Il 13 gennaio 2011 Genoa e Sampdoria sono separate da 3 punti in classifica dopo 19 giornate, 26 i “Blucerchiati”, 23 i “Grifoni”. Non è quello che sognavano i tifosi, soprattutto quelli della Sampdoria che solo pochi mesi prima aveva mancato la Champions allo spareggio per un soffio, ma insomma: quando si tifano squadre come Genoa e Sampdoria certe stagioni anonime fanno parte del pacchetto. Il pomeriggio di quel giorno, nell’indifferenza generale, il rossoblù ufficializzano l’arrivo in prestito dal Wigan dell’attaccante argentino Mauro Boselli, uno dei tanti colpi enigmatici dell'inverno di Preziosi, un centravanti che con la maglia dell’Estudiantes aveva segnato anche al Barcellona di Guardiola nella finale della Coppa Intercontinentale, ma che in Inghilterra non aveva combinato nulla. Se questa storia la stesse raccontando Carlo Lucarelli, sarebbe il momento di prendere questa informazione e metterla da parte.
Per tutti il mercato invernale da guardare è invece quella della Sampdoria, che nel giro di pochi giorni si priva della sua coppia d’oro, Cassano (che era stato messo fuori rosa dopo un litigio con Garrone) e Pazzini, ceduti rispettivamente a Milan e Inter in un senso di chiusura di un’era che sarà interpretato troppo alla lettera. Privata dei suoi due migliori giocatori la squadra scivola rapidamente verso il basso: arrivano sconfitte contro Lazio, Napoli, Cagliari, Udinese, il 6 marzo addirittura un 2-3 in casa col Cesena che porta la zona retrocessione a soli 3 punti e fa saltare la panchina di Di Carlo, sostituito da Cavasin. Il Genoa, intanto, senza brillare si mantiene su un eterno e sonnecchioso decimo posto grazie ai gol di Floro Flores e Palacio. Boselli, fermato da vari infortuni, è ai margini. Segna nel recupero, appena entrato, in una sconfitta per 5-2 con l’Inter, ma niente di più.
Quando una squadra come la Sampdoria si trova invischiata nella lotta per non retrocedere l’idea è sempre quella che, in un modo o nell’altro, se ne tirerà fuori. I blucerchiati però sembrano impiccarsi con le proprie mani: perdono contro Catania, Parma, Lecce, tre partite di vitale importanza. Lo scontro salvezza con il Brescia alla quartultima giornata finisce 3-3, in una di quelle partite pazze con tutte le reti nel secondo tempo, tutte frutto di giocate disperate, errori marchiani, esultanze troppo emotive.
A questo punto è il primo maggio, la Sampdoria ha un punto di vantaggio sul Lecce terzultimo (36 a 35) e mancano 3 partite alla fine del campionato. La successiva, in città lo sanno tutti da mesi, è il derby con il Genoa, praticamente un incubo. A Genova le due spinte sono uguali e contrarie, tra tifosi che sognano lo sgambetto supremo e altri che lo temono come il peggiore tra i destini. A calmare gli animi ci prova la sindaca Marta Vincenzi che chiede una sfida senza violenze, «che non significa biscotti». Prova anche ad organizzare un incontro tra i capitani delle due squadre, in un simbolico sotterrare l’ascia, ottenendo però un netto rifiuto da Marco Rossi, consapevole che le dichiarazioni della sindaca (sampdoriana) - frasi come «siamo tutti genovesi e quindi apparteniamo ad unica famiglia», «È un evento molto importante, non vorrei assolutamente perderlo, Genova ha bisogno di due squadre in serie A» - non incontrano l’approvazione dei tifosi rossoblù, che da settimane invitano invece i giocatori a spedire in B i rivali cittadini con tutte le loro forze.
Il messaggio viene raccolto al volo da Preziosi che, nella parte di quello che non ha niente da perdere, promette: «Noi il derby lo giocheremo non alla morte, ma alla stramorte». I tifosi del Genoa, che gioca in casa, spazzolano i biglietti nel giro di poche ore. Alla vigilia della partita i gradoni del campo di Pegli, sede degli allenamenti dei “Grifoni”, si riempiono di bandiere. Mentre la squadra si allena agli ordini di Ballardini (sì, è uno di quei momenti) migliaia di tifosi cantano Noi vogliamo il Doria in serie B sulle note di Yellow Submarine dei Beatles.
Per la Sampdoria l’attesa è meno carica di speranza e più gonfia di paura. Gli allenamenti nel ritiro di Novi Ligure (che, a dispetto del nome, è in Piemonte) sono rigorosamente a porte chiuse, la squadra si trincera dietro un rigido silenzio stampa. Nella notte, sul muro accanto al Sampdoria Point di via Cesarea, compare la scritta “Non vi salva neanche Padre Pio”. Il sabato mattina un carico di tifosi arrivato in treno (in stazione trovano altre scritte sui muri come "Serie B", "Prossima fermata Lourdes", "La vita è bella, buona fortuna a Cittadella") e si piazza fuori dal centro d’allenamento, convincendo Cavasin ad aprire le porte: «Sappiamo quanto ci tengano e sappiamo anche quanto possa essere importante per noi poter condividere le ore che precederanno il derby insieme ai nostri tifosi».
Il prefetto intanto decide che non ci sono rischi di ordine pubblico e che quindi il derby si giocherà come previsto alle 20:45 di domenica. Il tempo passa lentissimo, ma l’8 maggio arriva. Il Ferraris si presenta vestito a festa, la coreografia dei tifosi del Genoa non è per nulla sottile: “Non vi vuole la città… via da Genova la Samp” si legge sotto un'enorme bandiera bianca con croce rossa. I settori riservati ai tifosi blucerchiati, invece, non sono neanche tutti esauriti, forse sentono qualcosa di brutto nell’aria. Poche ore prima, infatti, il Lecce ha battuto 2-1 il Napoli grazie a un gol di Chevanton all’88’ e i blucerchiati iniziano il derby in zona retrocessione per la prima volta in stagione. Dagli spalti, prima del fischio di inizio, arriva il coro “Din don, din don... intervengo qui da Lecce, ha segnato Chevanton”.
In campo le due squadre si affrontano con un 4-4-2 speculare. La novità più rilevante è la titolarità nella porta della Sampdoria di Da Costa, 12 minuti giocati fino a quel momento in Serie A, preferito a Curci autore di alcune tremende prestazioni nelle settimane precedenti e pesantemente contestato dai tifosi. Per il resto tra i 22 c'è un mischione tra bandiere (Palombo, Milanetto, Rossi), buoni giocatori (quasi tutti nel Genoa a dire il vero) e meteore che non lasceranno nessun ricordo nel nostro campionato. A vedere la formazione della Sampdoria è assurdo pensare che la stagione precedente era riuscita ad arrivare 4°.
In un clima bollente - pochi stadi in Italia possono essere coinvolgenti come il catino del Ferraris - la partita risente della posta in palio. Un colpo di testa di Pozzi su bello spunto di Biabiany, un tiro alto da lontano di Palombo, una girata spenta di Floro Flores, un altro colpo di testa velleitario, questa volta di Mannini, niente di più. La Samp ci prova di più, la classifica lo richiede, ma a passare è il Genoa nel recupero del primo tempo: calcio d’angolo, spizzata di Palacio e sul secondo palo spunta Floro Flores che la butta in rete. Preziosi esulta, lo stadio esplode, l’attaccante, in teoria un ex, si toglie la maglia e se la mette appallottolata sopra la faccia.
Nel secondo tempo la Sampdoria alza i giri e trova il pareggio al 66’. Palombo, sempre lui, tira da casa sua, Eduardo, che potrebbe bloccare abbastanza comodamente, si lascia sfuggire il pallone e Pozzi è il più veloce ad arrivare: calciando praticamente con il ginocchio pareggia la contesa. L’1 a 1 galvanizza la Samp e spegne il Genoa; la squadra di Cavasin si riversa nella metà campo avversaria, ma deve scontrarsi con la realtà, ovvero una pochezza offensiva notevole (chiuderà la stagione con il secondo peggior attacco del campionato, 33 gol di cui 10 segnati da Pazzini e Cassano nelle poche partite giocate a inizio stagione).
Sugli spalti intanto l’atmosfera cambia: i tifosi del Genoa non apprezzano l’attendismo della loro squadra - che non ha nulla da perdere e potrebbe serenamente cercare la vittoria - e iniziano a fischiare sonoramente i propri calciatori. Un derby non si gioca così è il loro messaggio. In questo clima surreale, uno stadio che fischia la squadra che non sta per retrocedere, all’82’ Ballardini toglie Floro Flores per Boselli, uno di quei cambi in attacco che gli allenatori sembrano dover fare per forza, non per cambiare davvero qualcosa. Al 90’ Mesto si becca un secondo giallo per un accenno di rissa con Pozzi, spingendo ancora più indietro il Genoa. Neanche i sei minuti di recupero sembrano poter cambiare qualcosa, con la Sampdoria che si convince che un punto è meglio di niente, se non per la classifica perché l’umiliazione della sconfitta sarebbe troppo grande. Sugli spalti ormai è aperta contestazione, «Buffoni, buffoni, un derby non si regala» è il grido che si alza dalla gradinata Nord, quella del tifo genoano più caldo.
Si arriva così allo scoccare del 51esimo con una spazzata in avanti di Volta, di quelle senza particolare energia, fatte con la consapevolezza che la partita è finita. Ma questa non è finita: il cambio nel recupero tra Konko e Kucka ha infatti spinto l'arbitro ad aggiungere 30 secondi al recupero e per fare la storia, lo sappiamo, ne bastano molto meno. Il pallone vagante viene raccolto appena prima del cerchio di centrocampo da Milanetto, la Sampdoria è posizionata malissimo in campo, e il centrocampista può facilmente verticalizzare per Boselli, lasciato uno contro uno al limite dell’area con Lucchini. Il passaggio è leggermente laterale verso la profondità alla sua sinistra (è spalle alla porta), l’attaccante lo insegue tenendosi a lato l’avversario, che commette l’errore madornale di ipotizzare un tiro di destro di Boselli (va a sapere con quale piede calcia). L’argentino invece ferma il pallone con l’esterno del destro e già si sta girando, usando Lucchini come perno per la sua virata. È quanto gli basta, perché lui è Boselli e quello è il suo momento: un altro tocco con l’esterno del destro per aggiustarsi il pallone e poi il tiro, d’interno sinistro (che è il suo piede debole), che passa oltre i piedi protesi di due difensori e trova l’angolo lontano della porta, quello inaccessibile ai portieri. Siamo intanto arrivati al minuto 51’ e 11’’ del secondo tempo del derby tra Genoa e Sampdoria del 8 maggio 2011 che diventa per sempre il derby di Mauro Boselli.
Alle spalle di Da Costa battuto, la gradinata nord sembra entrare in campo. I tifosi del Genoa hanno appena realizzato un sogno che era anche difficile immaginare: mandare in B la Sampdoria con un gol all’ultimo secondo di un perfetto sconosciuto. Boselli viene sepolto dagli abbracci dei compagni, che in attimo vedono trasformarsi la contestazione in pura gioia. Non a tutti però sono andati giù i fischi: Milanetto, Criscito e Rossi - i tre più legati alla squadra - si staccano dall’abbraccio di gruppo per rivolgere eloquenti gesti di “stare zitti” ai tifosi festanti. Milanetto, il più impulsivo, sembra anche gridare rivolto ai tifosi un «Bastardi» (che poi proverà a vendere come un “basta”, senza troppo successo). Il Genoa non resterà neanche a festeggiare in campo con i tifosi, ma scapperà rapidamente negli spogliatoi, insieme ai giocatori della Sampdoria, che sembrano muoversi in uno stato catatonico, più increduli che disperati per il gol di Boselli. Per qualche secondo le telecamere riprendono il capitano Palombo che sembra prendersela con qualcuno, ma più che altro sembra rivolgersi al destino che l’ha messo lì, in mezzo a quel campo, in quella precisa sera.
È l’epilogo strampalato di una partita surreale, che rimarrà per sempre attaccata alla rivalità cittadina. Se la Sampdoria scivolerà in un'accettazione disperata del proprio destino, finendo per perdere anche le due successive partite in cui poteva provare a riacciuffare la salvezza, il derby avrà strascichi più intensi proprio sponda Genoa. Si parla di tre giocatori in lacrime per la rabbia negli spogliatoio, quasi non avessero vinto una delle partite più fatalmente significative della storia della loro squadra; Preziosi accusa direttamente i tifosi di essersi comportati male, dice che «la squadra adesso è più triste che felice». Ballardini difende i suoi calciatori, «non credo che quanto accaduto sia giusto». «È incredibile come avessimo più pressioni noi che la Sampdoria» è invece il commento di Capozucca.
Fuori dallo stadio i tifosi del Genoa sono divisi tra la gioia per quello che è appena accaduto e la rabbia per il comportamento dei loro giocatori. Quando la squadra lascia lo stadio in pullman fuori sono radunati appena una cinquantina di tifosi, che intonano un altro coro che rimarrà nella storia: “Non lo sapeva, Boselli non lo sapeva”, come a dire che nessuno l’aveva avvertito che c’era un patto di non belligeranza tra le due squadre. Nei giorni successivi i tifosi si scordano del litigio in famiglia e si concentrano su quello che conta, ovvero sfottere i rivali. La città si riempì di bare blucerchiate, con quel tipo di goliardia tipica del tifo del quale è difficile capire i limiti. I tifosi della Sampdoria scompaiono, quelli del Genoa spuntano a ogni angolo. Vengono scritte canzoni, vergati striscioni, coniati slogan, al centro un uomo solo: lo sconosciuto Boselli. Nel quartiere Albaro, via Paolo Boselli (giurista e statista) diventa via Mauro Boselli (retrocessore), il suo nome rimbalza per tutta la città come boia o salvatore.
Se la storia che Boselli avesse segnato quel gol perché, non parlando bene italiano, non aveva capito che c’era stato un accordo aveva un suo senso ironico, all’interno dell’assurdità di quel gol, l’ipotesi di accordo tra i giocatori finisce davvero in un’inchiesta della procura di Genova. L’indagine nasce da un’intercettazione raccolta per un’altra inchiesta, quella sul calcioscommesse in corso a Cremona e in cui era coinvolto anche Milanetto. «Il derby Sampdoria-Genoa è soggetto ad indagini che avranno un effetto devastante, in cui è coinvolto Milanetto» sono le parole con cui il procuratore Roberto di Martino accende il fuoco in città. Secondo le ipotesi della procura alcuni giocatori della Sampdoria (i nomi non usciranno mai) avrebbero fatto una colletta di 350 mila euro per pagare alcuni calciatori del Genoa, tra cui Criscito, Milanetto, Dainelli e Palacio e assicurarsi la vittoria. Tra foto al ristorante, perquisizioni, dichiarazioni e smentite di un ultras si parlerà molto della possibile combine a Genova, ma l’inchiesta si chiuderà con un nulla di fatto, lasciando spazio al leggendario Boselli, che lo sapesse o meno.
Con la maglia del Genoa l'argentino giocò in totale 182 minuti (praticamente due partite) ma sono bastati per diventare immortale. «Un gol per essere amato in eterno» ha detto recentemente, in una delle tante interviste in cui gli hanno chiesto di quel gol, ricordando come dopo l’8 maggio per le strade di Genova era trattato come un eroe: «La gente mi faceva regali, mi offrivano la spesa e non mi facevano pagare nei negozi. Diversi ragazzi hanno chiamato il loro figlio Mauro». Il rapido declino della sua carriera, che lo vedrà non segnare mai più in Europa prima di ritagliarsi un suo spazio nel campionato messicano, ne ha acuito il carattere da antieroe. Con un fisico massiccio, dei ricci scompigliati e una faccia non sveglissima anche a vederlo sembrava più un centravanti brocco che un giustiziere implacabile. Ma gli dei del calcio, lo sappiamo, ogni tanto si rivoltano, come Boselli su Lucchini, e creano dei momenti fatti per restare nell'eternità.