La sera del 12 settembre 2010, seconda giornata di campionato, il Bari di Ventura pareggia 2-2 in rimonta a Napoli, con un gol nel finale dell’argentino Nacho Castillo. Due settimane prima al San Nicola è caduta addirittura la Juventus, battuta da un tiro da fuori di Massimo Donati. Al momento di esultare per il pareggio, Ventura si gira verso la tribuna e grida, paonazzo e trionfante: “Questo è il calcio!”, allo stesso modo in cui Leonida urlava “Questa è Sparta” in quel famoso film.
Com’è noto, quella stagione finirà in malora per il Bari e per Ventura stesso, esonerato a febbraio con la squadra già alla deriva; ma quel gesto e quella frase rappresentano la genuina firma in calce al famoso “calcio-libidine” marchio di fabbrica di quella stagione breve e felice, tuttora rimpianta dai baresi che oggi si barcamenano tristemente tra Castrovillari e Roccella Jonica.
In nessuna sintesi di quel Napoli-Bari c'è traccia di quell'esultanza di Ventura; ma è accaduto davvero.
Per la personalità e la passione con cui si è sempre messo in gioco in venticinque anni di carriera in piazze mai facili e mai comode, non si può volere del tutto male a Giampiero Ventura. Se questo accade – come sembra accadere ormai da un anno, senza interruzioni di astio e di sarcasmo – c’è qualcosa che non va. I tempi attuali cancellano le sfumature e polarizzano le questioni con semplicità brutale. La colpa di ogni cosa appartiene a non più di una-due persone, solitamente i più esposti e indifesi, e hai voglia a parlare di fallimento di sistema, di divisione delle responsabilità, “si vince e si perde insieme”.
Nella recente conferenza stampa di presentazione al Chievo, Ventura aveva provato stancamente a tornare su quella sporca faccenda:«Volevate il modello tedesco e la Germania è uscita al primo turno, la Spagna era la squadra più forte del mondo ma dopo aver cacciato Lopetegui ha fatto una figuraccia, anche Sampaoli è stato massacrato e l'Argentina è andata alla deriva... con un CT delegittimato la fine è sempre la stessa».
Tutto inutile, perché dopo un anno le opinioni sono diventate granitiche e ciò che all'inizio era materiale da parodia su YouTube col tempo è diventata una verità inoppugnabile: per Ventura ormai non è più possibile uscire dal personaggio di sanguisuga ruba-stipendio che non ha voluto dimettersi dopo la Svezia; neanche protestando che lui le dimissioni le aveva già date un mese prima, subito dopo Italia-Macedonia, ma non erano state accettate, perché ormai non gli crede più nessuno. Appurato dunque di essere diventato un cretino e/o un criminale quasi per un Paese intero, come sopravvivere alla condizione di Mostro per un uomo così pieno di sé?
Come Mondino Fabbri
Neanche le grandi penne si sono negate il sottile piacere del tiro al piccione: anche quelle più misurate hanno usato aggettivi come “censurabile”, “deplorevole”, “vergognoso”. Sempre “dopo”, però, a buoi abbondantemente scappati, perché il terrore di un Bearzot-bis impone alla categoria di infierire solo a cadavere già sepolto.
La parabola umana di Ventura ricorda la via crucis di Mondino Fabbri, altro CT senza pedigree che nel percorso di avvicinamento al Mondiale del 1966 osò mettersi contro la Grande Inter e i grandi opinionisti milanesi, schiantandosi sulla proverbiale Corea del Nord che ancora oggi sopravvive nelle canzoni dei Thegiornalisti. Il ritorno in patria diventò una via crucis: sbarcati all'aeroporto di Genova in gran segreto per evitare contestazioni, gli azzurri vennero comunque smascherati e ingloriosamente bersagliati da pomodori e uova marce. Fabbri restò per un'ora a bordo dell'aereo parcheggiato sulla pista, prima di uscire accompagnato dalla scorta.
Il post-Corea fu ancora più doloroso e grottesco. Solo con i suoi fantasmi, l'ormai ex ct iniziò ad adombrare sospetti di un complotto ordito dal capo-delegazione Artemio Franchi con l'appoggio di medici e massaggiatori della Nazionale. La tesi paranoica era che Franchi avrebbe ordinato di assopire gli azzurri con una specie di doping addomesticato a base di misteriose “fialette rosa”, gestito dal dottor Fino Fini. Barricato nella sua casa di Castel Bolognese, né desideroso né tantomeno capace di affrontare la stampa, nel frattempo licenziato dalla Federazione che gli aveva addossato ogni colpa della disfatta, Mondino trascorse febbrilmente i tre mesi successivi a raccogliere prove e dichiarazioni in un dossier che non vide mai la luce. Gianni Brera, che per l’entourage di Mondino aveva creato la feroce definizione di “club del tortellino”, fu lapidario: “Era una comica pietosa e per giunta faceva tanto caldo”.
Ancora 44enne, riuscì un po' di soppiatto a rientrare nel giro, vinse una coppa Italia con il Torino e disputò stagioni buone e meno buone, quasi sempre periferiche, fino al finale nuovamente inglorioso: una squalifica di sette mesi nel 1981 per aver definito l'arbitro Prati “un noto incapace, un ambizioso incompetente, vittima di sudditanza psicologica verso le grandi” alla fine di un rovente Pistoiese-Inter.
Uomo molto semplice, adeguato alla realtà dei tempi, Fabbri veniva anche preso in giro per la sua difficoltà nel pronunciare alcune parole, visto che si autodefiniva “commissario tènnic”.
Ma Fabbri era un personaggio tormentato, un Savonarola emiliano con spiccate manie di persecuzione, un Arrigo Sacchi con ancora meno senso dell’umorismo. Prima di incagliarsi nell’iceberg svedese Ventura invece sfoggiava ironia e modi da viveur, la moglie Luciana più giovane di ventotto anni, un’abbronzatura impeccabile anche a novembre, la camicia spesso aperta fino al terzo bottone. Ogni tanto doveva scendere a patti con la carta d’identità, come quando un tragicomico colpo della strega l’aveva colto a bordocampo in un Siena-Torino del 2012. Che Ventura fosse già un uomo difficile qualcuno lo sapeva anche, ma niente ci/lo aveva preparato alle sofferenze successive a Italia-Svezia.
La resa di Ventura
Perché oggi tutta l'Italia disprezzi Ventura è tristemente semplice da spiegare. Che cosa sia successo in quelle ore che culminarono a San Siro la notte del 13 novembre 2017 è stato più volte analizzato e psicanalizzato, anche se il più delle volte le colpe del fragile ct parafulmine hanno finito per rubare la scena a quelle degli altri, di tutti. Per esempio sottovalutando il clima lugubre di quella notte, fin dagli inni nazionali, con i sonori fischi a quello svedese che ebbero come unico risultato quello di compattare i nostri avversari. C’erano ottantamila persone a San Siro e chissà quanti di loro avevano una vaga idea della difficoltà tattica e psicologica di quella partita.
Perché disprezzino Ventura anche moltissimi tifosi del Torino, nonostante con lui in sella i granata abbiano giocato le migliori stagioni dell'era Cairo nonché passato almeno una notte da sballo assoluto a Bilbao, è più difficile da capire. Bisogna andare più in profondità, al livello di un’incompatibilità antropologica. Si dice che il titic-titoc dell'ultima stagione, con infinita ragnatela di passaggi orizzontali tra difensori e portiere, fosse diventato insostenibile. Lo si è accusato anche di una certa allergia ad adeguarsi ai valori fondanti del mito granata, da Superga in giù, proclamando di voler guardare avanti. Come tutti i presuntuosi, Ventura è sempre stato un ottimista. Ma per un popolo come quello granata che fa dell'umiltà una dote non negoziabile, la vanità personale è peccato mortale.
Già uscito con fastidio dall'esperienza granata e sgattaiolato in Nazionale per la soddisfazione di Cairo e di Tavecchio che risparmiava un bel gruzzolo rispetto a Conte, Ventura evidentemente non era affatto pronto alla severità del pubblico calcistico italiano nei confronti dei commissari tecnici, e punto sul vivo ha reagito puntigliosamente con il solito orgoglio e il solito egocentrismo, trovandosi di fronte un uditorio non più disposto ad ascoltare. Da qui in avanti una lunga discesa d'ascensore verso il patibolo, a base di infelici interviste balbettanti da Fabio Fazio o rese dei conti annunciate ma mai pronunciate. «In tre mesi sono passato da maestro di calcio a Ventura mangia i bambini», si era sfogato a giugno alla Gazzetta dello Sport. E però, mentre si giocava il Mondiale Ventura era a Zanzibar e agli occhi degli italiani era uno andato in vacanza con i loro soldi.
La sua deriva mediatica ricorda solo in parte quella di Cesare Prandelli, partito con le migliori intenzioni calcistiche e non - con la voglia di riformare l’Italia tatticamente, con un gioco brillante basato sul possesso del pallone, ma anche eticamente, con un codice che gli è stato rigirato contro alla prima occasione perché in fondo nessuno in Italia può sentirsi meno ipocrita o impuro degli altri - e dopo il bagno di sangue del Mondiale brasiliano si è avvitato in un paio di deliranti esperienze al Galatasaray e al Valencia. Ma il crollo umano di Ventura è ancora più doloroso perché masochisticamente ha deciso di ripartire dal Chievo, una squadra fiaccata dalla vicenda delle plusvalenze, che ha preso con un punteggio in classifica negativo, una squadra che aveva bisogno di entusiasmo e non di condividere con lui la sua tragedia.
Il giorno della presentazione Ventura ha tentato la carta dell’iperbole: «Punto a trascorrere qui le prossime quindici estati», e della simpatia, ma già alla prima risposta il suo umorismo è risultato quantomeno infelice: «Tanta è la mia voglia di calcio che anche dal punto di vista economico sono venuto praticamente per amicizia», risate dei presenti, “non è uno scherzo”. L'esordio contro l'Atalanta era stato preparato all'insegna del gioco e della personalità e lo sconfortante 1-5 finale ha subito ridotto Ventura a uno straccio: «Ho sbagliato, non siamo abbastanza sereni per giocare a pallone. Dobbiamo ripartire dalla rabbia e dalla determinazione». Ma dopo altre due settimane e altrettante sconfitte, dopo il Sassuolo Ventura mostrava ancora di essere nel vicolo cieco: «Se il Chievo spera di fare risultato con le unghie e con i denti rimboccandosi le maniche, credo che il futuro non sia estremamente roseo».
Forse è a questo che si riferiva nel sibillino comunicato all'Ansa di martedì scorso, quando si è detto certo che “io e la società volevamo perseguire lo stesso obiettivo, la salvezza, attraverso due strade diverse”. L'amico Campedelli, che un mese fa scherzava accanto a lui, ha risposto dicendo che “le voci”, cioè quel che dice Ventura, “mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro".
Ventura ha risolto il contratto con il Chievo il 13 novembre 2018, esattamente un anno dopo quell’Italia-Svezia: se non è senso di colpa questo, quanto meno è uno scherzo del destino che si diverte a trollarlo. Ha scelto la via del cieco martirio e si è dimesso, e per una volta che si è dimesso ha fatto la figura del vigliacco, grazie al benservito di Pellissier su Instagram che lo ha descritto come uno che “dal primo momento che è arrivato se ne voleva già andare”. Mai si era visto un capitano di serie A descrivere a tinte così forti un allenatore dimissionario il giorno prima.
Ventura ha allontanato da sé la residua comprensione e l’umana simpatia che già avevano iniziato a evaporare nella notte italiana del 13 novembre 2017. Anche i detrattori gli riconoscevano un certo tipo di intelligenza e di buon gusto borghese, di cui non c’è traccia in quest’ultimo mese allucinante. Stavolta se ne è andato subito, si è coperto di cenere e ha provato ad addolcire la situazione dicendo di aver rinunciato “a due anni di stipendio”, ricordandoci indirettamente il suo attaccamento ai soldi.
Verona è letterariamente una città di tragedie, ma le ultime ore di Ventura piuttosto ci ricordano il finale delle “Relazioni Pericolose”. Dopo essere stata causa indiretta della morte di Madame de Tourvel e del visconte di Valmont – colpe gravi almeno quanto una mancata qualificazione ai Mondiali - la Marchesa di Merteuil prova a presentarsi a teatro come se niente fosse: appena messo piede nel loggione, viene travolta da una salva di fischi. La resa in immagini della versione cinematografica di Stephen Frears è memorabile: Glenn Close a casa davanti allo specchio che si strucca, e realizza d’esser vecchia e sola.
E a Gian Piero Ventura, si sa, specchiarsi è sempre piaciuto molto.