panenka" all’ottantasettesimo non c’entra nulla con il 1993 scritto sulla sua carta di identità.
Icardi intanto è diventato questa cosa qui.
Il monte Wolfsburg
Da qualche parte si doveva iniziare a rallentare. Se per tutte le precedenti sconfitte una giustificazione consolante, a volerla trovare, si trovava, l’eliminazione in Europa spezza il fiato. Contro il Wolfsburg è Mancini per primo a commettere errori. Nella gara di andata sbaglia a sostituire Hernanes per passare alla difesa a tre, regalando 20 metri agli avversari.
Quando Vidic gioca molto bene contro il Genoa, è lo stesso Mancini a commentare: «Lui sta migliorando, ma la difesa è questa, ed è un ruolo che non bisogna toccare». Allora perché stravolgerne l’assetto nel mezzo della partita più importante dell’anno?
Sbaglia quando, in assenza di Shaqiri nella gara di ritorno, investe comunque su Kovacic e sul 4-2-3-1, salvo ripensarci a inizio secondo tempo, senza oltretutto ottenere miglioramenti.
Alcuni errori sono macroscopici: su tutti il gol di Naldo nella gara di andata. Si consiglia un gioco replicabile anche per il 2-0 di Higuaín in campionato. Osservare Naldo, osservare Juan Jesus, pensare intensamente: “dai, ora lo prende, adesso lo ha visto, ora lo prende”. Poi osservare la palla entrare in porta e il tabellino aggiornarsi.
Ultima fase: in realtà eravamo fermi in stazione
Le due sconfitte europee restituiscono limpidamente l’immagine di un progetto confuso, di meccanismi incerti, di calciatori sfiduciati, e conducono all’amara conclusione che Roberto Mancini non abbia affatto, al contrario di quanto fosse sembrato fino ad allora, le idee più chiare degli altri.
Non si è ancora vista una transizione difensiva condotta decentemente: sulla palla persa tendono tutti a correre all’indietro ignari del pallone e timorosi dell’avversario. Non si è ancora vista traccia di movimenti senza palla coordinati: spesso Guarín o Icardi, attraendo difensori, liberano l’esterno per il cross dal fondo, ma l’area viene attaccata malissimo. Anche le fragilità difensive non fanno altro che aumentare le fragilità in un loop infinito: non c’è modo in cui l’Inter non abbia preso gol, oppure una volta in cui abbia subito gol riuscendo poi a ribaltare il risultato, anzi spesso è successo l’opposto.
Gli errori tecnici, le ingenuità, le imperfezioni, sarebbero perdonabili se circondati da altre indicazioni positive, da una ritrovata solidità mentale o da un modulo che rafforzasse l’identità di squadra. Non serviva vincere subito, ma sarebbe stata già graditissima la sempre attuale sconfitta di lezione. Le ultime, invece, sono state sconfitte e basta, niente da imparare, niente su cui fare leva per costruire i successi futuri.
L’anno che verrà
Gli errori individuali sono stati troppi e troppo goffi, ma rischiano di trarre in inganno nella valutazione del potenziale dei singoli, e soprattutto in proiezione della prossima finestra di mercato. Per il bene del progettovincente che Mancini continua a sbandierare, urge non confondere i problemi di disequilibrio e disarmonia (molti) con la fretta di liberarsi di alcuni giocatori. La capacità di risollevarsi dipenderà soprattutto dalla fiducia della dirigenza nel progetto, quando sarà chiamata a rialzare la posta in vista di un’altra stagione senza coppe europee.
Ascoltando la conferenza di Mancini alla vigilia di Napoli-Inter, mi ha colpito una frase alla cui matrice culturale sono poi risalito attraverso Google. «Il futuro dipende dal presente» è un aforisma contenuto negli scritti di Mohandas K. Gandhi, e preso in prestito non so quanto coscientemente. Roberto Mancini ha davanti a sé due anni di contratto, la lunga marcia è appena iniziata e dalle parole dei giocatori si può intuire la sua prima vera conquista: la serenità dell’ambiente. La prossima sarà convertire questa serenità in mentalità vincente. A conti fatti, l’esito di questi mesi è sconfortante, ma Galilei, fosse interista, continuerebbe a crederci. Potrebbe citarsi da solo, con la frase più o meno correttamente a lui attribuita: «E pur si muove!».