Ho incontrato Gianni Clerici tre volte e mezza, tutte nel 2013 nel corso di vari tornei di tennis. La mezza volta è stata a Wimbledon, l'ho incrociato alla reception della sala stampa mentre ritirava il suo accredito con fare gioviale e una parlata inglese dal forte accento italiano ma dal vocabolario ineccepibile. Clerici parlava l'inglese come uno strumento, come si usa una racchetta, con sicurezza e modestia. Come ha fatto nel suo discorso in occasione del suo inserimento nella International Tennis Hall of Fame nel 2006, ma solo dopo un incipit in latino: "Non plus ultra gentes ave, veni ut premium recipie", annuncia Clerici vestito con una giacca color crema sotto il sole di Newport. Poi ironizza sulla sua scelta di fare un discorso in latino e sulla perplessità che scorge nell'uditorio, gremito di eccellenza tennistica.
Sorta di aristocratico troll ante litteram Clerici, sempre pronto alla provocazione e alla dissonanza, forte della sua eleganza naturale. Prosegue nel discorso e racconta di un amico che si era chiesto come mai avesse ricevuto quell'onore, dato che solo un suo libro era stato tradotto in inglese. La risposta di Clerici è una punchline, che il pubblico non coglie, dato che non ride: «Forse se gli altri 15 fossero stati tradotti non mi avrebbero più incluso». Poi la chiusura: «Se mi trovo di fronte a questo incredibile gruppo di autentici campioni è forse perché io posso rappresentare i perdenti, perché senza perdenti non esisterebbero vincitori».
La prima volta che l'ho incontrato è stata a Melbourne, durante gli Australian Open. Mi avvicino emozionato e gli chiedo di intervistarlo, lui declina cortesemente e mi concede una chiacchierata, che facciamo nella stanza delle macchinette del caffè accanto alla sala stampa. Mi parla dell'appiattimento del tennis contemporaneo, della scomparsa dei gesti antichi e del problema delle racchette moderne, quelle che in un articolo aveva definito «padelle supersoniche, che hanno consentito ad un gioco di divenire uno sport». Poi non so come passiamo alla letteratura e si mette a elogiare Evelyn Waugh, da sempre una sua passione. Io per puro caso stavo leggendo Una manciata di polvere proprio in quei giorni e glielo comunico con trasporto, vagheggiando un riconoscimento di affinità. Clerici non appare colpito dalla coincidenza, ma quando gli racconto gli articoli che sto scrivendo dal torneo si segna con cura su un pezzo di carta il mio nome e il sito su cui pubblico.
La seconda volta siamo seduti vicini nella tribuna stampa del Centrale del Roland Garros, tira un vento molto forte e ci chiediamo l'effetto che farà sulla partita che deve cominciare. Lui mi racconta di qualche torneo affacciato sul canale della Manica in cui una volta non giocarono per la tormenta che spazzava i campi. La terza volta, l'ultima, sono a Londra a tavola con lui, Rino Tommasi e vari giovani giornalisti nella pausa tra un incontro e l'altro delle ATP Finals, il torneo di fine anno dei migliori otto giocatori del mondo. Durante la cena non dico una parola, guardo il piatto o sorrido educatamente mentre le nuove leve vezzeggiano i decani del tennis con una confidenza e un'informalità che invidio e al tempo stesso rifiuto.
L'anno prima dei miei incontri con Clerici, Francesco Pacifico mi dice che stava andando a intervistarlo, e io gli chiedo di portare con sé la mia copia di Divina, la sua biografia di Suzanne Lenglen. Me la riporta con la dedica sperata: "Roma, Maggio 2012. A Fabio, ammiratore, come me, di Federer." Quell'inciso, quel "come me" tra due virgole, mi ha sempre colpito: ammirare Federer, il tennista più popolare al mondo, in fondo è una banalità. Eppure scandita da quelle virgole diventava una cosa speciale, si collegava alla vita di Clerici come giocatore, scrittore, cronista di tennis: rimandava al suo aver visto Federer dai primi giorni della sua carriera, all'averlo subito eletto erede di Pete Sampras, ultimo interprete di un tennis a tutto campo, fatto di gesti belli e complessi fatti con racchette che ancora non erano le famigerate padelle supersoniche.
D'altronde Clerici ha sempre cercato di disegnare immagini usando le parole, sapendo che il vero spiegare è il descrivere, che non esistono astrazioni e formule vincenti e che le parole vivono del legame che si crea tra di loro, e non del potere totemico di singoli concetti o vocaboli. In un articolo del 1956 racconta la finale maschile degli Internazionali d'Italia tra l'australiano Lewis Hoad e lo svedese Sven Davidson. Hoad, tennista molto aggressivo e potente, per Clerici è «inespressivo come il radiatore di una macchina lanciata a distruggere dei bambini». La partita gira presto a favore di Hoad, che avanza «come un uragano, soffiando col vento di sud-est che incollava le bandiere al cielo come francobolli colorati». Per illustrare la graduale resa di Davidson, Clerici lo descrive attaccato alla racchetta «come un naufrago che si limitava a non annegare». Poi conclude celebrando il trionfo indisturbato di Hoad, che ormai ha assunto le sembianze di un gigante: «Hoad continuava a scagliare fulmini dalla racchetta lucente di sole, e prima di servire, guardava con invidia il nastro d'aria bianca che un reattore più veloce della sua palla disegnava in cielo. Alla fine scagliò in aria una palla altissima, che diventò una goccia bianca, per sfidare gli dèi, Che soli possono competere con lui».
La scrittura di Clerici non ha lasciato in eredità una scuola, o uno stile. Nel giornalismo sportivo è sempre stato percepito come un'eccezione, ma è sbagliato pensare che la sua unicità sia da ascrivere al genio, al talento, all'eccezionalità. Ci sarebbe piuttosto da capire perché molte altre penne non si siano concesse la libertà delle metafore e del lessico che hanno disegnato le sue storie sportive. Paolo Bertolucci, eccellenza della storia tennistica italiana, subito dopo l'annuncio della morte di Clerici ha scritto: «Non ci siamo mai amati, abbiamo avuto idee diverse su molte cose ma il rispetto e la considerazione sono sempre stati al primo posto nei nostri rapporti. Ciao vecchio scriba. Ciao Gianni». Chissà quali divergenze avranno avuto, quali idee così diverse hanno spinto Bertolucci a cominciare un messaggio di saluto con un «Non ci siamo mai amati». Sarà forse l'irriverenza vellutata dello scriba Clerici, sarà il suo non essere stato mai allineato, per scelta, per possibilità, o vocazione. «È soddisfatto della vita che ha fatto?», gli aveva chiesto Francesco Pacifico nella sua intervista di dieci anni fa, poco prima di porgergli la mia copia del suo libro da firmare. «Oh, be’, io sono un ricco che ha vissuto felicemente giocando a tennis. Faccio il giornalismo non per brama di denaro ma perché mi diverte andare in giro a vedere qualche torneo. Adesso faccio solo il tennis, ma ho fatto tutti gli sport. Una volta facevo tutto».
Ma non serve essere ricchi per voler fare i giornalisti "non per brama di denaro" ma per voler viaggiare da un torneo di tennis all'altro. Non serve essere aristocratici per descrivere l'erba di Wimbledon come "un prato malconcio", raccontare di colpi "scentrati", di game "smarriti", di avversari "scatenati" oppure "non domi"; scrivere "riapparigliare" invece di un banale "pareggiare", o "raggiungere sul pari", chiamare un telecronista sopra le righe un "bauscia" e i giornalisti "addetti ai lavori", raccontare di "piovaschi" che interrompono le partite e di risultati certi su cui varrebbe la pena di "puntare una somma". Sono tutte parole che sanno di Gianni Clerici così tanto da far esitare chi le voglia usare, e vengono tutte da un solo articolo di neanche tremila battute, del 2004. Raccontano il divertimento e il piacere di scrivere da cui sono venute fuori: si tratta forse di cercarne altre per non usare le sue, ma continuando sempre a descrivere, a disegnare con le parole, senza fare morali o lezioni.