Nel discorso calcistico italiano si creano tante false contrapposizioni. Una di queste è quella dei giocatori contro gli allenatori. O meglio: tra allenatori che darebbero più importanza al talento, rispetto ad allenatori che darebbero più importanza alla tattica. Un’idea secondo cui si possono ottenere risultati attraverso l’organizzazione oppure attraverso il talento individuale. Da una parte l’arida complicazione della tattica, dall’altra la bellezza spontanea della tecnica.
Alcuni addetti ai lavori non fanno niente per non alimentare questo dibattito. L’ultimo è stato Carlo Ancelotti, che ogni volta cerca di presentare il suo lavoro come quello di un maggiordomo che si limita a lucidare l’argenteria: «Ci sono due tipi di allenatori: quelli che non toccano niente, e quelli che fanno danni» ha detto, prima della sfida contro il Bayern, augurandosi di appartenere alla prima categoria. Un’idea simile a quella del guru della semplificazione, Max Allegri, secondo cui innanzitutto un allenatore deve essere bravo a non fare danni.
Come se ci fosse un piano spontaneo del calcio, una sua essenza, che dovrebbe fiorire naturalmente. Ogni sovrastruttura interferirebbe in questa fioritura. Di fronte a questi argomenti verrebbe da chiedere, a questi allenatori: e allora perché venite pagati? Per cos’è che viene pagato, precisamente, Carlo Ancelotti se il suo lavoro, stando a quello che dice, sarebbe letteralmente non fare niente? È possibile che Allegri percepisca 7 milioni l’anno per dire ai suoi giocatori di passare la palla a quelli con la maglia dello stesso colore?
Il Real Madrid potrebbe davvero essere allenato da chiunque e non cambierebbe il risultato? Anche “Nati per Vincere” potrebbe allenare la Juventus, o una marionetta di Carlo Ancelotti mossa da un ventriloquo che fa la sua imitazione? Perché non abolire direttamente gli allenatori?
Quando dicono quelle cose gli allenatori non vanno presi in senso letterale: stanno solo suggerendo che il loro lavoro non si limita a quello che possiamo vedere e analizzare; che il loro lavoro va oltre e noi non possiamo capirlo, troppo fermi alla superficie delle cose.
In un suo recente articolo Dario Pergolizzi prova, con pazienza e profondità, a spiegare in cosa consisterebbe il lavoro di questi allenatori che rivendicano il fatto di non lavorare. Scrive Pergolizzi: «L’allenatore incide anche quando non incide. Anche non decidere è decidere, nel calcio, poiché la neutralità non esiste (…). La bravura di chi allena sta proprio nel trovare i vincoli più adatti, i linguaggi più efficaci da utilizzare affinché il talento pratico possa fiorire e le squadre abbiano una direzione stabile verso cui tendere, anche quando le cose non stanno funzionando».
Insomma, anche un allenatore come Ancelotti, che accarezza le sue squadre con mano dolce, costruendo strutture leggere come la carta cinese, è decisivo per far giocare il Real Madrid così come gioca il Real Madrid. Del resto non è bastato forse il cataclisma del Napoli a rivelare chiaramente quanto influisca un allenatore sull’efficacia di una squadra? Se De Laurentiis voleva dimostrare che il Napoli poteva essere allenato da chiunque - chi più di Mazzarri si avvicina a chiunque? - la realtà non ha confermato il teorema.
C’è la credenza secondo cui siano poi proprio quegli allenatori “gestori” a valorizzare meglio di altri i giocatori a disposizione. Ad adattare le proprie idee a quelle della propria rosa: dare alla squadra la forma dei propri talenti. Per l’idea secondo cui la tattica, appunto, ostruirebbe la libera espressione del talento.
Eppure c’è un allenatore che ormai da anni smentisce tutte queste false credenze. Un allenatore che da un decennio, in Serie A, costruisce squadre di straordinaria coerenza, valorizzando giocatori che sembravano smarriti, o che si smarriranno altrove. Un allenatore i cui principi tattici moltiplicano le possibilità dei propri giocatori. Stiamo parlando molto delle stagioni di Charles De Ketelaere e Gianluca Scamacca, e se oggi possiamo considerarli dei giocatori recuperati, o comunque dentro a un percorso promettente, è anche grazie a Gian Piero Gasperini.
De Ketelaere è passato da essere quell’uccellino bagnato, triste e inadeguato, con la maglia del Milan, a essere uno dei giocatori più eccitanti della Serie A. È passato da una stagione da zero gol e 1 assist a una da 13 reti e 8 assist. Scamacca dai 3 gol lo scorso anno col West Ham ai 17 di questa stagione. Non è pretestuoso accomunare i due giocatori, che per quanto diversi avevano problemi simili. Entrambi erano giocatori dal talento evidente ma grezzo, dal ruolo ambiguo e con chiari problemi di sicurezza e intensità mentale. Entrambi erano dei giocatori dal grande potenziale, adombrato però dal dubbio che non fossero adeguati per le richieste del calcio contemporaneo. Giocatori senza la giusta testa, senza la giusta motivazione, e con difetti chiari che rendevano inutili le loro qualità. Sia De Ketelaere che Scamacca possiedono qualità tecniche indubbie, ma anche una certa fragilità nei duelli corpo a corpo, una generale lentezza, una presenza leggera e approssimativa nelle partite. Entrambi troppo arrendevoli nel gioco spalle alla porta per sopravvivere nei loro ruoli.
De Ketelaere era arrivato al Milan come erede dell’aristocrazia tecnica della storia dei rossoneri, e se ne era andato con l’etichetta di bidone. Non solo uno che fallisce, ma uno che fallisce in modo imbranato e clamoroso. Scamacca era stato comprato dal West Ham per 42 milioni complessivi e a un certo punto si è praticamente messo fuori rosa. Il suo capitano e la leggenda del West Ham Michail Antonio lo aveva, tra le righe, bollato come inadeguato antropologicamente al calcio di Premier.
Quando sono arrivati all’Atalanta era inevitabile nutrire dello scetticismo. Come si sarebbero inseriti due giocatori tanto cagionevoli in un sistema che fa della durezza, dell’impatto fisico e atletico, la sua forza? Che posto avrebbero trovato nel sistema teoricamente rigido di Gasperini due profili così ambigui, senza ruolo, incollocabili?
Entrambi erano titolari nel trionfo dell’Atalanta per 3-0 ad Anfield: la vittoria più prestigiosa della storia del club. Scamacca ha addirittura segnato una doppietta. Le loro stagioni a mio parere ci dicono qualcosa di interessante nel discorso iniziale che facevamo, sul rapporto tra talento e tattico, tra peso degli allenatori e dei giocatori.
Gasperini è un tipo d’allenatore diverso da Carlo Ancelotti. Le sue squadre seguono lo spartito, hanno un’organizzazione forte e dei principi inderogabili. Nelle prime settimane le nuove squadre o i nuovi giocatori sotto la sua gestione faticano, perché si tratta quasi di imparare il calcio da capo. È cresciuto nel mito di un allenatore totalitarista come van Gaal e la maggior soddisfazione del suo lavoro, dal suo punto di vista, è quando la sua squadra è in vantaggio e non chiede di abbassarsi per difendere il risultato - come ha dichiarato dopo il trionfo di Anfield. Gasperini, insomma, è quel genere d’allenatore che secondo i luoghi comuni sarebbe nemico del talento. Un allenatore che a forza di schemi, moduli e sofismi intellettuali schiaccerebbe la libera espressione dei suoi giocatori.
Eppure Scamacca e De Ketelaere, che hanno faticato altrove, hanno trovato proprio nel calcio teoricamente opprimente di Gasperini il modo di esaltare le proprie qualità. E non sono giocatori che diremmo sulla carta in linea con la sua idea di calcio ultra-performativa. Sono anzi due talenti in un’accezione piuttosto convenzionale di questa idea. Due giocatori dalle qualità tecniche spiccate ma indisciplinati. Giocatori che controllano bene la palla, la calciano bene, che hanno estro e un certo gusto per la giocata estemporanea. Gasperini ha indovinato il potenziale in loro. Scamacca ha esplicitamente detto che il tecnico ha visto in lui delle cose: «L’allenatore mi ha detto che ho qualità nascoste che però lui vede: è la cosa che mi ha colpito di più». E così Gasperini ha messo le sue idee di gioco, la sua sensibilità tattica, al servizio di questi due talenti, e ci ha lavorato con pazienza.
Dopo la doppietta ad Anfield Scamacca, con l’aria sconvolta di chi sta cercando di rimanere sobrio e gli continuano a offrire da bere, ripeteva che è “in un processo”. Gasperini ha lavorato sulla loro intensità mentale nelle partite, ha aumentato il loro volume di gioco. Li ha convinti anche di poter avere un impatto fisico sulle difese. Li ha convinti a non perdersi nell’errore, a continuare a provare a riprovare. Nella partita d’andata a Bergamo contro il Milan De Ketelaere ha commesso un errore-meme a pochi centimetri dalla porta e forse lo scorso anno sarebbe stato sostituito, affranto e umiliato. Quest’anno invece ha continuato a insistere nel provare cose complicate, a provare a essere incisivo, e alla fine ha trovato l’assist. Gasperini ha lavorato sulla loro mente per renderli più consapevoli dei propri mezzi, ma ne ha migliorato anche le loro letture.
Scamacca, per esempio, sta migliorando in maniera evidente nel gioco di raccordo spalle alla porta, un suo difetto molto grande che si porta dietro da inizio carriera. De Ketelaere, d’altra parte, è lasciato piuttosto libero di muoversi sulla trequarti e cercare ricezioni e associazioni con i compagni. Gasperini gli ha ristretto il campo attorno, come ha detto lui stesso in un’intervista: «Io non sono un giocatore che può correre 12 chilometri ma posso fare molta intensità e in questa posizione riesco a fare più questo e quindi mi sento anche più forte nell'azione che faccio». Gasperini, insomma, si è adattato alle loro caratteristiche.
I miglioramenti di entrambi hanno trovato nella partita di ieri contro la Roma un coronamento. Scamacca non ha segnato e ha anche tirato poco, tutto sommato. Eppure è stato tra i migliori in campo, con un gioco di cucitura sulla trequarti d'alto livello. Qualcosa di impensabile qualche mese fa. De Ketelaere invece ha giocato un primo tempo tempestoso, dribblando, tirando, vincendo duelli, creando e disfacendo occasioni a piacimento. Il contrario del giocatore trasparente visto lo scorso anno.
Bisogna dire che non è la prima volta che a Gasperini riesce la magia. Zapata, Muriel, Toloi, Ilicic, Pasalic, Gomez erano tutti degli irrealizzati prima di arrivare all’Atalanta e trovare la loro strada, e una dimensione che forse non pensavamo nemmeno più possibile. Sono tutti talenti molto diversi fra loro, e che quindi vanno contro quell’idea di Gasperini come allenatore dogmatico che cerca di far entrare i suoi giocatori nello stampino preconfezionato delle proprie squadre. È un allenatore invece che ama lavorare sul talento grezzo, e lasciarlo sviluppare secondo le proprie possibilità. Ogni versione della sua Atalanta è stata costruita attorno al talento dei migliori giocatori offensivi. Una forma sempre uguale ma anche sempre leggermente diversa.
È impossibile non collegare questo discorso con l’altro grande luogo comune che circonda Gasperini, e cioè che non sarebbe tagliato per allenare una grande squadra. Il trauma originario, ovvero il fallimento all’Inter, lo dimostrerebbe: il suo stile di gioco non si adatterebbe ai giocatori di talento. Il suo calcio sarebbe troppo rigido.
Certo, va detto che lui sembra diventato più flessibile col tempo, rispetto a quando allenava il Genoa o l’Inter. L’attuale Atalanta sa fare più cose, rispetto alle sue precedenti squadre. E non si può ignorare comunque un livello di dissidio tra individuo e collettivo nelle sue squadre, come abbiamo visto nel litigio con Gomez, o nei fallimenti di certi giocatori di spessore come Kjaer, Boga o Maehle, che ha poi definito “dittatoriale” la sua gestione. La questione, però, sembra più relazionale e umana, che non tattica. Anzi: Gasperini non sembra amare quei giocatori-specialisti da usare come pedine degli scacchi. Boga, per esempio, è un giocatore perfetto per quegli allenatori che hanno bisogno, nella loro struttura posizionale, di qualcuno che salti l'uomo a livello industriale. Gasperini invece ama giocatori offensivi che sanno leggere il gioco in maniera complessa, manipolare i ritmi e gli spazi, e associarsi con gli altri.
In Italia continua a esserci l’idea che la tattica sia nemica del talento, o comunque se ne parla come queste dimensioni fossero due compartimenti stagni rigidamente separati tra loro. Eppure Gasperini è una delle dimostrazioni, forse solo la più lampante in Serie A, di quanto una struttura, un’organizzazione, o quello che è, può aiutare le individualità a esprimersi. Di certo non c’è troppa tattica nel gioco di Gasperini, la sua organizzazione è anzi riuscita a tirare fuori il meglio, per esempio, da un giocatore incredibilmente artistico come Ilicic, e ha aggiunto spessore a un giocatore come Lookman, che era arrivato in Italia come un’ala dribblomane con un gioco involuto.
Se oggi non c’è un club dell’élite europea che sta pensando a lui come nuovo allenatore non è certo perché non saprebbe come far esprimere e valorizzare i giocatori di talento. Una qualità che a Gasperini è sempre stata poco riconosciuta.