Se nominare le cose attribuisce loro un senso, e se il nome proprio ospita un'identità, allora conoscere il Ct della nazionale italiana è più complicato del previsto.
Di solito lo si chiama “Giampiero”, attaccato. Per dire: su Google ha circa 400mila occorrenze in questa forma, contro le circa 50mila del nome staccato in due. Anche l'Alitalia lo chiamava così, e non gli ha riconosciuto i punti Mille Miglia accumulati quando ha presentato il documento. Dov'è scritto “Gian Piero”, che appunto è il suo vero nome.
Conoscerlo davvero non è agevole, eppure la rappresentazione pubblica di Ventura è piuttosto uniforme: lo tratteggia come allenatore preparato e persona tutta d'un pezzo, incapace di furbizie, autentica, e per questo rimasto impaludato su panchine minori. Ventura nonno di tutti noi, un nonno che magari non è all'altezza della nazionale ma gli si vuol bene.
Il senso del lavoro, la serietà e la correttezza, le definisce “le mie schiavitù”, perché gli dànno sempre l'impressione di andare controcorrente. A lui, che si sente uno “spirito libero”, se non un “uomo di rottura”. Lui che nel calcio di oggi non sopporta la mollezza mentale, la sufficienza.
Inizia da allenatore nel 1980 e siede sulle panchine di tutti i livelli, dall'Interregionale alla serie A, alla nazionale italiana. Da Venezia a Giarre, da Lecce a Torino.
Il passaggio più ostico è raggiungere la serie B, dove in effetti approda alla soglia dei cinquant'anni. La scalata alla serie A, a fare le proporzioni, si rivela molto più accessibile: ci arriva nel 1998, dopo trent'anni di calcio professionistico, insieme al Cagliari che ha guidato alla promozione. È in quel periodo che il rapporto col presidente Cellino gli fa “perdere tutti i capelli”.
Quando l'anno scorso il suo nome era nell'aria per il ruolo di Commissario tecnico, se n'è fatta una questione politica. Si è detto che sarebbe stato sgradito all'allora premier Renzi perché vecchio, il più vecchio della serie A, da rottamare. Ventura come rappresentante di movimento, espressione del popolo, contro i profili rampanti e graditi al Palazzo.
“Chi nasce qui, muore qui. Destino scritto” raccontava qualche settimana fa in un'intervista al «Corriere della Sera». Qui, dove Gian Piero Ventura è nato e cresciuto, si chiama Cornigliano ed è il quartiere dell'acciaieria (SIAC, poi Italsider, poi ILVA), sull'asse genovese che il fascismo destinò all'industria bellica.
“Non vedevamo mai il cielo azzurro, nella gola avevamo sempre il fumo dell'Italsider”. I genitori, Mario e Maria, erano assenti e non hanno mai fatto una passeggiata con lui, che a dodici anni mangiava da solo nella trattoria di un amico di famiglia, fra gli operai. Dal “natio borgo selvaggio, il mio solo desiderio era scappare. E oggi posso dire di esserci riuscito” spiegava nell'intervista.
Durante la stagione 1979/80 è viceallenatore della Sampdoria, la società dove si era formato da calciatore senza riuscire a esordire in prima squadra. Anzi, il suo percorso in campo non lo aveva portato a raggiungere altro che una manciata di presenze in serie C a Enna. Colpa della vita sregolata, dice lui, non del poco talento. Comunque in quella stagione sulla panchina blucerchiata portò davanti alla fabbrica alcuni giocatori, perché avevano calzini di cashmere e dovevano vedere gli operai con le gavette.
La politica, secondo lui, ha perso credibilità quanto la Chiesa. Ventura non pratica ma è cattolico abbastanza da sentire “una pace dentro” appena vede un campanile. E odia le bestemmie come intercalare, e in generale ciò che è gratuito.
Come ha osservato Fabrizio Gabrielli, il mare gli ha segnato la carriera. A partire da Genova e dalla costa ligure, naturalmente, ma non solo: di trent'anni da allenatore, ventitré sono in città di mare. Poi arriva a Torino, il primo luogo dove si ferma davvero a lungo: cinque anni, il trampolino più alto, quello che lo porta in nazionale.
“Il mare mi dà serenità e a volte mi angoscia, il mare è un mio complice” ha spiegato lo stesso Ventura.
Ha imparato molto dal basket, che ha rischiato di essere il suo sport quando da ragazzo gli proposero di fare il preparatore per la Simmenthal Milano. La conoscenza di blocchi, tagliafuori e veli l'avrebbe poi usata nel calcio. Che non tradì di fronte a quella proposta, perché il calcio per lui non è l'amore, ma la vita.
Una vita che si alimenta di stress, o di adrenalina, visto che usa i termini come fossero sinonimi. “Questo mestiere non si può fare senza sentirsi sotto pressione”.
Nostalgico, passatista, conservatore. E qualcosa che a studiare le sue interviste emerge come un'ossessione per lo scorrere del tempo. Prima, qualsiasi cosa era meglio. Di continuo aggira le date, fingendo autoironia, e fa riferimenti alla propria età.
Spesso maneggia il moralismo e dà bacchettate. Mostra compassione verso i giovani d'oggi, che vivono il mondo di oggi. A differenza di quello in cui è cresciuto lui, il calcio di oggi non permette agli allenatori di usare “fantasia e simpatia” in assenza di fuoriclasse. Se la prende con internet che rende meno autentiche le amicizie. Poi però aggiunge che il calcio gli ha fatto perdere rapporti, a forza di spostarsi per lavoro, e che la sua migliore amica è la moglie.
“Un'oasi di intelligenza” la definisce, Luciana, che ha sposato l'anno scorso. Sembra riferirsi a lei, Ventura, quando riconosce che negli ultimi anni è scattato qualcosa, ha cambiato linea: “Sono diventato vero con me stesso e nei rapporti”. Pare che la retorica della verità, della sincerità, debba impastare ogni complimento, ogni motivo di gioia.
È per Luciana che oggi Ventura vive a Bari, ma il legame con la città va oltre. Affonda le radici nel biennio che lo vide guidare il club fino al decimo posto in A, record nella storia biancorossa. Un legame che ha preso la forma delle chiavi cittadine, nonostante i due anni gloriosi (doppia promozione, dalla C alla A) con i rivali del Lecce.
Magari l'immagine del nonno leale e simpatico, che brontola solo perché è genuino, non ci fa vedere bene. Getta una luce troppo forte per poterci lasciar intravedere le sfumature, le contraddizioni, non ci fa capire davvero.
Magari è mosso da passioni tristi.
Di recente spiegava che Lippi è stato solo un selezionatore, avendo la possibilità di gestire campioni, a differenza sua. In un'intervista del 2015 Ventura ne aveva per chiunque, basta che fosse un tecnico vincente: Ancelotti faticherebbe a salvare una squadra di media classifica, Mourinho come insegnante di calcio ne ha moltissimi davanti, Allegri ha avuto la fortuna di essere libero quando la Juve si è trovata senza allenatore.
Magari è machismo vecchio stampo.
Chiama “partita” il rapporto sessuale, uno dei quali gli fece venir voglia di piangere il giorno dopo perché “lei era inguardabile”. Dice che ci sono sempre di mezzo le donne, quando si rompe un'amicizia.
Parla dei suoi anni giovani in questi termini: “Il Covo di Santa Margherita e il Nautilus di Varazze erano, con rispetto parlando, il nostro Sacro Graal. E se avevi sette fidanzate, una per ogni giorno, peggio per quella del sabato sera: di sicuro stava a casa, perché si andava a cercare l’ottava, quando non era l’ottava a cercare te”.
Magari si piange e si parla addosso.
Sostiene che è circondato da pregiudizi. Sostiene che dalle parti di Giarre sono convinti che la sua squadra sia stata la migliore di sempre, e “a Venezia, Lecce, Cagliari e Bari è andata nello stesso modo”. Sostiene che incitasse i suoi giocatori col: “Se vogliamo, possiamo” molto prima che comparisse lo Yes We Can di Obama.
Non ha avuto la stima che meritava, non ha avuto le possibilità di altri (più furbi, è il sottotesto). Mette avanti spesso l'idea che lui sia “vero” (in un mondo fasullo, è il sottotesto). Come quando spiegava, prima della nomina a Ct naturalmente, come immaginasse la propria “rivincita: avere una squadra altamente competitiva e dimostrare se sono vero oppure no”. E poi affonda con gli ostacoli esterni e quelli di essere, appunto, vero: “Quando ho iniziato andavano di moda i saggi. Ora che potrei essere considerato un saggio, vanno di moda i giovani. Questa è sfortuna. Ma ci sono anche delle colpe. Ho pensato che fosse più importante essere che apparire: mi sbagliavo”.
Ventura è simpatico perché imita Belotti con la cresta da gallo.
“Abbiamo ricreato un'immagine” dice. Sta parlando del Torino, dell'ascesa granata, dalla B all'Europa in pochi anni.
Ciò che sembra toccare le corde profonde di Ventura è la credibilità. Quella mancata e quella raggiunta. Lui descrive così il momento forse più alto vissuto sulla panchina del Toro, la notte di Bilbao nei Sedicesimi di Europa League: “I tifosi credevano che avessimo la possibilità di vincere. E questo ha significato tanto per me”.
Forse Ventura è andato a caccia di credibilità per tutti i suoi anni nel mondo del calcio. Girando per l'Italia, nella geografia e nei livelli di campionato. Forse ricreare un'immagine valeva anche per lui, oltre che per il Toro: forse la sua immagine, così vera, tutto sommato non gli piaceva.
Sembra preferire farsi rimpiangere, che sopravvivere attraverso altri, quando con un certo compiacimento dice: “Molti si ispirano, ma non ho discepoli”.
Cosa succederà dopo, al momento di ritirarsi dopo tutto questo tempo? Di solito le persone che soffrono particolarmente il tempo fanno fatica a scendere dal palcoscenico. Eppure lui non ha dubbi, delinea un orizzonte già lì ad aspettarlo: “Sono sicuro che ci sarà una lotta per avermi come opinionista in tv. Tutti sanno che dico sempre quello che penso, senza filtri”.