Denver Nuggets-Portland Trail Blazers 3-4
di Dario Ronzulli
Non si è mai visto un giornalista capace di decidere gara-7 di una serie playoff NBA. Christian James McCollum, in arte C.J., è l'uomo copertina del ritorno di Portland a una finale di conference 19 anni dopo l'ultima volta, quando i Blazers di Scottie Pippen, Rasheed Wallace e Arvydas Sabonis persero contro i Los Angeles Lakers di Shaq e Kobe dopo sette autentiche battaglie. C.J. – che oltre a giocare a pallacanestro si è laureato in giornalismo, conduce un podcast e ha diverse iniziative legate al mondo dei media - è stato il migliore dei suoi in ogni momento della partita: nel momento di massima difficoltà, durante la rimonta e nel concitato finale.
Quando tutti hanno compiuto la scelta sbagliata, lui ha mantenuto costantemente la lucidità necessaria per una partita di questo calibro. Il tabellino finale dice 37 punti con il 58% al tiro più 9 rimbalzi e tante altre cose da spellarsi le mani. Non male per essere la prima volta in carriera in una situazione da win or go home: ora potrà dire alla ormai celeberrima Jennifer non più “Ci sto provando” ma “Ci sto riuscendo”.
Per dire quanto è stata clamorosa la sua gara, basti sapere che non c’era il minimo dubbio nella squadra di Damian Lillard su chi dovesse prendersi questo tiro. La difesa di Torrey Craig è competente (anche se McCollum non è d’accordo), ma quell'arresto al gomito manderebbe al bar chiunque perché fatto con forza, concentrazione e fiducia. Con le linee di passaggio bloccate e con un difensore più grosso davanti, quel movimento a liberarsi per un tiro dalla media distanza era l'unica opzione possibile per creare un vantaggio. Un canestro jordanesco...
...e una chasedown LeBronesca qualche possesso prima per cancellare un canestro che avrebbe ridato coraggio ed energia a Denver e al Pepsi Center.
Dobbiamo evidenziare che è stata una serie meravigliosa, una di quelle che restano dentro per le emozioni che ha dato, per l'equilibrio che ha regnato, per le giocate che ha regalato. Giustamente è stata decisa all'ultimo possesso dell'ultima partita, e giustamente ha avuto un epilogo incerto fino all'ultimo.
Dopo essere andati avanti anche di 17 lunghezze nel corso del primo tempo, i Nuggets sembravano in controllo della situazione, ma alla banda di Mike Malone è poi mancato il killer instinct per affossare gli avversari. Questione di gambe che rispondevano poco? Certo, ma vale anche per i Blazers, che nel corso della partita hanno perso anche Rodney Hood. La pessima percentuale al tiro da tre – 2/6 Jokic, 0/13 tutti gli altri – è simile a quella di Gara-7 contro gli Spurs al primo turno, così come lo score dalla lunetta – 9/9 Murray, 11 errori su 30 di tutti gli altri – era già avvenuto in stagione.
Se questa volta Denver ha pagato dazio è stato perché non ha saputo gestire il lato emotivo della partita, smarrendo la retta via man mano che Portland si avvicinava, e perché la serataccia di Murray - 4/18 al tiro, liberi a parte - ha tolto l'unico riferimento offensivo di alto profilo oltre a Jokic, che il suo lo ha fatto come sempre ma non ha potuto vincerla da solo. Nel finale il serbo è andato evidentemente in debito d’ossigeno come era pronosticabile, visto che ha giocato 42.2 minuti di media, fatto pentole e coperchi, sfoderato prestazioni clamorose per tutti i playoff gestendo una quantità impressionante di palloni. La sua prima post-season in carriera si conclude con una media di 125 tocchi a partita, di cui 75 in attacco: il secondo, Russell Westbrook, si ferma a 95, così come per tocchi nella metà campo offensiva chi sta dietro Jokic (che curiosamente è Danilo Gallinari) è fermo a 48.
Jokic nello spogliatoio ce lo immaginiamo così.
D’altra parte, neanche McCollum poteva vincerla da solo. E difatti l’apporto della panchina dei Blazers è stato determinante. Con Rodney Hood ko per un colpo subito su un blocco cieco e Al-Farouq Aminu messo in panchina dopo 7 minuti perché in evidente stato confusionale, coach Terry Stotts non ha avuto remore a dare minuti e responsabilità alla second unit.
È stato ripagato da una prova di carattere e feroce determinazione di tutti: Zach Collins con i rimbalzi e un paio di canestri utilissimi ad aprire ancora di più la difesa; Meyers Leonard e Seth Curry con azioni difensive fatte con il sangue agli occhi; Moe Harkless con una miriade di piccole cose che messe insieme l'una sopra l'altra diventano il monolite di “2001 Odissea nello spazio”.
Ma soprattutto lui, il reietto, il derelitto Evan Turner. La sensazione che avrebbe combinato una fesseria rovinando tutto era sempre dietro l’angolo, ma invece l'ex Celtics è stato perfetto nella sua incoscienza, eccellente nello sparigliare le carte con il suo gioco così particolare. Ha segnato il doppio dei punti (14) messi a referto nelle precedenti partite playoff (7 in tutto), ha difeso su chiunque senza paura, ha dato prova di essere mentalmente dentro la partita in ogni possesso. Una prestazione esaltante nel momento di assoluto bisogno.
Eppure era evidente che per completare il lavoro servisse l'apporto di Damian Lillard, altrimenti tutto sarebbe stato vanificato. Dame doveva essere colui che avrebbe permesso al gruppo di percorrere l'ultimo centimetro, quello che i compagni bravissimi non erano in grado di fare. Zero punti dopo 16 minuti, 1 su 9 al tiro all'intervallo: i numeri non erano affatto incoraggianti, la difesa di Denver gli ha tolto ritmo e aria come già successo nel corso della serie.
Ma la gara-7 di Lillard passa dalla consapevolezza che avrebbe potuto aiutare la squadra in altri modi: difesa, rimbalzi, passaggi a punire i raddoppi. In una delle sue serate peggiori al tiro di sempre – 3/17 dal campo e il 2/9 dall'arco – il numero 0 è andato a due assist dalla tripla doppia, catturando il massimo dei rimbalzi in carriera nei playoff (10) e con lui in campo il plus/minus è stato di +8, secondo solo a quello di Leonard. Un leader lo vedi nel momento del bisogno, ma anche nel modo in cui aiuta la squadra mettendo l’ego da parte.
Degli otto assist di Lillard messi a referto, questo è probabilmente il più indicativo di come la difesa Nuggets sia stata brava ma solo fino ad un certo punto - nel senso temporale del termine. Il raddoppio di Millsap, che in altre azioni era stato efficace, qui è troppo morbido e lascia abbondante spazio per la penetrazione centrale. Jokic deve abbandonare Kanter e il tempismo del passaggio schiacciato a terra di Lillard è eccellente; poi il turco ci mette molto del suo per arrivare a vedere il ferro e segnare.
Parte centrale del quarto periodo. Da 4 minuti si segna solo dalla lunetta, e nessuna delle due approfitta del calo dell'altra. Fino a questa azione. Jokic è troppo leggero nel cercare di aumentare i ritmi nell'apertura per Murray e Lillard è un fulmine nel cambiare direzione e andarsi a prendere il pallone. Con la penetrazione senza guardare il canestro sembra che Dame abbia perso tempo: in realtà ha già in testa dove andare e cosa fare. Dopo lo scarico su Turner, il “movimento Djordjevic” porta Lillard in angolo, lì dove nessuno dei Nuggets – perché in ritardo o perché, come Jokic, nel panico – può andare a prenderlo. Questo è un canestro da campione, da leader, da killer. Da Lillard.
Un anno dopo il cappotto subito dai New Orleans Pelicans, Portland va dunque a sfidare i Golden State Warriors in una finale di Conference che sembra già segnata in favore dei campioni in carica - ma se lo dite a Lillard e McCollum vi risponderanno sicuramente con un ghigno. Denver, invece, chiude la sua stagione con tante indicazioni positive da cui ripartire: coach Malone ha in mano un gruppo giovane e già competitivo, ma che forse avrà bisogno quest'estate di uno/due veterani per poter compiere lo step che separa la franchigia del Colorado dall'essere una reale contender.
Toronto Raptors-Philadelphia 76ers 4-3
di Lorenzo Bottini
C’è una strana poesia in una Gara -7 che per essere decisa ha bisogno di estendersi fin dopo il suono della sirena, con il mondo che si ferma in uno slow motion in tempo reale e gli occhi del mondo fissi sul ferro della Scotiabank Arena. Non sono bastati i 336 minuti regolamentari per decidere la serie tra i Toronto Raptors e i Philadelphia 76ers: serviva una Twilight Zone in cui tutto diventa possibile, una dimensione parallela nella quale si susseguono quattro rimbalzi - due sul ferro anteriore, poi altri due su quello posteriore - prima che il pallone, attratto da una misteriosa forza magnetica, si adagi sul bordo interno e venga inghiottito dalla retina. Anche Kawhi Leonard a quel punto era già stato inghiottito dalla panchina di Toronto, accasciandosi a terra seguendo con lo sguardo quella parabola impazzire, che ha ballato sull’anello per un tempo infinito prima di entrare.
Si tratta del primo buzzer beater in una Gara-7 della storia dell’NBA da quando si è passati a questo formato. L’unico tiro con una grandezza comparabile è “The Shot” di Michael Jordan sopra Craig Ehlo, di cui sono ricorsi pochi giorni fa i venticinque anni. E ne sono passati diciotto da quando Vince Carter proprio contro i Sixers mandò sul ferro un tiro simile, regalando le Finals ad Allen Iverson e compagni con il suo errore. Un ferro che per quasi vent’anni è aleggiato come un sinistro presagio su tutta la franchigia, incapace prima di superare la rottura con Vincredible e suo cugino Tracy McGrady e successivamente dominati psicologicamente da LeBron James per anni.
Kawhi Leonard con un solo, incredibile, assurdo tiro, ha finalmente restituito all’intero Stato del Canada la possibilità di essere per una volta dal lato giusto della storia. E non è un caso che a infrangere il tabù sia stato un giocatore che non ha nulla a che fare con l’epica dolente dei Raptors, arrivato a Toronto quasi per caso e che potrebbe andarsene tra meno di due mesi.
I tifosi di Toronto potrebbero anche costruire un muro per evitare che Kawhi possa andarsene.
Dopo aver sbagliato in modo quasi stupefacente il tiro libero che avrebbe garantito ai Raptors un possesso pieno di vantaggio a dieci secondi dalla fine, lasciando la porta aperta a un canestro in contropiede di Jimmy Butler, Leonard ha segnato i punti numero 40 e 41 della partita scegliendo la modalità più lontana possibile dalla sua personalità: una scossa di pura emotività con tutti i riflettori addosso.
Contro i Sixers Kawhi ha dimostrato come sia ancora uno dei migliori giocatori al mondo, un concentrato di robotica precisione e istinti animali. Ha dominato la serie con 35 punti di media e una efficienza computerizzata nonostante fosse raddoppiato e triplicato ad ogni possesso. Coach Brett Brown ha mandato sulle sue tracce Ben Simmons, Joel Embiid e Butler, spesso e volentieri in contemporanea pur di provare a rallentarlo scommettendo contro le percentuali del resto di Toronto. E ad inizio partita la tattica è sembrata funzionare, con Kawhi che ha cominciato a mostrare i primi segnali di stanchezza dopo aver trascinato l’arca dei Raptors a mani nude per tutta la serie.
Se nelle prime quattro partite aveva tirato con un incredibile 61.7% dal campo, nelle ultime tre non è mai andato oltre il 45%. I jumper sembravano schiantarsi tutti sul primo ferro, nel pitturato ha sofferto la presenza intimidatrice di Embiid, le continue trappole mettevano a dura prova le sue capacità di passatore - l’unico palese difetto del suo gioco altrimenti immacolato. Nonostante tutto non ha smesso mai un momento di prendersi le responsabilità in prima persona tirando la bellezza di 39 volte (record in una gara-7 finita ai regolamentari), ricucendo lo strappo quando i Sixers a metà terzo quarto hanno tentato l’allungo con un parziale di 16-0.
Con Pascal Siakam poco incisivo (11 punti con 11 tiri) e Danny Green ancora spuntato (0/1 da tre) è servita tutto il mestiere operaio di Kyle Lowry e la resurrezione di Serge Ibaka, vero fattore uscendo dalla panchina. Il congolese uscito dal quintetto con l’arrivo di Marc Gasol è stato fondamentale per Nick Nurse con tre triple e un’intensità a rimbalzo d’attacco che ha girato la partita. Il quintetto gargantuesco con Ibaka, Gasol e Siakam tutti assieme è stata la risposta di Toronto alla fisicità del quintetto di Philadelphia, garantendo grappoli di extra possessi (16 rimbalzi offensivi) e 24 tiri in più rispetto ai Sixers.
Uno dei canestri più importanti nell’economia della partita, sempre nello stesso angolo, sempre sulla sirena.
La scelta di Brett Brown di usare Embiid come battitore libero in difesa accoppiandolo con Siakam lo ha reso efficace nello sporcare la circolazione di Toronto, ma lo ha inevitabilmente allontanato dal pitturato dove i Sixers erano spesso in inferiorità numerica nella lotta a rimbalzo. D’altronde era impossibile chiedere qualcosa in più al lungo camerunense, che è restato in campo per oltre 45 minuti nonostante gli ormai cronici problemi fisici. Ha chiuso con 21 punti e 6/18 al tiro, ma +10 di plus/minus in una partita persa di due punti in cui ha riposato per meno di tre minuti totali. I Sixers nella serie hanno chiuso con +90 nei 237 minuti con lui in campo e -111 nei 99 minuti nei quali ha provato a riprendere fiato in panchina. Basta questo dato per esemplificare la sua centralità nel progetto dei Sixers, che non può prescindere dalla sua forma fisica.
Attorno a lui l’intero quintetto di Philadelphia è andato in doppia cifra, dimostrando anche nella più amara delle occasioni quanto questo gruppo abbia il talento per riprovarci il prossimo anno. Simmons nelle ultime due partite ha fatto vedere un’ abnegazione e un sacrificio che non gli venivano riconosciuti, forse ancora ferito dall’abbandono di Kendall, mentre Butler è diventato rapidamente un beniamino del pubblico di casa ed è difficile pensare che possa andar via. Il suo canestro in transizione con 4 secondi sul cronometro è uno dei tanti momenti che svaniranno nelle lacrime di Embiid, ma il suo impatto anche in questo quarto quarto è stato innegabile (10 punti dei suoi 16 finali) nonostante la caviglia girata.
Il canestro con il quale Butler ha pareggiato la partita e innescato lo One Shining Moment di Kawhi.
Lui e Tobias Harris andranno rifirmati in estate, sperando in qualche sconto rispetto al massimo salariale che entrambi aspirano a prendere, mentre bisognerà fare i conti con la clessidra che scorre sopra J.J. Redick, figura più importante per questa squadra di quanto i numeri lasciano credere. Il General Manager Elton Brand dovrà essere creativo nel comporre con i pochi soldi rimasti una panchina che sia in grado di contenere i danni e far rifiatare i titolari: contro i Raptors solo James Ennis ha dato l’impressione di poter scendere in campo mentre nessun lungo tra Marjanovic, Monroe, Bolden e Amir Johnson ha dimostrato di poter dare qualcosa nei brevi momenti nei quali sono stati chiamati in causa. In una stagione che ha definitivamente concluso l’epoca del The Process, i Sixers sono arrivati ad un rimbalzo, o due, o tre dall’accedere alle finali di Conference. Un finale dolceamaro che però deve essere la base su cui costruire negli anni futuri, specialmente dopo le mosse fatte durante questa stagione.
Toronto invece torna a giocarsi un posto per le Finals dopo tre anni, quando Lowry e DeRozan vennero liquidati da LeBron in sei partite. Ora James è in vacanza sulla West Coast e il sacrificio di DeRozan ha portato in dono le mani gigantesche di Leonard: basterà un canestro impossibile a cambiare la narrazione della squadra canadese o uno schiocco di dita di Giannis Antetokounmpo riporterà tutto al suo naturale equilibrio?