L’urlo dei francesi, quando Kolo Muani insacca il quarto rigore, è un urlo strozzato, poco convincente, o forse solo intriso di speranza, di procrastinazione. Ora l’Argentina ha davvero l’occasione, realizzando il tiro dal dischetto, di consacrarsi Campione del Mondo. Germán socchiude gli occhi: gli zigomi pronunciati, il volto spigoloso, si rapprende in una smorfia di concentrazione. Il tempo che impiega il calciatore con la palla tra le mani per percorrere lo spazio che divide il centrocampo dal dischetto si sprimaccia in rivoli di oniricità. Germán si sfiora il naso largo, che tradisce le sue origini guaraní: poi tira un sospiro per scacciare la tensione. Quando la rete si gonfia Germán apre il pollice e l’indice, disegnando una “L”: lo fa sempre, dopo ogni rete, da dieci anni, cioè da quando è nato suo figlio Lorenzo. Anche se quella lettera, per lui, ha già un significato che trascende lo stesso Lorenzo, che ora siede a cavalcioni sulle sue spalle, sugli spalti del Lusail Stadium, in Qatar, dove il rigore di Molina ha appena fatto sì che l’Argentina si laureasse Campione del Mondo.
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C’è stato un momento in cui, in fondo, Germán Ezequiel Cano Recalde la camiseta Albiceleste in Qatar ha sognato di indossarla davvero, magari in campo. Nella torcida del suo club, il Fluminense, avevano fatto capolino maglie della Selección modificate, e anche i suoi compagni avevano perorato la sua causa. Felipe Melo, per esempio - che di Scaloni è stato peraltro compagno di squadra nel Racing Santander - aveva detto «Scaloni deve fargli fare questa esperienza, il Mondiale è un torneo breve, un mese, che importa se un giocatore ha 17 o 35 anni? Se è in forma deve portarlo».
In quel periodo Germán Cano, in effetti, era letteralmente in stato di grazia. Aveva trascinato il Flu al terzo posto del Brasileirao segnando ventisei volte, più di chiunque altro da quando il campionato è a 20 squadre (cioè da sedici anni), più del Gabigol del 2019. In tutto il 2022 le reti erano state addirittura 44, più del Neymar del 2012: numeri stratosferici, insomma, resi ancora più eccezionali dal fatto che neppure una rete era stata realizzata su calcio di rigore.
I suoi gol non sono mai appariscenti, esattamente come Cano non è mai un attaccante appariscente: ognuno però ha la consistenza dei rampini con i quali si ancorano i gozzi al largo, di un pragmatismo marinaio, proletario. Reti puntuali, a tratti ciniche e brutali.
«Quello che mi riesce meglio fare è dare il meglio di me per il mio club. Entrare nel giro della Nazionale è difficile, mi basta tifarla, la Selección». Il punto di riferimento di Cano - e non è difficile capire perché - è, ed è sempre stato, un attaccante poco appariscente, ma decisamente efficace, come José Pepe Sand: prolifico, longevo e granate, cioè tifoso del Lanús. Nel 2007 hanno vinto il torneo Apertura insieme: Sand era stato il trascinatore, mentre Cano il ragazzino talentuoso cresciuto insieme al fratello Julián, a Laucha Acosta e ad Agustín Marchesin nelle giovanili, mentre la madre lavorava nella foresteria del club. A portarlo in prima squadra era stato Néstor Gorosito, a farlo esordire – un anno più tardi – Ramón Cabrero. Non aveva lasciato nessun segno indelebile, ma non si può dire il contrario, a parti invertite. In onore della barra, del Lanús, “La 14 del Tablón”, Cano avrebbe sempre scelto di indossare quel numero di maglia.
La geografia di Germán Cano è misteriosa e affascinante, a partire dal luogo di nascita. Qualcuno dice sia Posadas, nella provincia di Misiones, dove a cavallo tra il diciassettesimo e diciottesimo secolo i gesuiti si trasferirono per convertire le popolazioni autoctone, di origine guaraní; qualcun altro parla di Lomas de Zamora. Altri di Ezeiza, quel lembo sfilacciato di Buenos Aires su cui sorge l’aeroporto. Allo stesso modo la sua carriera è stata un succedersi di posti, migrazioni continue: Paraguay, Messico e soprattutto Colombia. A Pereira, epicentro della coltivazione bananiera del paese, era giunto per salvare il Deportivo, che tutti davano per spacciato: aveva segnato dieci reti, salvandoli.
Ma è soprattutto a Medellín, nelle fila dell’Independiente, che ha trovato la sua dimensione, il suo posto al mondo, il rifugio da un’Argentina che lo aveva masticato e rigettato. In tre stagioni, con la maglia de “El Poderoso”, ha segnato 129 reti, consacrandosi come il più prolifico goleador nella storia del club: rigori à la Panenka. girate violente, giocate mortifere nel cuore della giungla, colpi di mortaio dal fronte. I Cafeteros avevano pensato di nazionalizzarlo, ma per un motivo o per l’altro non se n’è fatto nulla: in compenso, a Medellín, ha imparato a giocare a golf, pratica dalla quale ha appreso “la pazienza e la precisione che ci vogliono per andare a segno”.
Per quella strana mescolanza di tracotanza e fame di ingaggio che sviluppano gli argentini che si affermano al di fuori dei confini nazionali, Cano è finito per farsi attrarre dai pesos messicani. Nel Pachuca di Keisuke Honda non è riuscito a emergere, affossato anche da un brutto infortunio al crociato che lo ha tenuto lontano dai campi per un semestre. E neppure con la maglia del León, nonostante un esordio rutilante (con due reti in tre minuti, la seconda delle quali, ecco, così), qualcuno sarebbe stato pronto a scommettere sulla sua esplosione. Durante la parentesi nella città universitaria, in cui condivideva spogliatoio e vita con Guillermo Burdisso, Mauro Boselli e Maxi Moralez, ha sviluppato in compenso una passione per il mondo del vino: «abbiamo addirittura», ha raccontato, «ingaggiato un sommelier per farci dare un paio di lezioni».
Germán Cano è un personaggio peculiare: un altro dei suoi punti di riferimento è stato Ronaldo Nazario, un brasiliano, che per un argentino non è scontato. Così come non lo è che proprio un argentino diventi un idolo così potente, esatto, in Brasile. Che è poi il luogo in cui Cano, dopo tante peregrinazioni, dopo tanti passaggi a vuoto, si è trasformato in una vera e propria macchina da guerra che aveva già più di trent'anni.
Nel 2020 si è trasferito a Rio per vestire la maglia del Vasco da Gama, che stava attraversando uno dei periodi finanziari più disastrati della sua storia. A suon di gol si è trasformato in una bandiera del club, guidando la carica di una stagione – tenendo conto del disastro societario in corso – piuttosto epica, ma dal finale lacrimevole: una stagione conclusa, nonostante le sue reti, con la retrocessione.
Se possibile, nella stagione successiva in Seconda Divisione Cano è entrato ancor di più nel cuore della torcidacruzmaltina: non solo per il senso di responsabilità e appartenenza che l’hanno spinto a rimanere, ma attraverso gesti che ne hanno inspessito la dimensione umana. Il primo: un’asta di articoli personali autografati grazie ai proventi della quale sono stati acquistati generi alimentari da destinare alla comunità di Tuiuti, una delle favelas più disagiate di Rio, nel barrio di São Cristóvão. Il secondo: un gesto magari scontato fatto durante una partita contro il Brusque, ma per niente banale.
Dopo aver segnato, Germán corre verso la bandierina, che sventola nei colori arcobaleno della bandiera LGBT. Anche la maglia del Vasco richiama i tratti iridescenti. Nella settimana antecedente, il calciatore dell’Adelaide United, Josh Cavallo, ha rivelato al mondo la sua omosessualità, infrangendo per primo il tabù dell’omosessualità nel calcio. In un contesto socioculturale come quello del Brasile di Bolsonaro, intriso di machismo e omofobia, sollevare la bandiera quella sera è un gesto di rottura. L’arbitro lo ammonisce, ma Germán è sorridente. Il pubblico vizcaino, ora, lo adora definitivamente.
A questo punto della storia Cano ha già trentaquattro anni, e nulla lascerebbe pensare che una squadra come il Fluminense, che sta armando un battaglione per puntare alla vittoria della Libertadores, possa puntare su di lui. Ma il Flu di Diniz in squadra conta anche sul redivivo Marcelo, su Ganso, e deve sostituire Fred. L’esperienza, contata in primavere, non è un difetto in quell’angolo di Rio, anzi.
Più di quanto meriterebbe di salire alla ribalta per la pregevolezza del gioco che sta dimostrando nel Brasileirao (e in Libertadores), il Fluminense finisce sotto i riflettori per questa fantastica alchimia di dinosauri ringalluzziti: e Germán Cano, in particolar modo, per la partita annichilente che ha sfoderato nell’ultimo appuntamento di Libertadores contro il River Plate di Demichelis, una delle squadre più quotate del continente. Una partita in cui segna una tripletta mortifera.
Eppure, di fronte ai Millonarios, Cano non ha fatto altro che recitare la sua solita parte: quella del Matador, del pragmatico uomo d’area sempre pronto a finalizzare gli spunti (geniale quello innescato da Ganso) della squadra, con il sangue freddo e la mano ferma del boia.
Che è poi, a conti fatti, il ruolo che sta recitando da quando indossa la maglia rossoverde, il ruolo che gli ha permesso di elevarsi a capocannoniere del Brasileirao, che lo ha messo nelle condizioni di essere l’uomo capace di segnare più reti in un anno solare nel XXI secolo in Brasile, di far sentire il fiato sul collo a Kylian Mbappé.
Scusate ma non ho saputo resistere a un cane che impazzisce per Cano.
E lo stato di grazia continua in questo principio di 2023: ad oggi Cano ha segnato in ognuna delle competizioni in cui è sceso in campo (nella Taça Guanabara, nella Taça Brasil, nel Brasileirao, in Copa Libertadores), 24 gol in 25 partite. Continua, lo stato di grazia, e si ingigantisce perché – con la facilità di chi si imbaldanzisce rasentando l’onnipotenza – ora Cano prova (e riesce) a segnare anche reti come questa, ironia della sorte proprio contro il Vasco da Gama.
Cano, in Brasile, è diventato una celebrità. «Non si erano mai visti tifosi con la maglia del Flamengo fermarsi per chiedere una foto a me. E lo fanno con rispetto, con affetto» confessa candido. Ha imparato a farsi amare per la perseveranza, per l’impegno, per la maniera in cui ha saputo conservarsi e in cui continua a divertirsi facendo, semplicemente, ciò che sa fare meglio. E questa fiducia nei suoi mezzi si trasmette, per osmosi, insieme all’entusiasmo, al resto della squadra, che sa di poter confidare su un finalizzatore pressoché infallibile. Senza nessuna altra velleità, senza nutrire nessuna falsa speranza, con la consapevolezza di chi sa di aver perso l’Intercity, il che non significa che possa comunque viaggiare in regionale godendosi il panorama. Intervistato sulla scelta di Mateo Retegui di vestire la maglia dell’Italia ha detto «Ha fatto bene a fare la scelta che ha fatto. È una grande opportunità. A me nessuno mi ha mai chiamato, ma non per questo non me ne sto tranquillo, a lavorare per il mio club».
L’Argentina, pur non essendo nei suoi pensieri, resta comunque al centro dei suoi pensieri.
A Lusail ha scoperto, con la compagna, di attendere il secondo figlio. Una figlia. «Arriverà ad agosto e sarà totalmente carioca», ha confessato. E poi ha aggiunto «Dipendesse solo da me la chiamerei Lionela». Rocío non è molto d’accordo, però. «Scrivi così», ha concluso l’intervista: «se Leo e Antonella leggono, salutatela, magari si convince».