«Non so, quando si spegnerà la luce, cosa ci sarà dall’altra parte. In un certo senso, sono quasi eccitato all’idea di poterlo scoprire»
Gianluca Vialli
Alessandro Cattelan è seduto sulla panchina di un campo da golf. Se non si trovasse in quel preciso contesto, dove qualche slancio coraggioso nel look è ammesso a patto di rispettare determinati canoni estetici, diremmo che è oggettivamente vestito male, ma su un campo da golf sembra semplicemente eccentrico. Al suo fianco c’è Gianluca Vialli che parla di un tema che solitamente non viene affrontato con questa serenità, con questa lucidità sorprendente. Non solo dibatte quasi con il sorriso sulle labbra del cancro al pancreas che lo ha colto di sorpresa nel bel mezzo della sua terza carriera, quella televisiva, ma lo fa da una prospettiva che mi lacera. Parla del suo essere padre con una data di scadenza ben precisa, degli oneri che questo comporta, del modo di fronteggiare una situazione del genere.
In queste ore in cui i profili del Vialli calciatore si susseguono, non può essere trascurato tutto un altro mondo, quello del Vialli fuori dal calcio giocato e allenato. Era stato un precursore tra i suoi ex colleghi, rifiutando le pressioni originate dalla panchina per dirigersi verso la televisione. Quando ancora veniva accostato a incarichi altisonanti (Juventus, Nazionale italiana), aveva preferito, con uno slancio spiazzante, di tenersi lontano da quelle pressioni: c’è un Vialli conosciuto, presente per i posticipi e negli studi di commento, e uno destinato a una nicchia, quella composta dagli appassionati de Lo Sciagurato Egidio, folgorante programma ideato dal genio garbato di Giorgio Porrà, con Gianluca destinato a prendere per mano gli spettatori alla scoperta di alcuni testi fondamentali della letteratura sportiva italiana, europea, sudamericana. Ma dopo una dozzina di anni passati a essere uno dei volti di riferimento di Sky Sport, era arrivato il compagno di viaggio meno auspicabile. Come spesso accade, la malattia cancella le rivalità, nasconde l’astio che Vialli poteva avere attirato nei suoi anni da centravanti meraviglioso, emblema di tenacia, trascinatore di gruppi vincenti con l’esempio e l’abnegazione. Il modo in cui ha affrontato pubblicamente il tema della malattia si discosta enormemente dal giocatore che è stato. Di colpo abbiamo scoperto il Vialli che non ha vergogna di piangere, di ammettere di avere quasi apprezzato, o almeno accettato, quel male che l’ha portato all’epilogo prematuro della sua esistenza.
Forte di un background culturale diverso da quello di tanti altri calciatori, Luca affida a un libro, e non a un comunicato o a una conferenza stampa, l’ammissione del percorso di superamento del cancro al pancreas. È il novembre del 2018 quando Mondadori dà alle stampe Goals – 98 storie più una per affrontare le sfide più difficili. Sono 98 racconti motivazionali, pensati come piccole pillole di ottimismo da mandare giù nei momenti più disparati di una giornata, e solo alla fine si arriva alla storia autobiografica. Vialli ripercorre i momenti della paura, del dolore e dell’arrivo alla diagnosi con una naturalezza e una dolcezza che lasciano sgomenti. Per mesi aveva cercato di nascondere ciò che stava diventando evidente, presentandosi negli studi di Sky con un maglione sotto alla camicia per non mostrare l’evidente calo di peso in corso. Nel racconto spiega tutti i passaggi che lo hanno visto protagonista, il gelo provato alla conferma della diagnosi. Riesce a inserire tutti gli angoli di un momento così difficile.
Dimentichiamoci del calciatore, dell’allenatore, del personaggio televisivo: sono pagine in cui c’è il Vialli marito, il Vialli figlio, il Vialli padre. In quello che leggiamo finiamo per riflettere ciò che siamo, quello che proviamo, quello di cui abbiamo un sacro timore. Quando scrive della decisione di non comunicare alle figlie subito, nel mese di novembre, ciò che sta accadendo, sento il cuore che mi va in mille pezzi. Glielo confessa solamente nel giorno di Santo Stefano, che a casa di Vialli, già da qualche anno, si chiama Boxing Day, perché Londra è stata la città che gli ha restituito una normalità che pensava persa nel momento dell’addio alla sua Cremona: la libertà di poter girare per le strade londinesi senza essere mai fermato per una foto o per un autografo, la felicità di perdersi nei corridoi di un supermercato potendo scegliere per mezz’ora cosa comprare e cosa lasciare sugli scaffali, senza dover fare tutto di fretta. Ed è stata anche la città che gli ha concesso di costruire una famiglia: l’incontro con Cathryn, una ex modella divenuta arredatrice, stupita dal fatto che Gianluca non avesse tentato di baciarla già nella sera del primo appuntamento, quasi a rompere un cliché che vuole gli italiani come inguaribili latin lover. «Non mi sentivo pronto», disse poi, con un naturale timore da prima volta verso quella che diventerà la madre delle sue due figlie, Olivia e Sofia. Il matrimonio era arrivato alle soglie dei quarant’anni e forse anche per questa apprezzata unità familiare Vialli si era tirato fuori dall’agone: scoprendosi agitato, nervoso e invecchiato come mai si era visto prima, aveva pensato che fosse meglio lasciare le panchine a qualcun altro.
Vialli scrive che lo dice alle figlie quando in casa «c’è ancora l’odore della carta da pacchi strappata», il Natale che diventa spartiacque di un prima e di un dopo. Torno per un attimo a quell’intervista con Cattelan, che ha fatto discutere soprattutto per un passaggio che riprenderò a breve, perché è un flusso di coscienza che non ha paura nemmeno di affrontare il racconto della scelta, combattuta, di raccontare tutto alle figlie: «Se racconti delle bugie, non le proteggi. Il giorno in cui lo scopriranno, penseranno che non ti fidi di loro. E se tu non ti fidi di loro, come faranno loro a fidarsi di te?». A quel punto Cattelan si addentra in un tema serissimo andando dritto per la sua strada. Anche se quello che dice si scontra palesemente con il modo in cui è vestito, affronta uno spigolo di questa vicenda che immagino abbia scosso tutti i padri che nel mondo hanno seguito questa intervista: il succo del discorso è che chi sostiene che sia più auspicabile morire di colpo, nel sonno, rispetto alla prospettiva di una fine più dilatata nel tempo, lo fa perché non ha affetti così grandi. «Mi sembrerebbe un tradimento enorme», dice, e Vialli annuisce convinto. Qui era nato il dibattito, perché Luca alza l’asticella: «Credo che sia un privilegio sapere che c’è una scadenza, ti permette di avere il tempo di fare tutte le cose che non avresti fatto andando via all’improvviso. La malattia non è esclusivamente sofferenza, ci sono dei momenti bellissimi. Non ti dico che arrivo al punto di essere grato nei confronti del cancro, ma non la considero una battaglia: se mi mettessi a fare una battaglia, ne uscirei distrutto».
Il modo di raccontare il proprio dolore è estremamente dibattuto. Negli ultimi anni, si è affrontato forse troppo spesso il tema della malattia con toni dal sapore bellico. Con il suo modo di lasciare questa Terra, Vialli ha lanciato un messaggio per tutti quelli che invece non se la sentono di dover necessariamente fare a pugni con qualcosa di così tanto più grande. Esiste indubbiamente un aspetto positivo anche nel racconto della battaglia: chi ha avuto paura di lasciarsi andare può avere trovato spunto motivazionale dalla versione opposta a quella di Vialli, anche perché di fronte a qualcosa di così difficile ogni stimolo è utile e necessario per darsi un motivo per andare avanti. Ma la lezione di Vialli è stata un’altra ed è andata in una direzione totalmente diversa. Non è vero che ce la fa soltanto chi è più forte, perché la battaglia è per sua natura impari, ed è decisa da componenti che non hanno necessariamente a che vedere con la forza di chi la affronta. Quello di Vialli, in questi anni, è stato un elogio della debolezza, della paura di non farcela, della necessità di ricreare attorno a sé un clima il più possibile sereno. L’importanza di cogliere quel poco di buono che si può trovare in una tragedia così devastante.
Grazie a questo tipo di approccio, al realismo di chi ha il coraggio di esporsi raccontando i propri momenti difficili ma senza mai dimenticare che il cancro è un ospite fin troppo propenso al ritorno, si è tolto le ultime soddisfazioni di una vita irripetibile. Quando il male glielo ha permesso, si è rimesso i pantaloni della tuta e ha accompagnato l’amico di sempre, Roberto Mancini, nell’avventura dell’Europeo. Per mesi, quando si sentivano al telefono, hanno scelto di non parlare di quello che stava accadendo a Gianluca: troppo forte l’urgenza di non volerci pensare, di trovare un piccolo rifugio dalla complessa routine fatta di tutt’altro. E così come era stato l’angolo di spensieratezza, il Mancio era diventato l’occasione per regalarsi un’esperienza collettiva come ai tempi in cui, con la Sampdoria, erano andati a un passo dal prendersi l’Europa. Alla fine se la sono presa insieme, su quello stesso campo che li aveva respinti 29 anni prima, lasciandosi andare a un abbraccio privo di sovrastrutture: la potenza di due uomini in lacrime, la serenità di sapere che non c’è niente di male nel piangere in mondovisione. Erano lacrime di gioia e tristezza, di passato e futuro, di cicatrici vere e metaforiche. Per quella squadra, Vialli è stato un padre saggio, la colonna alla quale appoggiarsi nei momenti in cui serviva la parola giusta. «Gianluca ci ha dimostrato ogni giorno come si deve vivere, come ci si deve comportare», ha detto di lui Alessandro Florenzi mentre tutta l’Italia festeggiava l’inattesa vittoria dell’Europeo.
Ora che la luce si è spenta, e che tutti stanno cercando di tenerla accesa ricordando i momenti in cui Vialli era sotto i riflettori, ricordiamoci anche dell'uomo seduto su una panchina di un campo da golf che parla delle difficoltà di essere malato, della sfida che rappresenta dirlo alle proprie figlie, della nobiltà delle lacrime spese davanti alla propria famiglia e della volontà di non nasconderle. Di Vialli che parla della morte come se fosse la cosa più normale del mondo. Perché in fin dei conti lo è.