Questo racconto ha vinto il premio letterario Match Point. Match Point è la chiamata letteraria organizzata da Il Circolo Italian Cultural Association, in collaborazione con la scuola di scrittura Londra Scrive, con la partecipazione delle riviste online Cattedrale – Osservatorio sul racconto e L’Ultimo Uomo, e il supporto di The Italian Bookshop. L’iniziativa ha il patrocinio del Consolato Generale d'Italia a Londra. Qui trovate altre informazioni. Il testo è stato editato da Marco Mancassola, fondatore di Londra Scrive e coordinatore della giuria di Match Point.
Una volta, avevo otto anni, mio padre venne a prendermi a scuola con il furgone della ditta. Il suo era un lavoro che pagava poco, lo chiamavano a ogni ora del giorno e della notte; la ditta ristrutturava appartamenti e garantiva anche la manutenzione per un certo numero di anni, mio padre interveniva quando capitavano dei guasti.
Era un pomeriggio di sole caldo alla fine dell’anno scolastico, quando tutto ci sembrava più leggero e il respiro del mare di Portobello si faceva più lungo, fino a raggiungerci nel cortile della scuola dove giocavamo dopo pranzo.
Non sapevo perché fosse venuto lui a prendermi e non mio fratello come accadeva di solito; e anche se mio padre questa volta non sembrava ubriaco, aveva un’aria diversa. Attribuii la cosa alla stanchezza, ma entrai nel furgone con lo stomaco stretto. Mio padre mi aiutò ad agganciare la cintura, mi accarezzò i capelli e non disse nulla; mise in moto il furgone con un gesto svelto e guidò, le mani che di tanto in tanto davano pacche nervose al volante. Lasciammo la strada che andava verso casa per Musselburgh, pensai avesse delle faccende da sbrigare, poi prendemmo l’autostrada circolare attorno Edimburgo e svoltammo verso la rotonda ai piedi delle Pentlands, fino a raggiungere un villaggio di case marroni, incastrato dietro i boschi di abeti verde sbiadito della segheria. Tutto in un silenzio denso che gravava sopra le nostre teste come le nuvole nere che vedevo arrivare dai munro.
Parcheggiò di sbieco nel cortile ampio di una fattoria pericolante, che, come altre case della zona – io non lo sapevo ancora – era stata ridotta in quello stato da una tempesta di vento. L’edificio era dipinto di rosso scuro, sembrava non ci vivesse nessuno. Mio padre tirò il freno a mano ed entrò. Delle grida mi spaventarono. Pochi minuti dopo mio padre uscì dalla casa sbattendo il portone: tirava per i capelli un tizio che urlava, terrorizzato, la bocca insanguinata; sembrava stordito, cercava appigli dovunque opponendosi alla furia; ma a ogni presa mio padre lo strattonava forte. A un certo punto, per farlo avanzare, lo afferrò per la spalla destra e con un calcio nella schiena lo spinse verso il furgone dov’ero seduto.
«Sei pronto?» urlò.
Si rivolgeva a me. Non ebbi tempo di pensare. Trattenni il respiro, atterrito.
«Sei pronto?» ripeté. La sua voce non era la sua voce, sembrava venisse da un altro luogo, un’altra persona.
Lo guardai negli occhi, dietro la punteggiatura di moscerini morti sul parabrezza; annuii lentamente. Pregai che il riflesso sul vetro non gli impedisse di distinguere la mia testa che si alzava e abbassava. Iniziai a piangere.
«Sono pronto» strillai, qualsiasi cosa volesse dire. Speravo sarebbe bastato a farlo smettere.
Mi fissò per un attimo, poi acciuffò il tizio per la maglietta e lo raddrizzò. Quando fu in piedi lo afferrò brusco, e con una mano sotto al mento lo tirò su con forza, sollevandolo quasi da terra. La faccia dell’uomo diventò livida, la morsa gli impediva di respirare. Il tizio cominciò ad agitare le braccia e le gambe, ma più cercava di divincolarsi più la stretta gli schiacciava la gola, le dita ancora nere di grasso ficcate sotto la mandibola, le vene del braccio che si tendevano come corde. Il tizio disse qualcosa, la voce incrostata di terrore eruppe in tre parole:
«Che. Cosa. Vuoi.»
Indifferente alle parole dell’uomo, mio padre con la mano libera mi fece quel segno con due dita, quello di quando mi voleva vicino. Scesi dal furgone con le guance bagnate, le ginocchia molli e la pancia dura; mi accorsi di essermi pisciato addosso. Quando fui vicino abbastanza, mio padre mi fece un gesto per fermarmi e sorrise di sbieco, aveva un filo di saliva che gli colava dalla barba; il tizio aveva gli occhi pieni di lacrime e tirando su col naso, boccheggiava.
«Stai là» gridò mio padre. Poi respirò forte, soffiò sulla mano libera come quando cercava la fortuna coi dadi, e curvando la schiena all’indietro sferrò cinque, sei cazzotti nell’addome, con tutta la forza che aveva, gli occhi dilatati, folli, fissi sulla faccia livida del tizio. L’uomo diventò molle come un pupazzo; gemette a ogni pugno, il pigolio di un pulcino schiacciato.
Mio padre mollò la presa; l’uomo crollò per terra con un tonfo ovattato. Mio padre si asciugò la saliva dalla barba, si inginocchiò e accostò l’orecchio alla bocca del tizio. Disse sottovoce: «Respira.»
Era di nuovo lui, mio padre era tornato. Quella persona di prima, quella che mi aveva urlato se fossi pronto, non c’era più. Mi carezzò i capelli, disse: «Va tutto bene.»
Entrò nella casa rossa; lo sentii chiamare un’ambulanza, parlare come se nulla fosse successo con l’operatore, scandire l’indirizzo della fattoria, dettare il nome dell’uomo. Si chiamava Tommy McManus. Qualcuno piangeva, un pianto sommesso e come il mio, disperato, inconsolabile; non seppi mai chi fosse. Non mi mossi da dov’ero. Avevo paura che se avessi compiuto qualsiasi azione che non fosse stato respirare, qualcos’altro di terribile sarebbe successo, la fine del mondo sarebbe accaduta. Mio padre uscì dalla casa, la faccia serena, distesa. «Andiamo a casa.»
«A me sembra sia davvero una pessima idea» dice Ree, gli occhi scettici, intorpiditi dal sole pomeridiano. Gli piace questo hotel dove servono champagne e la luce del sole allaga la terrazza.
«Essere qui a Miami?» chiedo. Prendo il sole allungato su una sdraio a bordo piscina nel vuoto denso e senza senso che precede le interviste in TV. Sul tavolino accanto c’è un foglio con le domande per la trasmissione di stasera.
«Quella di parlare della vita personale, ho letto la domanda su tuo padre» risponde con noncuranza Ree, indica il foglio con un gesto. È appollaiato su uno sgabello alto e controlla la lista della festa che seguirà la trasmissione. Ha i capelli radi che pettina uniti sulla fronte e un’aria vulnerabile e prepotente che lo fanno somigliare a un bambino invecchiato prematuramente o a uno stronzo pieno di soldi.
Non rispondo, ne abbiamo discusso anche ieri. Inoltre, da quando frequento il corso di meditazione, quello che Ree ha definito «un’altra di quelle mode inutili che leccano il culo al sistema capitalista», ho raggiunto un certo equilibrio e voglio preservare questa pace. Durante la meditazione sediamo su cuscini ruvidi e prestiamo attenzione a suoni o sensazioni: uccellini che cantano, pizzicori al naso, portiere di macchine che sbattono. Se non fosse stato per Mindy, credo avrei preferito allenarmi fino a farmi sanguinare le mani che stare seduto con le gambe intorpidite. Una mattina mi sono accorto che i suoni erano diventati un paesaggio, una striscia scintillante, e da allora, per farla breve, ho capito meglio i miei tempi e meccanismi di reazione nei confronti degli altri. Ree pensa sia tutto l’LSD che ho ingollato da ragazzino e anche questo mi infastidisce. In realtà avrei dovuto pensarci prima alla meditazione, visto anche il mestiere che faccio; ma è proprio questo il problema: quando sei abituato a stare sulla difensiva, finisci per reagire a qualsiasi situazione come un animale braccato. Poi mi domandavo perché avessi pochi amici.
Rileggo le domande dal foglio che il tizio dell’ufficio stampa mi ha portato stamattina. Mi riprometto di chiedere consiglio a Mindy stasera.
«Se racconti una cosa del genere, che credi penseranno?» di nuovo Ree e il tono saccente di quando vuole convincermi di essere dalla mia parte.
Mi metto in posizione fetale, tiro l’asciugamano fino alla spalla e abbasso il cappellino.
«I fan, intendo» aggiunge.
«Ho capito.»
«E allora? Cosa pensi…»
«Che vuoi che pensino? Faccio il pugile!»
«Esatto Ennio. È quello il punto. Il pugile col padre violento» dice Ree, la voce strangolata dallo champagne si abbassa quando dice padre, ha un momento di esitazione.
Troppo tardi. Sento la pelle stringersi.
«Non è la verità?»
«Vuoi che ti ricordino per questa verità?» Con le dita virgoletta la parola verità.
Le immagini di pugni in faccia, ossa rotte, facce gonfie, occhi neri mi balenano davanti agli occhi. Mio padre, i suoi regolamenti di conti, respira. Gli uccellini, penso agli uccellini. Pugni sullo stomaco, archi sopraccigliari aperti, nocche sbucciate. La sdraio cigola. Ree è un amico, non solo il mio manager.
«Dovresti pensarci bene prima di vomitare la tua negatività sul pubblico» aggiunge Ree, la voce che sfrigola nel caldo del pomeriggio.
Ho un piede per terra.
«E detto tra noi, questa cazzo di meditazione ti sta rincoglionendo.»
Scatto in piedi. I miei occhi incontrano la massa azzurra del mare dietro la terrazza, un muro d’acqua che si allarga viola e compatto fino all’orizzonte.
«Che hai?»
Mi siedo di nuovo. Poi allungo le gambe e penso al mare, alla sensazione di calore sulla pelle. Respiro più lento. Poso l’indice e il medio sul plesso solare, lo sento vibrare. Una corrente leggera, liquida, mi attraversa fino ad arrivare in un punto preciso tra le palle e l’ano, dove il formicolio lascia il mio corpo. Galleggio, inspiro giallo, espiro rosso. Il flusso si arresta, apro gli occhi: i riflessi dell’acqua nella piscina riverberano sul muro, fluttuano in forme circolari.
Ree mi guarda.
«Poco fa, pensavo volessi picchiarmi. Ero pronto a tuffarmi da là.»
Indica la parte della terrazza dove la piscina è più profonda, ed esplode in una risata, quel suono a cascata come se avesse una seconda fila di denti che gli battono in bocca. Si avvicina con in mano il suo bicchiere di champagne mentre canta la Marsigliese; quasi si inginocchia davanti alla mia sdraio, i baffi a manubrio mi sfiorano il viso mentre dice:
«Hey Buddha. Volevo dire che è solo una questione di dignità.»
Poi ululando si alza in piedi e corre rapido verso l’estremità della terrazza. Due ragazze sedute sul bordo opposto della piscina lo guardano. In piedi sul muretto, Lee traballa mezzo ubriaco, gli occhi che brillano. Dà un urlo mentre si tuffa nell’acqua, il bicchiere ancora in mano.
Mi sporgo per guardarlo nuotare: veloce e silenzioso, sfiora le piastrelle del pavimento con movimenti larghi, esagerati; quando riemerge davanti alla mia sdraio, io scoppio a ridere. Ree mi guarda e solleva il bicchiere pieno d’acqua.
«Ennio “The Storm” Robertson, signore e signori!»
Gli applausi rimbombano nel piccolo atrio prima dello studio, le tende si aprono in un fruscio pesante, c’è odore di plastica bruciata. Mi ritrovo nell’alone abbagliante delle luci, la telecamera accesa davanti, mentre il presentatore dello show mi viene incontro con la mano tesa. È alto quasi quanto me, Grant King, a prima vista sembrerebbe un attore hollywoodiano, se non fosse per i denti ammucchiati davanti.
«Bentornato a casa!»
«Grazie a voi» rispondo con calore. Sono vestito con un kilt leggero e la camicia bianca, sorrido al fatto assodato che sono ormai tre i luoghi in cui mi danno il bentornato a casa: Italia, Scozia e Stati Uniti.
Il pubblico applaude ancora mentre mi siedo, saluto: la mia mano, che scorgo in uno schermo più piccolo davanti a me, sembra enorme, minacciosa.
Ree mi guarda dal balconcino VIP con aria sarcastica; indossa quella maglietta odiosa che reca scritto sono il tuo figlio di puttana preferito e gli occhiali con la montatura a forma di fenicottero. Fa il segno della pace con due dita ogni volta che lo inquadrano. Vicino a lui è seduta Mindy, capelli sciolti, jeans e maglietta: mi saluta con la mano buona. Le mando un bacio in punta di dita. È bellissima.
Grant e io scherziamo sul tempo e sui rispettivi accenti, parliamo della mia infanzia e adolescenza a Edimburgo, degli Hibs e degli Hearts, del rugby e della mia vecchia scuola ora convertita in un blocco di appartamenti, mentre dietro di noi, su uno schermo gigante, appaiono vecchie foto di famiglia: mia madre prima del divorzio, mio fratello prima della cocaina e infine mio padre. Gli occhi appuntiti di mio padre, enormi dietro il faccione sano di Grant, mi avvertono. Vorrei potermi voltare verso Ree e Mindy, o che qualcuno cambiasse lo sfondo. Grant si schiarisce la voce e con una nota accorata chiede:
«Qual è stato il momento decisivo che ti ha fatto capire che volevi diventare un pugile?»
Legge da un cartoncino azzurro, si lecca i canini e spinge con delicatezza la tazza con l’acqua verso di me.
«Decisivo?» chiedo.
«Decisivo.»
La telecamera mi osserva e ronza leggermente come un grosso insetto. Percepisco, anche se non lo sento, Ree cantare la Marsigliese sottovoce. Ha pianificato tutto per la festa dopo la trasmissione. Mindy è inquadrata nel piccolo monitor davanti a me, si morde il labbro, seduta sul bordo della poltroncina di pelle come se volesse scappare; la lucina della telecamera si accende a intermittenza sul suo viso, sa che anche sua madre la guarda da casa.
Grant mi guarda, il pubblico tace, aspetta. Io esito, sono ancora incerto. Inizio: «Il momento decisivo della mia carriera è accaduto tanto tempo fa…»
Delle ombre che circondano il ring non ne parla mai nessuno. I pugili evitano l’argomento, anche se a ogni incontro ne percepiscono le vibrazioni sotto la pelle, come granelli di sabbia incastrata; gli allenatori e i manager fanno finta di non vederle anche se distinguono le sagome, non fosse altro per averne succhiato la linfa quando erano ancora incarnate. Il pubblico vuole saperne anche meno, quelli sono soltanto spettri del passato, e nonostante il tappeto di ogni ring sia composto di sangue e dolore stratificati al pubblico interessa lo spettacolo del presente.
«Lascialo. Andare» dice severo Gino Mossetti, l’arbitro di questo incontro per il titolo mondiale dei pesi medi.
Mollo la presa e cammino a destra del mio angolo, dove con la coda dell’occhio vedo Bob, il mio allenatore che fa cenno di prenderla comoda, di rallentare, di respirare.
Siamo al terzo round, sono in vantaggio. Luis Marengo detto «Poppy» si muove scoordinato, rotea gli occhi, fa il matto. Ha il fiato che sa di carne cruda, i tatuaggi colorati che luccicano di sudore, la faccia bovina. Mi nausea. Provo pietà per i suoi jab fiacchi, per le finte prevedibili, ignoranti, per i pugili come lui che hanno le caviglie sottili e le gambe troppo lunghe; per come cerca di imburrarmi con l’aria da bullo della grande città, per come capisce d’istinto quello che la gente vuole, per come smania per essere al centro dell’attenzione, uno showman.
Questo però non è uno show.
Le luci disposte a cerchio sopra il ring buttano ombre in tutte le direzioni. Ognuna di queste è un punto buono in cui cadere.
Gli grido:
«Mi fai pietà.»
«Cazzo dice?» domanda Luis incredulo, inclina la testa e mette il guantone destro dietro l’orecchio come per sentire meglio, si rivolge al suo allenatore che mi guarda indignato, come se volesse farmi a pezzi; Bob mi guarda e scuote la testa.
«Ennio, basta» dice l’arbitro, mi stringe la spalla.
Annuisco, inspiro giallo, espiro rosso.
«Continuiamo» dice Mossetti. Mi dà una pacca veloce e poi aggiunge:
«Niente scherzi.»
Annuisco ancora. Sollevo lo sguardo: Ree è seduto in prima fila, poco distante da Mindy e sua madre, ha il blazer aperto sul petto nudo, la faccia rossa per uno sfogo alla pelle dal troppo bere; mi fa il pollice come per approvare, e poi fa due dita verso l’alto e ride. Il suo sguardo vaga oltre me, oltre il ring, in alto verso uno degli schermi della rete che trasmette l’incontro. Lo inquadrano da vicino. Quel gesto diventerà virale nel montaggio di un ragazzino su una piattaforma sociale cinese e gli frutterà, «ci frutterà» mi correggerebbe lui, quasi duecentomila sterline.
Luis Marengo saltella sulle punte, una ballerina con le ginocchia di argilla. Saltello anche io, ci giriamo attorno, fintiamo, io ora non ho fretta. Sbuffa e viene avanti basso, si tiene stretto, concentrato. Fingo, mi abbasso anche io, Luis tenta un destro che arriva troppo corto, rimedia di riflesso con un sinistro, senza fame e senza vigore. Traballa, rimbalza sulle corde con veemenza.
«Abbiamo quasi fatto» gli dico mentre cammino sulle punte dei piedi, qualcuno ride, la gente applaude.
Questo non è uno show.
Colpisco l’arcata e il naso, rinforzo con un altro gancio. Sanguina poco, ma noto negli occhi un torpore inatteso. Sente la pressione, è consapevole che il sangue ha intorbidito l’acqua, annusa la tragedia. Come un principiante, si fa distrarre dalla frenesia della gente che strepita nella platea, credo sia pure scoppiata una rissa nelle ultime file e mi lascia tutto lo spazio e il tempo per mangiarlo vivo.
Colpisco forte, poi più forte, poi inspiro ma l’aria è diventata rarefatta, come se fossi in alta quota. Il braccio, la testa, anche il respiro sono quelli di mio padre alla fattoria. Ho un filo di saliva che mi cola dalla barba. D’un tratto le luci sul ring si spengono e riaccendono, per una frazione di secondo vedo tra il pubblico la faccia gonfia e deformata di Tommy McManus.
Il ring è un luogo sconosciuto, uno spazio per ingraziarsi degli dèi crudeli, in cui confluiscano correnti che non riesco a controllare, turbolenze che mi portano dentro a un vuoto d’aria, verso l’avvitamento che mi farà precipitare.
Mossetti mi tira via di forza, sento le sue braccia prendermi sotto le ascelle e strapparmi dalla faccia viola di Marengo che pulsa nel buio opaco.
Mi fermo.
Sento il formicolio nel petto, il peso di tutti questi anni, il rosso della rabbia, il giallo dell’espiazione. Decido che ho pagato tutto quello che potevo. Non ho più altro. Non che possa risarcire qualcuno o che mi possa liberare.
«Dietro!» urla Bob e dalla prima fila urlano Mindy, sua madre, Ree, mio padre e Tommy McManus.
Luis Marengo si è tirato su, barcolla dietro di me, io non vedo altro che il pubblico davanti, le facce che strillano, le gole che si aprono. Anche se mi voltassi, davanti a questo colosso rabbioso, questa belva da show, non opporrei resistenza. E non lo faccio. Seguo gli occhi del pubblico e mi giro per guardarlo, Marengo arriva come un uragano e piazza un potente sinistro sul mento che mi scaraventa sulle corde. Poi in uno stato di grazia che non troverà mai più durante la sua carriera, trova la forza per un gancio portentoso che mi manda giù.
Non ho cognizione del corpo, né sensibilità alle mani, o alla faccia, il ring è un buco nero, forme scure si agitano dietro i tentacoli delle corde, veloci come animali nella foresta. Scorgo una sagoma scura avanzare verso di me. Si inginocchia, la bocca nel buio dice: «Respira.»
«Mi dispiace, Ennio» dice Ree nel parcheggio di un supermercato ventiquattrore, mentre fascio la mano di Mindy. L’aria della notte è spessa, umida di pioggia, non c’è anima viva a parte un gruppo di vecchi vestiti di bianco che caricano casse di birra in un vecchio van. Ree è accovacciato sul marciapiede vicino alla moto, una bottiglia di whiskey in mano e una sigaretta spenta in bocca.
«Per il titolo?» chiedo stringendo i lembi del nodo di garza sul polso sottile di Mindy. Lei mi guarda e sorride.
«Anche. Per tutto. Forse avevi ragione, dovevi parlarne durante l’intervista.»
«Parlare di cosa?»
«Di tuo padre, dell’infanzia violenta» dice Ree mentre guarda i vecchi che caricano un’altra cassa dal portellone posteriore del van. «Poteva aiutare qualcuno» aggiunge mentre si accende la sigaretta.
Mindy mette in moto la macchina, io sistemo lo zaino con le garze e la pomata nel bagaglio. Ree fuma appoggiato al muro del supermercato, i capelli spettinati dal casco fanno intravedere la calvizie, la pelle tirata della fronte, bruciata dal sole. Sembra un vecchio anche lui.
«No, avevi ragione, era una roba patetica. Poi dei casini personali non importa niente a nessuno» rispondo.
Ree annuisce poco convinto. I tizi vestiti di bianco salgono nel van, le voci riecheggiano nel parcheggio. Ree spegne la sigaretta sotto lo stivale, mi fa un cenno con la mano e sale sulla moto.
Io entro in macchina. Il rettilineo dell’autostrada si stende davanti ai nostri occhi. Il rombo delle auto risuona continuo in due direzioni, io inspiro ed espiro lento.