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Galeazzi in prima linea
15 nov 2021
I suoi momenti più memorabili.
(articolo)
16 min
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Ci sono stati almeno cinque Gian Piero Galeazzi. Il primo è il telecronista di canottaggio, lo sport in cui aveva eccelso da ragazzo fino a sfiorare una partecipazione olimpica nel doppio insieme a Giuliano Spingardi ai Giochi di Città del Messico 1968: negli anni Ottanta Galeazzi riesce a elevarlo dalla solita nicchia degli sport di cui si parla solo ogni quattro anni commentando soprattutto i due ori olimpici dei fratelli Abbagnale (insieme al timoniere Peppiniello Di Capua) a Los Angeles 1984 e Seul 1988. Nei pochi minuti di durata di una finale di canottaggio riesce a combinare pathos, competenza e anche qualche tecnicismo che farà epoca, come l'insistere sul numero dei colpi al minuto che sale in corrispondenza del rush finale. Lo stesso copione si ripeterà con la canoa negli anni Novanta, da magnifico cantore delle gesta di Josefa Idem e Antonio Rossi, da solo e in coppia con Daniele Scarpa e Beniamino Bonomi.

Il secondo è il telecronista di tennis, prima insieme ad Adriano Panatta e poi da solo, lentamente offuscato dal quartetto Tommasi-Clerici-Scanagatta-Lombardi che sulle tv a pagamento intercettava il favore degli spettatori più competenti ed esigenti, lasciando a Galeazzi il ruolo comunque gradito dell'intrattenitore, tifoso e popolare (da “ultras”, come soleva dire Gianni Clerici con il suo magnifico snobismo affettato) che si sublimava negli infiniti pomeriggi di Coppa Davis al Foro Italico o all'estero, come nell'infernale trasferta in Brasile nella bolgia di Maceiò, quarti di finale 1992, un weekend che ricorreva spesso nelle telecronache di “Bisteccone”. Di tennis non era una cima e non ha mai pensato di esserlo, in epoche pre-Internet in cui peraltro era molto più difficile cogliere in castagna il telecronista.

Il terzo è stato il conduttore, sia dei fluviali mercoledì di coppe europee sulla RAI (qui per esempio lo vediamo introdurre Napoli-Real Madrid del 30 settembre 1987 seduto insieme a Falcao e a Ugo Tognazzi, lì per presentare Ultimo Minuto di Pupi Avati) che, negli anni Novanta, di 90° Minuto raccogliendo il testimone da Fabrizio Maffei. Un ruolo prestigioso che oggettivamente limitava Galeazzi: già il fatto di stare seduto lo costringeva a rinunciare alla sua straripante e strepitosa fisicità. Il terzo Galeazzi è purtroppo collegato anche al quarto, il guitto prestato al trash di Domenica In, attirato come tanti colleghi – non solo sportivi – dai lustrini del varietà, goffo e grottesco protagonista di sketch che Rai1 ha riproposto a piene mani venerdì sera dopo Italia-Svizzera credendo di rendergli un buon omaggio.

Ma il Galeazzi migliore, quello per cui è passato alla storia della televisione, è senza dubbio il quinto, quello che tutte le sante domeniche veniva inviato sul campo principale di Serie A, nel pieno dell'onnipotenza calcistica italiana: il meglio del meglio giocava da noi e lui ne era al servizio, cronista di punta dell'unica tv nazionale che possedeva i diritti delle immagini e delle interviste. Si muoveva sulla scena consapevole di questo immenso privilegio, dimostrando in ogni fotogramma di divertirsi un mondo. YouTube conserva da anni le scene più simboliche di quel decennio memorabile in cui le telecamere RAI avevano il potere di entrare dappertutto, e quasi sempre davanti a quelle telecamere c'era Gian Piero Galeazzi.

L'intervista a partita in corso (Fiorentina-Juventus 0-0, 4 aprile 1982)

Succedeva quarant'anni fa, eppure sembra una scena avanti di quarant'anni: nel bel mezzo del secondo tempo di un torrido Fiorentina-Juventus che vale il primato in classifica, l'allenatore viola Giancarlo “Picchio” De Sisti trova il tempo e la pazienza di rispondere alle domande di Galeazzi. Scena simbolo dell'onnipotenza della RAI, della televisione, del giornalista sportivo, ma anche del rispetto e della considerazione di cui quest'ultimo godeva nei confronti dei più importanti personaggi del nostro calcio. E non possiamo fare a meno di domandarci: ma oggi che ogni top manager ha una decina di assistenti che lo aiutano in ogni brandello di partita, davvero non troverebbe il tempo di rispondere venti secondi al volo durante una pausa?




L'intervista a Furino (Inter-Juventus, 19 dicembre 1982)

Siamo già il campionato dei campioni del mondo ma ogni week-end abbondano le partite brutte, sporche e cattive, figlie del tatticismo e dell'ossessione per la prudenza della scuola italiana. Anche gli stadi sono quel che sono: violenti, pieni di rabbia, striscioni razzisti, cori insultanti. Negli anni Ottanta fioccheranno gli 0-2 a tavolino per le partite “disturbate” da lanci di oggetti dagli spalti, petardi, rondelle, bombe-carta: proprio la partita di ritorno al Comunale di Torino, sul campo finita 3-3, verrà assegnata all'Inter dal Giudice Sportivo perché un mattone ha colpito il pullman nerazzurro ferendo Giampiero Marini. Beppe Furino, più di altri simbolo di una Juventus vincente e antipatica, viene sostituito intorno al 60' e subito bersagliato di pietre, arance e varia oggettistica. Galeazzi non ne fa un problema: lo blocca all'altezza della linea laterale, vanamente avvertito da Furino («Qua ci prendiamo delle pietre!»). E lui, con il fatalismo e la calcolata drammaticità di un inviato a Beirut: «Sì, ma questo è il nostro lavoro: il mio in campo e il tuo qua!». Furino non fa in tempo a rispondere alla prima domanda che subito viene centrato da un oggetto volante non identificato, evento al quale risponde con un'occhiataccia che è Beppe Furino in purezza. Seguono i pochi secondi – oggettivamente strepitosi – in cui Galeazzi si esibisce in una corsetta da podista della domenica per mettersi al riparo sotto il tunnel di San Siro. «Non sei molto amato a San Siro, mi sembra...» «No ma, d'altronde, è la Juve che non è amata».


Boniperti e il tifoso (Juventus-Roma, 4 dicembre 1983)

Le domeniche di Serie A erano scandite da riti ben precisi: uno di questi era la fuga scaramantica dal Comunale del presidente juventino Giampiero Boniperti, sempre all'intervallo, qualunque fosse il risultato. Non fa eccezione nemmeno un tiratissimo Juve-Roma, destinato a finire 2-2 con meravigliosa rovesciata finale di Pruzzo. «Sì, io vado», premette Boniperti come se fosse la cosa più normale del mondo, mentre fuori campo una voce di sfuggita disturba l'intervista: «Con i romani non bisogna parlare!». Boniperti lo zittisce con fermezza, e subito dopo cala il silenzio: così il giornalista, che dà rispetto e lo ottiene anche dal più importante dirigente calcistico dell'epoca, può continuare a fare il suo lavoro.


“Vietato l'accesso” (Inter-Juventus, 11 novembre 1984)

Nell'epoca d'oro della Domenica Sportiva, gli attacchi dei pezzi erano pillole di cinema che mischiavano – a seconda della firma – neorealismo, avanguardia e commedia all'italiana: già il fatto che la sigla che annunciava il servizio fosse composta da Edoardo Bennato definiva la cifra artistica dell'intero prodotto. Questo Inter-Juve che sul campo non avrà storia (4-0, doppietta di Rummenigge) si apre con la summa del galeazzismo: Bisteccone che bussa piacione a una porta su cui c'è scritto in maiuscolo “VIETATO L'ACCESSO”, con modi troppo sbrigativi per pensare che la gag non fosse organizzata («Pronto, si può? Oh scusate...»). All'interno dello stanzino c'è infatti la ragioneria di San Siro al gran completo, che lo accoglie con larghi sorrisi e gli snocciola le cifre dell'incasso della partitissima. È vero, la RAI di metà anni Ottanta è onnipotente e può infilarsi dappertutto: ma in questo Galeazzi era il più bravo di tutti. Nota a margine: oggi certe società non comunicano l'incasso delle partite nemmeno per iscritto.




L'intervista a Bagnoli (Atalanta-Verona, 12 maggio 1985)

Un grande classico di fine stagione è l'intervista all'allenatore appena laureatosi campione d'Italia. A parte Liedholm e l'habitué Trapattoni, gli altri – nessuno dei quali particolarmente dotato in public speaking – stanno tutti provando la gioia più grande della carriera, un'emozione che a volte blocca la mascella, azzera la salivazione e impedisce persino di parlare come si converrebbe davanti a un microfono (come succederà a Sacchi nell'immediato post-partita di Napoli-Milan del 1° maggio 1988). L'intervista a Osvaldo Bagnoli, il “mago della Bovisa” artefice dello storico scudetto del Verona, è quantomai lunare: travolto dalla felicità e dello spaesamento per ciò che ha appena conquistato, non riesce nemmeno a finire le frasi che viene portato in trionfo sotto la pioggia. Bagnoli, che sapore ha lo scudetto? «Penso che sia un qualcosa che uno sente dentro... più che altro sono queste attestazioni qua che prendono magari dentro di noi, insomma...».


Il mercato diciamo non regolare (Napoli-Juventus, 3 novembre 1985)

Spesso, avvinghiati alla nostalgia, tendiamo a dimenticare che il calcio italiano anni Ottanta era una vasta zona grigia che dietro i lustrini del “campionato più bello del mondo” nascondeva i ripostigli del malaffare, mercato nero, stadi brutti e pericolosi, comune arte di arrangiarsi. In quest'apertura di servizio del Napoli-Juve che passerà alla storia per la punizione di Maradona, Galeazzi conversa amabilmente con un avventore del San Paolo che si vanta del suo biglietto da 75 mila lire comprato al «mercato diciamo non regolare». Altri passanti snocciolano l'intero tariffario dei bagarini, in un clima alla Mi Manda Picone in cui Galeazzi recita il ruolo del cronista impassibile: «Ieri», afferma un ragazzo incongruamente in giacca e cravatta, «la tribuna la vendevano anche sulle 200 mila lire».


Maradona e Platini (Napoli-Juventus, 3 novembre 1985)

E adesso, dallo stesso servizio di prima, una domanda da cento milioni di lire: non ci sono più i calciatori intelligenti o sono sparite le domande intelligenti? Ogni risposta ha le sue ragioni: qui intanto grande prontezza di riflessi di Michel Platini nel ribattere a tono, con tempi comici naturali, al quiz di Galeazzi nell'immediatezza di un Napoli-Juve: «Domanda storico-culturale: sai qui a Napoli che cos'è il Maschio Angioino?». «Diego!» (sarà stata preparata?). Meno brillante Maradona che però si rifarà ampiamente in campo.


Maradona e Rummenigge (Inter-Napoli, 10 novembre 1985)

Dopo l'inizio folkloristico, un classico delle partite in trasferta del Napoli, un brusco stacco di montaggio ci porta nella pancia di San Siro dove le squadre preferiscono svolgere il riscaldamento nei pomeriggi più freddi. Galeazzi certo non sta a guardare: ha già preso accordi con le due stelle Rummenigge e Maradona, di lì a nove mesi avversari in finale Mondiale, e prova a farle chiacchierare limitandosi a reggere il microfono. «Giochiamo a calcio, non siamo giornalisti!», si schermisce Diego. La prima domanda è un po' banale («Chi è favorito con questo campo?») e di conseguenza anche le risposte. La seconda, invece, non è così male: «Diego, se avessi incontrato Rummenigge fuori dallo stadio, cosa gli avresti chiesto?». «Che non giochi!». «Maradona, paura Rummenigge!», titolerebbero oggi i siti acchiappa-click. E invece era usuale cortesia pre-partita tra due dei più grandi calciatori del momento, catturata sempre e solo da Galeazzi in un luogo dove non ti aspetti che ci siano una telecamera e un microfono.


La gag con Dino Viola (Milan-Roma, 23 marzo 1986)

Siamo nel pieno della rimonta della Roma di Eriksson, destinata ad arenarsi nella traumatica Roma-Lecce. I giallorossi sono a -3 dalla Juventus e giocano a San Siro contro il Milan con un orecchio teso a Juventus-Inter. All'intervallo la Juve è in vantaggio 1-0 e Galeazzi inziga il presidente romanista Dino Viola, che non chiede di meglio. «Come va sugli altri campi? Ho sentito 1-0 su rigore la Juventus...». Galeazzi sbaglia a specificare le modalità del gol di Platini, perché rovina un po' la battuta seguente dell'Ingegnere («Scommetto su rigore!»). Sono dieci secondi tutto sommato innocui che però, nell'isteria permanente di oggi, scatenerebbero polemiche social a non finire, dirette verso la domanda insinuante del giornalista e verso Viola che vuole avvelenare l'ambiente. E invece è giusto così, in punta di fioretto, con tutti i presidenti – Viola come Agnelli – che, sia pure nell'asperità di una lotta-scudetto, non rinunciano a recitare la loro parte in commedia. In questo Galeazzi era una spalla formidabile.


Il microfono a Maradona (Napoli-Fiorentina, 10 maggio 1987)

La gag di cedere il microfono a un giocatore e lasciargli il centro della scena era già stata inventata da Beppe Viola, in uno degli ultimi servizi della sua carriera, un Sampdoria-Roma del settembre 1982: protagonista un giovanissimo Roberto Mancini che presentava come una rock band la Samp temporaneamente prima in classifica. Nell'ebbrezza dei festeggiamenti del primo scudetto del Napoli Bisteccone va ancora oltre e invita Maradona a fare il giornalista al posto suo, intervistando i compagni in canottiera, fradici di champagne: Galeazzi non è mai stato un fenomeno di discrezione, ma sa riconoscere il momento storico quando gliene passa davanti uno e così sceglie di porsi al di fuori dell'inquadratura, lasciando la scena al fuoriclasse e capopopolo. Certo, oggi non si può più fare: persino le immagini più spontanee di una festa in spogliatoio vengono prima vagliate dagli uffici stampa, depurate di ogni volgarità e momenti sconvenienti e poi date in pasto ai media. Di fronte alla purezza di immagini come queste, vien da pensare che è un peccato. (Se vi state chiedendo perché Maradona chiami “Tota” Ciccio Romano, sappiate che il diretto interessato ha raccontato che è un segreto tra lui e Diego.)




L'orologio di Gullit (Milan-Napoli, 3 gennaio 1988)

Personaggi come Ruud Gullit erano manna dal cielo per lo show calcistico degli anni Ottanta, sempre in cerca di nuovi divi, tant'è che ai microfoni della RAI il giocatore del Milan si presentava quasi ogni domenica con grande disponibilità come da regole della Real Casa Berlusconiana. Dopo il 4-1 al Napoli che l'ha consacrato stella di prima grandezza della Serie A, a una settimana dalla vittoria del Pallone d'Oro, Gullit scherza inconsapevolmente anche sulla vena mercantile degli olandesi, sottraendo qualche spicciolo dalle mani di Galeazzi che non manca la contro-battuta («Allora io prendo l'orologio!») tra le risate collettive. Tutto fa spettacolo.


La finale del mondo (Napoli-Milan, 1° maggio 1988)

Un'altra cosa che non si può più fare è entrare in campo a due minuti dal fischio d'inizio per strappare due battute a caldissimo ai giocatori: oggi le società preferiscono far parlare un giocatore scelto da loro, magari una riserva, 80 minuti prima della partita, davanti al backdrop degli sponsor, in un ambiente asettico come una sala operatoria. Vietate le domande scomode, ovviamente: ma, come ha scritto Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, Galeazzi era un gigante nel rendere interessanti e tridimensionali le domande scontate, che scritte su un giornale sarebbero sembrate le più trite delle banalità. Niente approcci chilometrici da 30 secondi, a volte più lunghi della risposta: per catturare l'emozione di Maradona davanti a 90 mila tifosi nel giorno dello “spareggio” contro il Milan di Sacchi, basta chiedergli «Che senti nel cuore?» e poi semplicemente ascoltare, per poi tirare fuori il titolo che vale la domenica: «Una gioia immensa per essere qui, in questa finale del mondo».


Il placcaggio al Trap (Inter-Napoli, 28 maggio 1989)

Settimo scudetto in carriera per Trapattoni, il primo con l'Inter “dei record”. La fisicità di Galeazzi e Bruno Pizzul, anche lui giornalista dal fisico di corazziere, fa sembrare minuscolo un ex mediano come il Trap. “Dai!”, gli intima Galeazzi che inviato a San Siro ha adottato improvvisamente i modi spicci dei milanesi, e Trapattoni parte senza nemmeno aspettare la domanda. Nulla è programmato: i due si sovrappongono, la prima domanda la fa Pizzul per 90° Minuto, poi cede la scena al collega che sta lavorando per la Domenica Sportiva. Quindi arriva il capitano Bergomi, assalito da alcuni ragazzi, e Galeazzi svolge al meglio la sua mansione di buttafuori. Complice anche l'immensità dello stadio, lo scenario sembra più caotico del solito, e dov'è il caos Galeazzi dilaga senza avversari.


L'intervista ad Azeglio Vicini (Italia-Inghilterra, 7 luglio 1990)

Vengono anche i momenti più confidenziali, quando un'intervista post-partita può durare anche un paio di minuti perché non ci sono fretta o emozione o una folla da scansare. Triste, solitario y final, dopo la finalina per il 3° posto del Mondiale 1990 Azeglio Vicini affronta la sua intervista da sconfitto e rovescia nel microfono di Galeazzi l'orgoglio e la delusione del mese appena trascorso, ritenendo che gli si debba riconoscere il buon lavoro svolto, con un'ingenuità che comprende la poca abitudine a parlare in tv, tant'è che Bisteccone deve indicargli la telecamera. Anche il giornalista ha il tempo di fargli domande un po' più articolate («Sette partite, sette formazioni diverse, sette stati di tensione diversi...») mentre lo sguardo guizza in tutte le direzioni, già a caccia del prossimo giocatore, della prossima intervista. Amaro finché si vuole, ma è così: in questi due minuti Vicini, ascoltato da Galeazzi più per cortesia che per interesse professionale, sembra già il passato.


Il frate (Lazio-Reggina, 15 maggio 2000)

Con un salto siamo nel 2000: Galeazzi ha smesso da un pezzo di fare l'inviato d'assalto, si è trasformato in opinionista e si dedica alle telecronache. La stazza è cresciuta a dismisura, la voglia di divertirsi non è scesa. Stando alla leggenda, quel pomeriggio abbandona la telecronaca in diretta della finale degli Internazionali d'Italia Kuerten-Norman per dirigersi al vicino Olimpico, dove i tifosi laziali stanno vivendo in apnea i minuti finali di Perugia-Juventus: se gli umbri manterranno l'1-0, la Lazio sarà campione d'Italia. Tutto è cult in questi due minuti: il microfono appoggiato sulla radiolina dove la voce di Riccardo Cucchi (tifoso laziale anche lui) sta commentando le battute finali del match del Curi, il tifoso che lo abbraccia sul vialone del Foro Italico (sulle prime la voce sembra proprio quella di Galeazzi), il frate intercettato per caso: «Lei è juventino, padre?». Ormai nella parte declinante della carriera, in corrispondenza del giorno più glorioso della squadra per cui fa il tifo, Bisteccone non resiste alla tentazione di celebrare sé stesso.


Il Galeazzi laziale (Lazio-Vicenza, 21 giugno 1987)

Ringrazio Fabrizio Sapia per avermi segnalato quest'altra perla minore del Galeazzi laziale, esempio del giornalista che non ha problemi a dichiarare la propria fede calcistica, perché il valore del suo lavoro lo rende comunque inattaccabile (e difatti Galeazzi non ha mai avuto problemi con i romanisti, anzi è parte integrante dei tanti servizi che celebrano lo scudetto della Roma di Liedholm 1982/83). Siamo nel mezzo di una delle giornate più drammatiche della storia della Lazio, quando i biancocelesti di Fascetti, partiti da -9, devono battere il Vicenza all'ultima giornata per scongiurare la retrocessione in Serie C. La Roma biancoceleste si stringe attorno alla squadra: nel traffico della Capitale, infernale come da luogo comune, un giornalista di una tv locale ferma Galeazzi che non si sottrae all'intervista e parla col cuore in mano, come non ci si dovrebbe aspettare dall'inviato di punta della tv di Stato. Pensate a questi 40 secondi trasportati ai giorni nostri, all'ironia e all'indignazione che susciterebbe, e guardate invece la naturalezza con cui Galeazzi spiega che sta andando allo stadio «non da giornalista professionista, ma da laziale». E poi l'intero contorno, che racchiude tutto il grande cinema romano anni Settanta: Roma di Fellini, Febbre da Cavallo («vado via subito» alla vigilessa accigliata che si affaccia nel finestrino), Una Giornata Particolare... Tutto questo era il mondo in cui è nato e ha prosperato Gian Piero Galeazzi, uno che non si lamentava come troppi colleghi, e che non nascondeva di fare il lavoro più bello del mondo.




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