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30 lug 2015
Genzebe Dibaba ha battuto il record sui 1500 metri che resisteva da più di 20 anni. È la nuova stella dell'atletica?
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22 min
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Il meeting di Monaco del 17 luglio 2015 ha rappresentato una pietra miliare nella storia dell’atletica moderna. I risultati eccezionali della decima tappa della Diamond League hanno fatto passare in secondo piano il 9’’78 di Justin Gatlin sui 100, che avrebbe dovuto essere il piatto forte della kermesse. Pochi, poi, hanno fatto caso all’ennesimo duello tra i triplisti Christian Taylor e Pedro Pablo Pichardo, che si è concluso con una vittoria per due soli centimetri di Taylor. I risultati più clamorosi si sono visti nel mezzofondo e, soprattutto, sui 1.500 metri. Tra gli uomini, sei atleti hanno chiuso in meno di 3’30’’. Ha vinto il keniano Asbel Kiprop con 3’26’’69, miglior prestazione mondiale dell’anno a soli 69 centesimi da quel 3’26’’00 che il marocchino Hicham El Guerrouj ottenne a Roma 17 anni fa.

Ma il 17 luglio 2015 è diventato una data storica per la gara dei 1.500 donne. Davanti agli spettatori dello Stadio Louis II l’etiope Genzebe Dibaba, 24 anni, ha fatto il record del mondo. Un’impresa formidabile, in cui pochi credevano, nonostante alla vigilia lei l’avesse definita “possibile”: il suo vecchio primato di 3’54’’11, ottenuto l’8 luglio a Barcellona, sembrava sì un ottimo tempo, ma troppo lontano dal 3’50’’46 che guidava le graduatorie all-time. Per farcela, ha corso i primi due giri alle spalle di una lepre di alto livello come la statunitense Chanelle Price, campionessa mondiale degli 800 indoor lo scorso anno. L’americana è passata forte al primo giro (1’00’’31), per poi rallentare, forse troppo, nel secondo (1’04’’2). A 700 metri si è sfilata, lasciando Dibaba a vedersela da sola contro il cronometro. Con una violenta accelerazione, l’etiope ha fatto un terzo giro velocissimo (1’00’’2) liberandosi della coraggiosa Sifan Hassan, l’unica che ha provato a tenere il suo ritmo per due terzi di gara. Negli ultimi 300 metri, pur cedendo qualche decimo rispetto alla tornata precedente, ha spinto fino alla fine, aiutata anche da un tifo indemoniato. Ed è riuscita ad abbattere un record che sembrava invincibile con 39 centesimi di margine.

Legami di sangue

Genzebe Dibaba viene da Bekoji, 2800 metri di altitudine, nella regione di Oromia. Il suo cognome, la sua città e il territorio che la circonda sono noti agli appassionati di atletica. L’altopiano di Oromia è un vivaio di fuoriclasse. Il più famoso di questi è forse Haile Gebrselassie, originario di Aselle, probabilmente l’atleta etiope più conosciuto nel mondo dai tempi del leggendario Abebe Bikila. A Bekoji, 50 chilometri da Aselle, vivono circa 17mila persone e molti campioni mondiali e olimpici.

La prima è stata Derartu Tulu, due volte olimpionica sui 10.000 nel 1992 e nel 2000. Il più conosciuto è Kenenisa Bekele, detentore dei record mondiali dei 5.000 e dei 10.000, oltre che pluricampione mondiale e olimpico proprio su queste distanze. Sempre a Bekoji sono nate la campionessa olimpica 1996 di maratona Fatuma Roba e tre cugine di Derartu Tulu: le sorelle Dibaba. La più grande, Ejegayehu, è ricordata soprattutto per l’argento olimpico 2004 conquistato finendo davanti proprio alla Tulu alla sua ultima Olimpiade. La mediana, Tirunesh, ha trent’anni e ha vinto il primo campionato del mondo su pista a Parigi nel 2003, quando era appena diventata maggiorenne. Nel corso della sua carriera ha conquistato tre ori e due bronzi olimpici, oltre a cinque titoli mondiali, sulle distanze dei 5.000 e dei 10.000. Ha dominato la corsa campestre, dove ha ottenuto tredici ori e sei argenti iridati. Detiene il record del mondo dei 5.000, che nel 2008 ha corso in 14’11’’15. È scesa sotto i 30 minuti nei 10.000, impresa riuscita solo a cinque donne nella storia. Una fuoriclasse, considerata da molti la migliore atleta nella storia dell’Etiopia. Insomma, mentre Genzebe cresceva, le sue parenti e i suoi vicini di casa dominavano l’atletica mondiale. Ha iniziato a correre tirando le ripetute alla sorella Tirunesh, da cui ha imparato molto. E se nell’ultimo anno e mezzo aveva già dato qualche segnale, il 17 luglio ha chiarito definitivamente che può diventare più grande di lei.

L’oro di Tirunesh Dibaba sui 5.000 metri ai Mondiali di Parigi 2003. Aveva 18 anni.

Scalfire il monolite

L’impresa del 17 luglio è storica. Per capirlo basta scorrere la lista dei record del mondo femminili. Le gare olimpiche su pista prive di ostacoli sono sette: 100, 200, 400, 800, 1.500, 5.000 e 10.000 metri. Fino alla notte di Monaco, nel corso del ventunesimo secolo era stato ritoccato un solo primato mondiale: quello dei 5.000. Una distanza, e questo è un dettaglio importante, entrata nella rosa di gare iridate e olimpiche femminili solo con i Mondiali di Göteborg, nel 1995. Prima, erano in poche a correrla e solo nel corso di qualche raro meeting. La gara olimpica erano i 3.000.

Il miglior crono mondiale sui 100 è dell’americana Florence Griffith e risale al 1988: il suo 10’’49 non è mai stato nemmeno avvicinato da altre atlete nel corso degli ultimi 27 anni. Due mesi e mezzo dopo, la stessa Griffith corse i 200 in 21’’34, record del mondo tuttora imbattuto. Per trovare il primato mondiale dei 400 bisogna andare ancora più lontano nel tempo: appartiene a Marita Koch, allora tedesca orientale, 47’’60 il 6 ottobre 1985. Un tempo mai neppure avvicinato negli ultimi 15 anni. Ma il record più vecchio lo detiene la cecoslovacca Jarmila Kratochvilova, che fu anche primatista mondiale prima di Koch nei 400 metri. Sugli 800, 32 anni fa, Kratochvilova fermò il cronometro sull’1’53’’28.

Per quanto riguarda i 1.500, i 3.000, i 5.000 e i 10.000 va aperto un capitolo a parte, ambientato quasi tutto nel 1993. Un capitolo intitolato “l’esercito di Ma”, dal nome di un tecnico, Ma Junren, che allenava un nutrito gruppo di mezzofondiste cinesi apparse sulla scena dell’atletica all’inizio degli anni Novanta. Avevano conquistato le prime medaglie ai Mondiali di Tokyo 1991 e alle Olimpiadi di Barcellona 1992. L’anno successivo, nel giro di un mese, sconvolsero la storia del mezzofondo femminile. Ai Mondiali di Stoccarda, che si svolsero dal 13 al 22 agosto, conquistarono sei medaglie sulle nove a disposizione tra 1.500, 3.000 e 10.000. Poi, ai Giochi nazionali cinesi tenutisi a Pechino, stracciarono tutti i record mondiali su queste distanze. Si iniziò l’8 settembre, con i 10.000 metri. Fino a quel momento, il miglior tempo mai ottenuto era il 30’13’’74 della norvegese Ingrid Kristiansen, siglato nel 1986. Junxia Wang, che all’epoca aveva vent’anni, lo ridicolizzò correndo nello stratosferico crono di 29’31’’78, completando la seconda parte di gara in 14'26’’, undici secondi meglio di quello che all’epoca era il primato mondiale sui 5.000 (detenuto dalla stessa Kristiansen).

La prestazione pazzesca di Junxia Wang nei 10.000 nel 1993.

Per dare un’idea delle dimensioni di quel risultato, basti pensare che nei 22 anni successivi solo altre quattro atlete sono riuscite a coprire i 10.000 in meno di mezz’ora, e la migliore di loro—l’etiope Meselech Melkamu—ha fatto oltre venti secondi peggio di Junxia Wang. Tre giorni dopo ci fu la finale dei 1.500 e qui un’altra ventenne, Yunxia Qu, ottenne il record del mondo che è durato fino al 17 luglio: 3’50’’46, due secondi meglio del primato che la sovietica Tatyana Kazankina aveva siglato tredici anni prima. Alle sue spalle arrivò Junxia Wang, appena tre giorni dopo l’impresa dei 10.000: il suo 3’51’’92 è ancora oggi il quinto miglior risultato della storia. Mancavano i 3.000, all’epoca disciplina olimpica. Fino al 12 settembre 1993, il primato del mondo era appartenuto alla sovietica Tatyana Kazankina. Ma nel giro di due giorni, quel record fu superato dieci volte da cinque atlete diverse. Il miglior crono fu ottenuto da Junxia Wang, che chiuse in 8’06’’11 una settimana spaventosa.

Subito dopo l’esercito di Ma si dissolse. Nel 1995 nessuna di queste atlete figurava nelle classifiche delle finali iridate di Göteborg. Ad Atlanta invece si rivide Junxia Wang, che nel frattempo aveva abbandonato Ma Junren accusandolo di maltrattamenti. Conquistò un oro nei 5.000 e un argento nei 10.000. Nel 1997 ci fu una seconda collezione di risultati incredibili, stavolta ottenuta a Shanghai. La ventenne Bo Jiang (3’50’’98) e la diciottenne Yinglai Lang (30’51’’34) sfiorarono il record sui 1.500, mentre sui 5.000 prima Dong Yanmei (14’31’’27) e poi Bo Jiang (14’28’’09) spazzarono via il 14’36’’45 di Fernanda Ribeiro. Poi sparirono nel nulla, come le colleghe di quattro anni prima. Di loro sono rimaste solo una manciata di medaglie e di tempi marziani, inavvicinabili per quasi tutte le atlete arrivate nei venti anni successivi.

Soprattutto, sono rimasti i sospetti. All’epoca, i controlli antidoping erano molto meno agevoli di oggi, soprattutto in Cina, dove per gli ispettori era praticamente impossibile effettuarli a sorpresa. Quasi tutte le atlete di punta di Ma Junren hanno brillato per non più di due o tre stagioni, comparendo giovanissime dal nulla e sparendo poco dopo. Il loro allenatore le sottoponeva a sedute insopportabili fisicamente e a vessazioni psicologiche. Talvolta le picchiava. Quando gli si chiedeva quale fosse il suo segreto, le spiegazioni erano varie: uno strano intruglio a base di riso e ragù di cane, il sangue di una tartaruga appena decapitata, un fungo particolare che cresce sui cadaveri dei bruchi. Nessuno ha mai creduto più di tanto a queste storie, mentre le squalifiche per doping alla vigilia di Sydney 2000 e i problemi di salute di molte sue mezzofondiste hanno fatto pensare ad altro. Ma la Federazione mondiale di atletica leggera non ha mai cancellato i risultati ottenuti dalle atlete cinesi. E così le liste all-time dei 1.500, dei 3.000 e dei 10.000 pullulano ancora oggi di risultati inquietanti e nomi sconosciuti. Va detto che nelle altre gare non va meglio: la velocità e i lanci, soprattutto, portano impresso in maniera netta il marchio del doping di Stato che la fece da padrone negli anni della Guerra Fredda.

Alla luce di ciò che è stata l’atletica femminile tra la fine degli anni Settanta e metà degli anni Novanta, è possibile capire il significato del record di Genzebe Dibaba: con quel primato mondiale ha migliorato uno dei tanti limiti-tabù che esistono nell’atletica femminile. Il fatto che le donne si trovino a confrontarsi con record praticamente intoccabili è uno dei motivi per cui l’atletica femminile genera raramente icone planetarie come Usain Bolt, Haile Gebrselassie o Serhij Bubka. L’unica nota al grande pubblico negli ultimi anni è stata la russa Yelena Isinbayeva, primatista mondiale dell’asta. La fama globale arriva solo con il record del mondo e questo è il motivo per cui pochi conoscono le imprese delle sprinter o delle mezzofondiste che si sono date battaglia negli ultimi anni. Sono sempre state considerate atlete non eccezionali, perché costrette a confrontarsi con le colleghe di venti-trent’anni fa. Quegli anni hanno avuto un costo enorme, in termini di credibilità dello sport e di vite umane. E hanno distrutto per decenni le speranze di record femminili in atletica.

Quest’anno, Genzebe Dibaba è diventata la prima donna capace di scendere i 3’55’’ nel ventunesimo secolo. Ci è riuscita l’8 luglio, con un 3’54’’11 che era già di per sé una grandissima impresa. Ma la fama planetaria si raggiunge solo con il record, come è successo nove giorni dopo nella notte di Monaco. Prima del 17 luglio, era follia anche solo pensare di chiedere alla propria lepre di passare in 2’03’’ (in teoria il piano era quello) agli 800 metri. La Dibaba l’ha fatto, dimostrando fiducia nei propri mezzi e coraggio. Molto coraggio, perché a fare un tentativo del genere c’è il rischio di scoppiare. I 1.500 non sono come i 100, dove la gara dura un attimo. Forzare troppo nel mezzofondo espone al rischio di crisi drammatiche e alla possibilità di trasformare la propria esibizione in un’agonia. Ora bisogna vedere quanto ci vorrà perché qualche altra atleta provi a sfidare gli altri limiti che sono rimasti in piedi. Ma il monolite degli inquietanti record degli anni Ottanta e Novanta è stato finalmente scalfito.

Genzebe Dibaba corre i 1.500 metri in 3’54’’11 a Barcellona, l’8 luglio 2015.

Vera gloria?

L’impresa di Genzebe Dibaba ha fatto discutere. I tempi che ha battuto sono considerati dopati da decenni e, di conseguenza, un risultato del genere basta a scatenare il dibattito tra gli appassionati. Come ha scritto Pierre-Jean Vazel su Le Monde, «Rimuovere la polvere non garantisce la pulizia». È una delle eredità più odiose e inevitabili di decenni di scandali: oggi è impossibile definirsi certi dell’innocenza di qualunque atleta di vertice, a prescindere dai risultati che ottiene. Se poi ci si trova davanti a una prestazione epocale, la paura dell’ennesimo inganno aumenta esponenzialmente.

La Dibaba ha respinto al mittente le accuse di doping spiegando che i suoi risultati derivano dagli allenamenti durissimi a cui si sottopone: «Mi alleno con un uomo, perché nessuna donna riesce a tenere i miei ritmi». È vero: il suo compagno di sedute si chiama Ayanleh Souleiman, ha 23 anni, viene dal Gibuti e nel 2013 è arrivato terzo sugli 800 ai Mondiali di Mosca. Ma il loro allenatore, il somalo Jama Aden, è il principale argomento portato avanti da chi sospetta del record della Dibaba. Recentemente uno dei mezzofondisti allenati da Aden è stato squalificato per doping: si tratta del qatariota d’adozione Hamza Driouch, ventuno anni, campione del mondo juniores sui 1.500 nel 2012. Non basta per ritenerlo complice, visto che esistono fior di tecnici a cui è capitato di avere a che fare con atleti che si dopavano a loro insaputa. Ma gli animi, per i motivi esposti prima, sono molto sensibili su questo argomento.

Tuttavia c’è anche chi crede nella pulizia del suo record. Premesso che nessuno mette la mano sul fuoco, perché oggi è impossibile conquistare la fiducia incondizionata, gli elementi portati a suo favore sono essenzialmente tre e si possono riassumere in una formula: «Genzebe Dibaba è un’atleta dal patrimonio genetico incommensurabile, che a Monaco ha corso in condizioni pressoché perfette dal punto di vista climatico, della pista e tecnico, in un momento che probabilmente rappresenta il culmine di una crescita che è andata avanti progressivamente per molti anni». Insomma: la famiglia Dibaba ha la corsa nel sangue e di questo si è già parlato. A ciò va aggiunto che la serata di Monaco è stata probabilmente irripetibile: non solo i 1.500 donne, ma tutte le gare di mezzofondo della serata hanno regalato record personali e migliori prestazioni mondiali in quantità smisurate.

Per fare un esempio: il bosniaco Amel Tuka, che fino al 17 luglio era quasi sconosciuto nel panorama dell’atletica mondiale, ha vinto gli 800 in 1’42’’51, migliorando di oltre un secondo il suo personale e issandosi in cima alla graduatoria 2015. Inoltre, ha aiutato la presenza di una lepre che aveva il compito di trainare Dibaba per mezza gara senza che questa fosse disturbata da altre avversarie (e nessuna aveva interesse a farlo). Infine, a differenza delle atlete che componevano l’esercito di Ma, Genzebe non è sbucata dal nulla. Già a 16 anni era un talento capace di arrivare quinta ai Mondiali Under-20 di corsa campestre. Nelle otto stagioni successive ha continuato a migliorarsi progressivamente. Quella del 17 luglio non è la prestazione sporadica di una carneade, ma la consacrazione di un’atleta che da quasi un decennio dimostra di avere la stoffa della fuoriclasse e, a 24 anni, è nel pieno delle sue potenzialità.

A queste considerazioni va aggiunto che Genzebe Dibaba non è mai stata trovata positiva a un controllo antidoping. È vero che la storia è piena di supposti campioni che poi si sono dimostrati dei bari, ma la presunzione di colpevolezza non è mai stata un ottimo sistema per migliorare la qualità della convivenza civile sul pianeta Terra. Se si considerasse dopata qualunque atleta in grado di ottenere prestazioni eccezionali, bisognerebbe ritenere tale anche l’inglese Paula Radcliffe, una delle campionesse più coraggiose e sfortunate nella storia dell’atletica. Le sue proteste pubbliche contro l’ammissione alle gare di atlete dopate hanno riempito molte volte le pagine dei giornali, come le richieste di controlli antidoping più stringenti e l’annuncio della disponibilità a farsi congelare il sangue per rendere possibili controlli futuri.

L’inglese rappresenta esattamente il modello di atleta sulla cui onestà ci si potrebbe giocare, se non proprio tutta la mano, almeno un paio di unghie. Eppure, il suo record mondiale della maratona ottenuto nel 2003 (2:15’25’’) rappresentò un terremoto nell’atletica femminile ed è quasi tre minuti più basso di qualunque risultato raggiunto da un’atleta che non fosse lei. Vale quindi la pena di credere che ogni tanto possano essere compiute prestazioni epocali e pulite, almeno fino a prova contraria.

Gli ultimi metri del record mondiale di Paula Radcliffe, forse il momento più alto di una carriera tra le più commoventi nella storia dell’atletica recente.

Spostare i limiti

D’altra parte, se c’era un’atleta in grado di mandare in soffitta il primato di Qu Yunxia, quella era Genzebe Dibaba e gli osservatori lo sapevano da anni. A livello cronometrico ha sempre fatto vedere cose interessanti, già nelle categorie giovanili. Nel 2012, a 21 anni, è scesa fino a 3’57’’77, forse il primo risultato che non si limitava a essere “ottimo per la sua età” ma era a tutti gli effetti “ottimo a livello assoluto”. L’esplosione definitiva è arrivata l’anno scorso, quando nel giro di due settimane ha siglato tre record mondiali indoor, con condotte di gara eccezionali. Il primo è stato ottenuto sui 1.500 a Karlsruhe, in Germania. Il crono finale, 3’55’’17, ha migliorato di oltre tre secondi il vecchio primato della russa Elena Soboleva.

Un tempo del genere al chiuso vale come un 3’52’’-3’53’’ all’aperto, dove le curve sono più ampie e i rettilinei più lunghi (le piste indoor misurano 200 metri, metà di quelle outdoor). Forse anche qualcosa meglio, visto come è stato ottenuto: è passata in 2’40’’ ai 1.000, completando l’ultimo terzo di gara in 1’15’’. Insomma, nel primo chilometro correva 100 metri in 16 secondi, mentre negli ultimi 500 metri è scesa a 15. A quei livelli è una differenza enorme. Cinque giorni dopo, a Stoccolma, l’etiope ha corso in 8’16’’60 i 3.000 indoor, stracciando di oltre sette secondi il primato della connazionale—e nemica giurata della sorella Tirunesh—Meseret Defar. Il terzo record è arrivato il 15 febbraio, sulle due miglia. Anche qui, la miglior prestazione mondiale era di Meseret Defar con 9’06’’26. La giovane etiope ha sfiorato il muro dei nove minuti, chiudendo in 9’00’’48. Poco dopo, ha coronato un grande inverno ottenendo l’oro nei campionati mondiali al chiuso sui 3.000. Si è trattato del suo secondo titolo iridato indoor, dopo la vittoria nei 1.500 del 2012. Quest’anno, prima dell’inizio della stagione all’aperto, è arrivato il quarto primato mondiale, stavolta sui 5.000 indoor. La primatista spodestata, neanche a dirlo, è stata nuovamente la povera Defar, superata di cinque secondi e mezzo. Genzebe ha chiuso in 14'18’’86, meno di otto secondi dal primato all’aperto della sorella.

Genzebe Dibaba demolisce il primato mondiale indoor dei 3.000 metri. È il 6 febbraio 2014.

Alla luce di questi risultati impressionanti, il record sui 1.500 resta sì il suo capolavoro, ma risulta già più comprensibile. Forse la cosa più sconvolgente di quella sera del 17 luglio non è tanto che ci sia riuscita, ma che abbia dimostrato di avere ancora margini di miglioramento: la gestione della gara non è stata perfetta, probabilmente un 3’49’’ non era impossibile. E il muro psicologico dei 3’50’’ nelle gare femminili è un tabù che, quando cadrà, farà molto rumore.

Non è l’unico alla portata di Genzebe. Molti, in queste settimane, si sono chiesti dove possa arrivare l’etiope. Lei ha risposto così: «Voglio tutti i record del mondo dagli 800 ai 5.000». Il primato nella distanza più lunga appartiene a sua sorella e, come è sotto gli occhi di molti, è sul punto di cadere: il personale di Genzebe è 14’15’’41, ottenuto il 4 luglio a Parigi. Meglio di lei ha fatto una talentuosa coetanea e connazionale, Almaz Ayana, in 14’14’’32. Entrambe le contendenti sono già più anziane di quanto era Tirunesh Dibaba a Oslo, quando sette anni fa siglò l’attuale record del mondo, ma sembrano avere ancora margini di miglioramento. Soprattutto Genzebe, che a Parigi ha chiuso la gara con un ultimo giro da 61 secondi. Che prima o poi riesca a farcela non ci sono molti dubbi, ma a quanto può arrivare? C’è chi la considera in grado di scendere sotto i 14 minuti, un’altra di quelle barriere in grado di segnare un’epoca. Forse può riuscirci, ma le serve una serata perfetta come quella di Monaco. Diversamente, quel traguardo sembra inarrivabile anche per lei.

Sui 3.000 l’8’06’’11 di Wang Junxia è molto più ostico del record dei 5.000. anche qui, può farcela solo se trova la serata perfetta. Francamente irraggiungibile sembra invece l’altro obiettivo annunciato la sera del 17 luglio: l’1'53’’28 sugli 800 di Jarmila Kratochvilova. Genzebe Dibaba non ha mai corso un 800 in vita sua. Il suo fisico è più possente di quello delle sorelle e la sua velocità di base è invidiabile in gare come i 5.000, ma fare il primo giro in 56 secondi e avere la forza di chiudere il secondo in 57 sembra un obiettivo al di fuori della sua portata. Per fare il record sui 1.500 ha corso gli ultimi 800 metri in 2’01’, quindi non è escluso che possa diventare un’ottocentista di ottimo livello se si allenerà per questo.

Lo stesso discorso vale per molti mezzofondisti. Il primo che viene in mente è Hicham El Guerrouj, primatista mondiale dei 1.500 e doppia medaglia d’oro ad Atene 2004. Genzebe Dibaba gli assomiglia molto per diverse ragioni: come lui, predilige i 1.500 e i 5.000. Inoltre, entrambi sono partiti con i 5.000 per poi dedicarsi ai 1.500. Infine, hanno sviluppato una condotta di gara simile: come Dibaba, anche El Guerrouj era solito prendere la testa della corsa da lontano per mettere in campo una progressione in grado di mandare in crisi i suoi avversari. Il suo capolavoro, probabilmente, fu la finale olimpica di Atene 2004, una delle più belle e combattute che si ricordino. Per vincere andò al comando a due giri dalla fine e impose un ritmo folle, in grado di appannare la volata a Bernard Lagat (che all’epoca gareggiava per il Kenya). Quegli ultimi 800 metri furono corsi in 1’46’’7, il che fa pensare che il marocchino sarebbe stato un buon ottocentista se avesse voluto. Ma è da escludere che fosse in grado di arrivare a correre sotto l’1’41’’14 che all’epoca era il primato mondiale. Probabilmente, per Genzebe Dibaba il discorso è simile. Anche se, non avendo mai preso in considerazione questa gara prima d’ora, le resta il beneficio del dubbio. Ciò, comunque, non impedisce che tra qualche anno possa essere ricordata come la più forte mezzofondista di tutti i tempi. Perché sia così, però, deve iniziare a conquistare gli ori mondiali e olimpici.

Il 24 agosto 2004, il già quattro volte campione mondiale Hicham El Guerrouj riuscì a ottenere l’oro olimpico che gli era sempre sfuggito.

Le medaglie restano, ma bisogna vincerle

Una delle massime più conosciute nella storia dello sport è che “i record passano, le medaglie restano”. Nel 1972, il nuotatore americano Mark Spitz vinse sette ori alle Olimpiadi di Monaco mettendo a segno sette record del mondo. A distanza di quarant’anni, i suoi tempi non sono sufficienti nemmeno ad avvicinarsi a una semifinale mondiale od olimpica. I sette ori in una edizione dei Giochi Olimpici, invece, l’hanno consegnato alla storia dello sport. A Genzebe Dibaba le medaglie mancano. Due ori iridati di corsa campestre juniores e due vittorie ai Mondiali indoor sono grandi risultati, ma non bastano certo a farla entrare nel pantheon delle migliori di tutti i tempi. A 24 anni, l’ingombrante sorella aveva già vinto quattro ori mondiali all’aperto. Lì Genzebe non ha vinto nulla e le uniche volte che ci ha provato è finita lontana dal podio.

Probabilmente, rispetto a due-tre anni fa ha acquisito la consapevolezza di essere la migliore mezzofondista del mondo e, quindi, la prossima volta prenderà in mano la gara invece che limitarsi a giocare di rimessa. C’è anche un altro fatto ad aiutarla: Tirunesh è in maternità. Ora quella che deve tenere alto il nome della famiglia è lei. Genzebe ha passato tutta la sua carriera a cercare di diventare forte come e più della sorella maggiore. Dal canto suo, Tirunesh l’ha praticamente allevata a livello sportivo. Le cronache sono piene di aneddoti sul loro legame, sia dentro che fuori dalla pista, e non è strano pensare che l’avere una sorella maggiore del genere abbia limitato psicologicamente Genzebe. Una cosa simile è successa nel ciclismo tra i due fratelli Schleck: il più piccolo, Andy, era più forte di Fränk, ma ci ha messo molti anni—ammesso che ce l’abbia mai fatta—a rendersene conto e a comportarsi di conseguenza.

Probabilmente Tirunesh non tornerà più a gareggiare in pista: sembra che il suo futuro sia nella maratona, come è stato per Haile Gebrselassie. Rispetto a due anni fa, ora Genzebe è più libera mentalmente. Adesso si tratta “solo” di vincere medaglie d’oro, tante, per rispettare quello che i suoi rilievi cronometrici dicono: che siamo davanti a una fuoriclasse.

La sua prima decisione in vista dei Mondiali di Pechino, per la verità, ha suscitato molte perplessità: non correrà i 1.500 “salvo ripensamenti” e punterà tutto sui 5.000. In pratica, ha rinunciato a correre una gara in cui aveva l’oro quasi in tasca per una dove, almeno teoricamente, il pronostico è aperto. Il calendario le avrebbe permesso di provare a fare la doppietta, visto che non ci sono sovrapposizioni. Ma sarebbe arrivata alla finale dei 5.000 dopo tre turni sui 1.500 più le qualificazioni sulla distanza lunga. Evidentemente vuole essere sicura di portare a casa l’oro. Se arriva fresca alla gara decisiva le avversarie hanno poche possibilità: può giocare sul ritmo, partire all’ultimo chilometro o aspettare i 400 finali, è comunque più forte. Ma la differenza rispetto alle altre non è ampia come nei 1.500. Se ha scelto di rischiare, i motivi sono probabilmente due. Primo, in Etiopia i 5.000 sono una distanza molto più nobile dei 1.500. Secondo, correre sui 5.000 è l’unico modo che Genzebe ha per dimostrare di essere forte quanto e più della sorella, perché è l’unica gara che hanno in comune. Se vuole dimostrare di avere imparato dalla maestra deve vincere lì.

Per provare a doppiare c’è sempre tempo: magari l’anno prossimo, ai Giochi di Rio 2016. Se ce la facesse nascerebbe un’icona di cui l’atletica leggera ha disperatamente bisogno. Yelena Isinbayeva è appena tornata ad allenarsi dopo due anni di stop in vista di Rio 2016, dove avrà 34 anni. Usain Bolt ha già fatto intendere che quelle di Rio saranno le sue ultime Olimpiadi e buona grazia se lo vedremo ai Mondiali del 2017. Una come Genzebe Dibaba è tra le papabili per tenere alto l’interesse futuro su uno sport che vive di record, di imprese straordinarie e di campioni imbattibili. Certo, per diventare il nuovo volto copertina dell’atletica mondiale dovrà imparare anche l’inglese, visto che al momento parla solo amarico. Prima, però, deve cominciare a vincere qualche oro e iniziare a diventare la più grande di tutte. Per non lasciare che i suoi record siano solo qualcosa di passaggio, chiacchierato e messo a confronto con i risultati di un passato che sarebbe meglio dimenticare.

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