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Perché George Floyd è importante per lo sport americano
04 giu 2020
L’ennesimo caso di brutalità della polizia ha toccato da vicino la NBA e le altre leghe statunitensi.
(articolo)
13 min
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Lo scorso 25 maggio un uomo di colore di 46 anni, George Floyd, è stato ucciso da un poliziotto della Municipale di Minneapolis, Derek Chauvin, che lo ha soffocato con il proprio ginocchio per 8 minuti e 46 secondi. Il video filmato da un passante e successivamente confermato dalla registrazione della telecamera di sicurezza di un vicino ristorante che mostra l’uomo a terra mentre chiede disperatamente aiuto ai quattro poliziotti di lasciarlo respirare è agghiacciante.

Come ha scritto Kareem Abdul-Jabbar nel suo doloroso intervento sul Los Angeles Times, la notizia di un crimine efferato compiuto dalla polizia nei confronti di un afro-americano disturba un bianco e fa arrabbiare un nero. “Il razzismo in America è come polvere nell’aria”, ha scritto sempre Jabbar, “sembra invisibile finché non lasci entrare il sole”. E vedere quelle immagini, così concrete e così reali, ha aperto l’ennesima luce sul razzismo di sistema che caratterizza la storia degli Stati Uniti sin dalla loro fondazione. In un momento già difficilissimo per il paese a causa della pandemia COVID-19 e della conseguente crisi economica, l’omicidio di George Floyd è stata la proverbiale miccia.

Così come già successo nel 1968 e nel 1992, quando le immagini del pestaggio di Rodney King diede vita alla rivolta di Los Angeles (solo per citare i due casi più celebri), la comunità afro-americana è scesa nuovamente in strada per esigere un cambiamento della società. Un cambiamento necessario e non più rimandabile che ha coinvolto in profondità anche lo sport statunitense.

La reazione della NBA a George Floyd

Nell’aprile del 1992, quando scoppiarono le violentissime proteste in seguito alla sentenza che dichiarava innocenti i quattro poliziotti incriminati dell’aggressione al tassista di colore Rodney King, a Los Angeles si giocavano i playoff NBA e sia i Lakers che i Clippers scesero in campo nonostante la città fosse nel caos più totale. Erano gli anni della presidenza di George Bush Sr. che arrivavano dopo il decennio reaganiano e durante i quali Michael Jordan si rifiutò di concedere il proprio sostegno ad Harvey Gantt, il candidato democratico in North Carolina, pronunciando la famosa frase che ancora oggi rappresenta la maggiore macchia sulla sua carriera ("Republicans buy sneakers too", ovvero "Anche i repubblicani comprano le sneakers").

Il semplice fatto che anche Jordan questa volta si sia sentito libero di esprimere la sua solidarietà verso le vittime di atti di razzismo e le persone di colore in America fa capire come in questi 30 anni molte cose sono cambiate in NBA, ma anche di come sono rimaste uguali nel resto degli Stati Uniti.

https://twitter.com/Jumpman23/status/1267195991964282881

Jordan è ovviamente anche uno dei 30 proprietari della NBA, che singolarmente hanno fatto sentire la loro voce attraverso comunicati ufficiali più o meno sinceri. Non tutti infatti hanno apertamente indirizzato la loro indignazione contro la brutalità della polizia rifugiandosi in formule standardizzate ed evitando accuratamente di nominare il termine razzismo, ma parlando più genericamente di “cose da cambiare”.

Solo due franchigie NBA nei giorni immediatamente successivi all’omicidio di George Floyd non hanno rilasciato un comunicato sulla vicenda. I San Antonio Spurs, che hanno contato sulla visibilità e il carisma di Gregg Popovich salvo poi pubblicare ieri diversi video con contenuti dai temi sociali; e ovviamente i New York Knicks, che riescono ad essere sempre i peggiori nonostante non si giochi a basket da ormai quasi tre mesi, sostenendo di “non essere qualificati a parlarne”.

Il 31 maggio, in una nota inviata a tutti i dipendenti NBA, il Commissioner Adam Silver si è detto profondamente toccato dalle morti di George Floyd, Ahmaud Arbery e Breonna Taylor. “Proprio mentre stiamo lottando contro una pandemia, che ha colpito con maggior violenza le comunità e le persone di colore, siamo stati avvertiti di come ci siano ancora ferite che questo paese non vuole guarire. Il razzismo, la violenza della polizia e le ingiustizie sociali rimangono una parte della quotidianità della vita americana e non possono essere ignorate”.

Parole a cui fanno eco quelle dell’Associazione Allenatori, che con una lettera controfirmata da tutti i capi allenatori e gli assistenti NBA condannano fermamente “gli eventi delle ultime settimane — la violenza della polizia, la profilazione razziale e l’uso del razzismo —” definendoli come “vergognosi, inumani e intollerabili. Come gruppo diversificato di leader, abbiamo la responsabilità di farci valere e parlare per chi non ha voce — e per quelli che non si sentono al sicuro a farlo”. Non è un caso se coloro i quali hanno il compito di formare questi giovani uomini in atleti professionisti sono anche i più sensibili nei confronti delle difficoltà che questi devono affrontare in un paese che li discrimina in ogni aspetto della società. La lettera continua dicendo “assistere all’omicidio a sangue freddo e in piena luce del giorno di George Floyd ha traumatizzato la nostra nazione, ma la realtà è che gli afro-americani sono presi di mira e perseguitati su base quotidiana. Come allenatori NBA, non possiamo trattare quello che è successo come un caso isolato di indignazione”.

Lloyd Pierce, allenatore afro-americano degli Atlanta Hawks, ha pubblicato sul proprio profilo Instagram una sua foto specificando come l’hashtag #JusticeforFloyd sarebbe potuto essere tranquillamente #JusticeforLloyd. Steve Kerr ha usato invece Twitter per esprimere la propria ammirazione verso i giovani in piazza senza rinunciare ad un paio di stilettate verso il Presidente Donald Trump.

https://twitter.com/SteveKerr/status/1267965472458149888?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1267965472458149888&ref_url=https%3A%2F%2Fsport.sky.it%2Fnba%2F2020%2F06%2F03%2Fnba-steve-kerr-george-floyd-elogio-giovani

Chi invece non si è limitato a qualche battuta social sull’operato di Donald Trump è stato Gregg Popovich, che in una intervista a The Nation senza esclusione di colpi lo ha definito un idiota squilibrato e un codardo. Pop, però, ha anche evidenziato la mancanza durante queste proteste di una leadership in grado di indirizzare la rabbia e il dissenso verso un reale cambiamento.

Non solo giocatori, ma leader

Un messaggio che in un certo senso è stato recepito da alcuni giocatori NBA, che hanno preso e accettato un ruolo da leader nelle proprie comunità, usando le loro piattaforme per guidare le manifestazioni scendendo per le strade in prima persona.

La prima voce ad alzarsi in mezzo alle proteste è stata quella di Stephen Jackson. Jackson ha giocato 14 anni in NBA vincendo un titolo nel 2003 con i San Antonio Spurs e l’anno successivo è stato squalificato per 30 partite dopo aver partecipato alla infame Malice at the Palace. È cresciuto a Fort Arthur, Texas, senza conoscere mai il proprio padre naturale e con il nuovo compagno della madre, che è finita in carcere quando Jackson aveva 13 anni. Tre anni dopo suo fratello maggiore è stato ucciso in una rissa, lasciandolo solo a prendersi carico della sua famiglia. Ha incontrato George Floyd anni fa a Houston e da quel momento è nata una forte amicizia, interrotta tragicamente dal ginocchio di Derek Chauvin.

Il suo discorso nella City Hall di Minneapolis mentre in città già si sentivano gli echi delle proteste è stato uno dei più toccanti e profondi ascoltati finora, sia per la sua familiarità con la vittima, sia per la precisione chirurgica delle sue parole. «La prima cosa che fa la polizia quando capisce di aver commesso un errore» ha esordito Jackson, «è cercare di coprirlo tirando fuori il passato della vittima per giustificare la propria violenza». «Ma quando un omicidio è giustificato?» ha chiesto quindi Jackson alla folla intorno a lui. «Eppure quando si tratta di un uomo di colore è ammesso. Non potete dirmi che quando quell’uomo aveva il suo ginocchio sul collo del mio fratello, togliendogli la vita, con le mani nelle tasche, in faccia non aveva l’espressione di chi sapeva di essere protetto».

Ad ascoltare le parole di Jackson c’erano Jamie Foxx, Premio Oscar per Ray, e due giocatori dei Minnesota Timberwolves: Josh Okogie e Karl-Anthony Towns, che ha vissuto sulla propria pelle anche il dramma della pandemia del Covid-19. Lo scorso 13 aprile, infatti, Jaqueline Cruz, madre di Towns, non è riuscita a superare le complicazioni polmonari dovute al Covid-19 e se n’è andata a soli 59 anni.

Il New Jersey, lo stato dove la famiglia Towns vive, è stato uno degli epicentri più devastati della pandemia con quasi 12.000 morti. Gran parte di questi erano uomini e donne neri o comunque People of Color, che hanno subito la gravità della crisi sanitaria in modo molto più duro rispetto ai bianchi. La percentuale di morte da COVID-19 per le persone di colore in America è due volte e mezza più alta rispetto a quella stimata per la popolazione bianca. Questa sproporzione descrive la discriminazione strutturale che le persone di colore subiscono ogni giorno, avendo meno possibilità di accedere a una sanità di alto livello, essendo impiegati senza controllo nei cosiddetti lavori essenziali e facendo i conti con standard abitativi molto più bassi.

È un razzismo sistemico che attraversa la storia degli Stati Uniti dalla sua fondazione sino ai nostri giorni e che rimane presente in ogni aspetto della quotidianità, nell’urbanistica delle grandi città, nelle modalità di erogazione dei mutui, nell’ingresso all’istruzione ed al mondo del lavoro. Tobias Harris, ala dei Philadelphia 76ers, è sceso a protestare lungo le strade della Città dell’Amore Fraterno portando con sé in collegamento su FaceTime il suo compagno di squadra Mike Scott. Successivamente ha scritto per The Players’ Tribune un lungo pezzo in cui invoca la responsabilità personale delle forze dell’ordine, che a suo avviso «dovrebbero mantenere uno standard di condotta altissimo, ma che invece usufruiscono sempre del beneficio del dubbio nelle loro azioni. Agiscono come se non dovessero rendere conto a nessuno».

Harris poi insiste sull’importanza dell’istruzione nel formare una nuova generazione di uomini e donne di colore consapevoli della propria storia e di quella del loro paese, in grado di attuare quel cambiamento che lo stesso giocatore dei Sixers dice di aver abbracciato quando ha avuto accesso alle testimonianze dei grandi attivisti afro-americani.

La formazione scolastica è stata cruciale anche per Jaylen Brown, il giocatore dei Celtics che ha guidato per 15 ore filate per essere presente alla manifestazione nella sua Atlanta. Quando era matricola all'università di California, pur sapendo che sarebbe rimasto con ogni probabilità per un solo anno, inserì nel proprio curriculum didattico corsi di studi destinati ai Graduate Student pur di affrontare gli argomenti che gli interessavano davvero. Tra questi gli studi culturali su sport ed educazione, quelli sulla cultura afro-americana e su povertà e decolonizzazione.

Brown è l’esempio perfetto di giovane atleta di successo che vuole sfruttare la propria piattaforma per sensibilizzare i suoi coetanei, che magari hanno avuto meno fortuna di lui, dando voce alla loro necessità di uguaglianza e giustizia. Non è un caso quindi se lo scorso anno è diventato il più giovane vice-presidente dell’Associazione Giocatori in NBA, a soli 22 anni.

Una carica che condivide con un altro atleta di Atlanta che è sceso al suo fianco con un megafono in mano in mezzo alle proteste di questi giorni: Malcom Brogdon. La point guard dei Pacers, soprannominato ai tempi dell’università “Il Presidente” per la sua carriera accademica immacolata e la voce che ricordava quella dell’allora Presidente Barack Obama, nel suo ultimo anno a Virginia alloggiò nelle camere disegnate da Thomas Jefferson in persona.

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Suo nonno negli anni ‘60 marciò con Dr. King; Malcom con Lil Yachty.

Brogdon era ancora ai Milwaukee Bucks quando Sterling Brown si presentò in silenzio e con dei segni in volto a un allenamento dopo che la notte precedente era stato fermato dalla polizia locale per aver parcheggiato male il suo veicolo. Brown fu ammanettato e colpito con un taser da almeno sei membri della polizia di Milwaukee, come dimostrano le immagini delle telecamere personali degli agenti.

«Essendo un giocatore NBA, la point guard titolare degli Indiana Pacers, credo di essere un personaggio pubblico» ha detto Brogdon a The Jump, il programma di ESPN di Rachel Nichols, «ma quando esco dall’arena e torno a casa, sono nuovamente un uomo di colore», sottolineando come anche essere un atleta professionista non ti metta al sicuro in America.

Una realtà spiegata con chiarezza esemplare da un tweet di Bradley Beal, che risponde a tutti quelli che continuano a dileggiare le parole dei giocatori NBA in quanto privilegiati e viziati.

https://twitter.com/RealDealBeal23/status/1266792668169936897?s=20

Un atleta afro-americano prima di arrivare a firmare il primo contratto da professionista deve attraversare un sistema che è meticolosamente studiato per farlo fallire. Per questo, con la loro storia, possono restituire cosa significa essere neri negli Stati Uniti oggi, garantendo una prospettiva alla quale molti loro fan non hanno accesso.

«È tempo di guardarsi allo specchio e chiedersi cosa facciamo noi per generare un cambiamento. Non è solo essere un modello di comportamento, non è solo rimanere fedeli alle tradizioni dell’attivismo (...), ma voglio usare questa serata come una chiamata all’azione per tutti gli sportivi professionisti, perché si educhino, esplorino queste tematiche, non abbiano paura di alzare la voce, usino la loro influenza e rifiutino ogni tipo di violenza». Queste parole di LeBron James chiudevano nell’estate del 2016 il discorso in apertura degli ESPYs pronunciato insieme a Carmelo Anthony, Chris Paul e Dwyane Wade. All’inizio della successiva stagione NFL, Colin Kaepernick avrebbe cominciato a inginocchiarsi durante l’inno nazionale prima delle partite dei suoi San Francisco 49ers, iniziando il suo martirio che lo avrebbe portato in breve tempo fuori dalla lega.

Non è quindi un caso se LeBron James immediatamente dopo l’omicidio di George Floyd abbia usato i suoi social per condividere un’immagine potentissima per il suo parallelismo. A sinistra Derek Chauvin inginocchiato sul collo di Floyd come se fosse la cosa più normale del mondo; a destra Kaepernick inginocchiato davanti alle panchine per la sua protesta.

La protesta di Kaepernick è tornata immediatamente d’attualità, specialmente quando il Presidente Trump ha dichiarato di essere un alleato di ogni contestatore pacifico prima di ordinare alla polizia di Washington DC di sparare sulla folla con proiettili di gomma per andarsi a fare una foto con la Bibbia in mano davanti alla chiesa più vicina alla Casa Bianca. Di Kaepernick si è tornato a parlare con la dichiarazione del quarterback dei New Orleans Saints Drew Brees, il quale ha affermato che il gesto di Kap è un affronto alla bandiera e al paese, scatenando la rabbia tra i suoi colleghi nella NFL e nelle altre leghe.

La legittimità delle manifestazioni e le modalità attraverso le quali andrebbero portate avanti sono diventate presto le scuse di chi non ha alcuna intenzione di cambiare i rapporti di forza stratificati in America (e nel mondo). Le caserme in fiamme e le vetrine in frantumi sono le disgiuntive di ogni discorso che finisce con un’equivalenza tra le vite umane e le scatole della Nike.

In una situazione caotica e in piena evoluzione, lo sport professionistico, e in particolare la NBA, sta concedendo una piattaforma di dialogo sensata su un argomento sul quale non ci si può permettere più di tacere. Un compito che spetterebbe al Governo e al Presidente, se questi non fossero rinchiusi in un bunker antiatomico a twittare slogan razzisti.

Tre anni fa scrissi del rapporto tra Trump e lo sport statunitense e da allora non sembra cambiato molto, anzi, le cose sembrano addirittura peggiorate. Allora notavo come “il vero problema non è che degli atleti parlino di politica, il problema è che degli atleti parlino di politica, razza e integrazione con maggior profondità, cognizione di causa e senso critico del Presidente degli Stati Uniti”. Adesso, con anche le principali aziende statunitense schierate dalla parte dei manifestanti, almeno a parole, potete persino sostituire atleti con una marca di gelato ipercalorico.

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