E dire che se non ci fosse stato Sofoklis Schortsanitis tutto questo oggi forse non ci sarebbe stato.
Nel lontano settembre del 2006 a Giannis Antetokounmpo non piaceva la pallacanestro: come ha detto nel podcast “The Giannis Draft” di ESPN, era un appassionato di calcio e sognava di diventare il nuovo Thierry Henry. Poi, come tutta la Grecia, si è messo davanti al piccolo televisore che suo padre si era orgogliosamente procurato lavorando duramente per seguire la semifinale dei Mondiali di pallacanestro tra la sua nazionale e gli Stati Uniti nella quale già giocavano LeBron James, Carmelo Anthony, Dwyane Wade e un giovane Chris Paul. Come ben sappiamo, la Grecia vinse quella partita con 14 punti in 17 minuti di “Baby Shaq”, al tempo 21enne, eroe per una notte nella quale segnò 6 dei 7 tiri tentati contro gli USA portando a scuola Elton Brand, Dwight Howard e Chris Bosh nei pressi del canestro usando tutti i suoi 130 e passa chili.
Fu quella sera che il 12enne Giannis Antetokounmpo capì che la pallacanestro poteva fare al caso suo e della sua famiglia. Non perché si fosse innamorato di quello sport — anzi, in più occasioni ha ripetuto che il basket non gli piaceva e che non ha cominciato a giocarci seriamente fino ai 15 anni —, ma perché per la prima volta aveva visto un greco di colore che poteva diventare un atleta professionista e dominare a livello mondiale con la maglia della nazionale di un paese del quale non aveva nemmeno dei documenti ufficiali. «Quello è stato il primo momento in cui ho pensato che io e i miei fratelli, figli di immigrati, saremmo potuti diventare atleti professionisti in Grecia. Ci ha dato speranza» ha detto nel podcast.
Quindici anni dopo, Giannis Antetokounmpo si accovaccia a terra nei pressi del canestro e si siede su una delle costosissime sedie appena lasciate libere dai facoltosi tifosi che le avevano occupate fino a quel momento, già riversatisi in campo per festeggiare il titolo appena vinto dopo 50 anni l’ultima volta dai Milwaukee Bucks. Antetokounmpo ha appena abbracciato tutti i membri presenti della sua famiglia, e si concede finalmente un momento per sé. Ha gli occhi pieni di lacrime, le gambe troppo lunghe per stare seduto comodo, nella testa mille pensieri. Chissà se tra quelli c’era anche il giorno in cui ha capito che sarebbe potuto diventare un giocatore di basket guardando Schortsanitis distruggere Team USA.
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La maturità di Giannis davanti ai microfoni
Della storia di Antetokounmpo si è letto e scritto molto, e presto si potrà anche vedere un film sui nostri schermi visto che i diritti per il biopic “Greek Freak” sono già stati venduti alla Disney da un paio di anni. Ma ancor più interessante è seguire come lui stesso ne ha parlato in questi giorni in cui i riflettori del mondo sono stati puntati su di lui. E nel momento di massima esposizione della sua carriera, Giannis Antetokounmpo ci ha mostrato un lato del suo carattere che forse non è stato valorizzato abbastanza, inanellando una serie di conferenze stampa una più rivelatoria dell’altra. Siamo abituati a celebrare Giannis per le sue imprese in campo, per i suoi voli sopra il ferro e per la sua presenza ineluttabile in difesa, ma è davanti ai microfoni che ha mostrato quanto è cresciuto e quanto è maturato come persona.
https://twitter.com/giannis_an34/status/425376868334727168
Se pensiamo che appena 7 anni fa scriveva su Twitter “DIO BENEDICA L’AMERICA” dopo aver assaggiato il suo primo smoothie, di strada ne ha fatta davvero tanta. Eppure in qualche modo è sempre rimasto quello stesso ragazzo lì.
Il racconto delle sue finali non può che partire dallo spavento provato da tutti quando è ricaduto male sul ginocchio sinistro in gara-4 delle finali di conference contro gli Atlanta Hawks. Un giocatore normale con ogni probabilità avrebbe visto il suo ginocchio andare in mille frantumi; lui stesso ha ammesso — con un candore raro per quel livello di giocatore, specie dopo una gara-1 delle Finals — che pensava di dover rimanere fuori per un anno intero, temendo una lesione del legamento crociato anteriore. Invece il lavoro fisico fatto per rinforzare ogni parte del suo corpo gli ha permesso di sostenere anche quel tipo di distorsione, perché è vero che Antetokounmpo ha delle doti fisiche eccezionali (non si viene soprannominati “Freak” per caso), ma se è diventato quello che è diventato è perché ha lavorato come un pazzo sul suo fisico e non ha lasciato nulla al caso, spremendo ogni singola goccia di quello che gli è stato donato.
Ma oltre alla sincerità, Giannis ha anche mostrato una padronanza della conversazione e della sala da attore consumato, pur ammettendo lui stesso che non ama parlare con i media. Alla vigilia di gara-3, dopo che i suoi Bucks avevano perso le prime due partite della serie e lui era stato lasciato solo dai compagni, incapaci di accompagnare il suo sforzo da 42 punti in gara-2, alla prima domanda della conferenza stampa ha risposto «I’m just here not to get fined», citando il leggendario Marshawn Lynch. Un modo per stemperare la tensione con una battuta (stava ridendo prima ancora che la giornalista finisse la sua domanda, come un bambino che non vede l’ora di fare la sua marachella), mostrando una padronanza strepitosa della cultura pop americana, un aspetto non scontato per un ragazzo nato e cresciuto lontanissimo dagli States ma che ora sembra più americano dei nuggets di pollo da Chick-Fil-A.
Per quanto è stato feroce in campo ogni volta che ne ha avuto l’opportunità, Antetokounmpo ha continuato a mostrare un atteggiamento leggero davanti ai media inanellando una serie di dichiarazioni ispirate dietro l’altra, peraltro con un uso non banale dell’inglese per un non-anglofono. Quando gli è stato chiesto perché sia in gara-3 che in gara-4 era uscito dopo pochi minuti dal campo, con una battuta sul dover «andare a fare un goccio» è riuscito a spegnere sul nascere quella che poteva diventare una distrazione per la sua squadra, nonché un potenziale pericolo (ogni secondo fuori dal campo di Giannis poteva coincidere con un parziale decisivo dei Suns). Ma allo stesso modo è stato anche estremamente lucido nel descrivere tatticamente come è riuscito a superare il “muro” che gli avversari alzano contro di lui ogni volta che prova a penetrare a canestro, provocando le due più cocenti sconfitte della sua carriera contro Toronto nel 2019 e contro Miami nel 2020. Giannis ha ammesso di “odiare” il muro, ma anche di aver dovuto smettere di prenderla sul personale e di cercare di fare tutto da solo per dimostrare di poterlo abbattere, cominciando a fidarsi di più dei suoi compagni.
Per Antetokounmpo sarebbe stato facile dare solo risposte difensive, cercare di finire le conferenze stampa il prima possibile e concentrarsi solo sul discreto impegno di dover vincere le prime Finals della sua carriera. Invece ha parlato di tutto, ammettendo di trovare divertenti i roboanti conteggi del pubblico avversario che lo hanno accompagnato in lunetta quando giocava fuori casa dalla serie contro Miami in poi («Certo che me ne accorgo, ci sono 20.000 persone che gridano! Ma bisogna trovare il lato divertente in ogni cosa»). Ha descritto la sua stoppata su Deandre Ayton in gara-4 dicendo «pensavo che mi schiacciasse in testa». Ha trovato anche il tempo di regalarci una perla filosofica rara: «Quando ti concentri sul tuo passato, è il tuo ego che parla. Quando ti concentri sul futuro, è l’orgoglio. Io provo a rimanere nel presente, perché quella è umiltà», una frase che rimarrà probabilmente come una delle più ispirate della sua carriera, nonché una delle più memorabili delle Finals in epoca recente.
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Giannis, superstar a modo suo
Ma Giannis ha anche aggirato in maniera sapiente ogni ostacolo che si è trovato davanti, slalomeggiando tra le insidie come fa con il suo Euro-Step quando arriva in area. È da quando è diventato uno dei volti più riconoscibili della NBA che il resto delle superstar non lo ha accolto proprio in maniera entusiastica, a partire da James Harden con cui ha un ben documentato rapporto di conflittualità. Il giornalista di ESPN Tim MacMahon ha scritto di come privatamente numerosi giocatori NBA critichino il gioco “senza skills” di Giannis, incapace di avere un set di palleggi variegato (il fatto che non avesse un “bagaglio” di mosse si è letto numerose volte sui social dopo ogni sconfitta dei suoi playoff) e soprattutto il suo scarso tocco al tiro, in particolare ai liberi. Rudy Gobert, uno dei pochi che lo ha sempre “sostenuto” sui social, ha notato come CJ McCollum dopo gara-5 avesse chiesto voti per l’MVP delle Finals per Khris Middleton, mentre era chiaro a tutti che in ogni caso il premio di miglior giocatore delle finali dovesse andare ad Antetokounmpo. Insomma, c’è sempre un motivo per screditare quanto fatto da Giannis, come se non appartenesse a quella fratellanza di eletti.
Anche durante la serie la sensazione è che i “mammasantissima” della NBA fossero apertamente schierati dalla parte dei Suns di Chris Paul (il capo dell’associazione giocatori) e di Devin Booker (forse il singolo giocatore più amato dai suoi colleghi in tutta la NBA). E non solo perché Dwyane Wade e LeBron James si sono presentati a bordo campo per sostenere il loro amico CP3, ma anche perché nessuno prima della sirena finale di gara-6 si era esposto per celebrare quanto stava facendo Antetokounmpo in campo. E dire che tra la stoppata in chase-down di gara-1, gli 83 punti realizzati tra gara-2 e gara-3, la stoppata su Ayton di gara-4, l’alley oop con cui ha chiuso gara-5 e ovviamente i 50 punti di gara-6 non sono di certo mancate le occasioni — anzi, mettendole tutte assieme abbiamo una delle serie finali migliori di tutti i tempi al termine di una cavalcata playoff tra le migliori di tutti i tempi, senza troppe discussioni.
Giannis avrebbe potuto prendere con fastidio il fatto che LeBron si fosse presentato a bordo campo con una bottiglia di tequila sotto alla sedia per tifare per Paul, invece dopo gara-5 ha aggirato la domanda tessendo le lodi di James («La prima volta che lui era alle Finals io non giocavo neanche a pallacanestro, è pazzesco») e lisciandogli il pelo dicendo che prima di gara-5 aveva guardato Space Jam 2 («E poi la sera dopo me lo sono trovato davanti in carne ed ossa, incredibile»). Rispetto a LeBron ma anche a tante altre superstar della lega cresciute nel circuito AAU e abituate a “unire le forze” per provare a vincere, Giannis Antetokounmpo ha sempre cercato di seguire la sua strada. «Non avrei mai potuto lasciare Milwaukee: sapevo che c’era un lavoro che andava portato a termine» ha detto in maniera rivelatoria dopo la vittoria del titolo, tracciando effettivamente un solco che lo divide dal resto della lega. «È il mio lato testardo: sarebbe stato facile per me andare da un’altra parte e vincere il titolo con altri campioni. È facile: potevo andarmene in un super team, fare la mia parte e vincere il titolo NBA. Quella che ho scelto invece è la strada più complicata: volevo conquistare così il successo e ce l’abbiamo fatta. Ci siamo riusciti» ha detto abbracciando il Larry O’Brien Trophy e il Bill Russell Award. Due trofei che non ha lasciato neanche per un secondo, come testimoniato il giorno dopo quando è andato al drive-in a ordinare una scatola da 50 pezzi di pollo («Non 49 eh, neanche 51: ne voglio 50», come i punti segnati in gara-6) da Chick-Fil-A testimoniando tutto in diretta Instagram.
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La sua diretta IG è già leggenda ed è valsa alla catena di ristoranti 36 milioni di interazioni sui social. Dopo averci già provato con i dipendenti di Milwaukee, Giannis si è esposto anche su Twitter: “Adesso mi regalate pollo gratis a vita?”
La rivincita di Antetokounmpo, serie per serie
Dopo anni a sentirsi dire che il resto della lega si stava preparando per il suo “inevitabile” addio a Milwaukee, Antetokounmpo ha avuto la pazienza di aspettare e la fiducia nelle possibilità della dirigenza dei Bucks di costruirgli attorno una squadra da titolo. Certo, che le stelle dei Nets non si fossero fatte male o se Kevin Durant non giocasse con le scarpe più grandi di un numero rispetto alle dimensioni mostruose dei suoi piedi oggi forse staremmo parlando di un’altra storia, ma nessuna squadra si sceglie i propri avversari ai playoff e può solo battere quelli che si trova davanti. Antetokounmpo si è fidato dei Bucks, ha permesso alla dirigenza di muoversi sul mercato con la convinzione che avrebbe firmato la sua estensione di contratto e ha anche accettato senza fiatare il pasticciaccio brutto combinato con Bogdan Bogdanovic, un giocatore che lui aveva indicato come uno dei suoi preferiti per migliorare la squadra. Poi, dopo una regular season in cui hanno fatto delle lunghe prove generali in vista dei playoff anche a costo di lasciare diverse partite per strada, è passato all’incasso con dei playoff straordinari.
Al primo turno ha spazzato via con un netto 4-0 i Miami Heat, che lo scorso anno nella bolla gli avevano inferto un’eliminazione dolorosissima (in una serie che non ha concluso in campo per via di un infortunio alla caviglia) e che per anni hanno gestito il loro salary cap per farsi trovare pronti nel caso in cui avesse deciso di andarsene, mettendolo al fianco di Jimmy Butler e di Bam Adebayo. Antetokounmpo invece non ha mai ascoltato le loro proposte e alla prima occasione li ha distrutti, prendendosi la rivincita per la serie dello scorso anno.
Al secondo turno è andato in difficoltà, come tutti i suoi compagni, contro il talento dei Nets, che pur dovendo fare a meno di James Harden erano riusciti ad andare agevolmente sul 2-0 nella serie con un -39 in gara-2 che sembrava aver messo una pietra tombale sulle speranze di titolo di Milwaukee. Quella di partire male è stata una costante dei Bucks per tutti i playoff: l’unica gara-1 che non hanno perso è stata quella contro Miami, una partita conclusa all’overtime in cui in più di un’occasione sono andati vicini a essere battuti. Ma è stata anche la loro forza: possesso dopo possesso sono sempre andati migliorando, anche dovendosi sudare vittorie con le unghie e con i denti come la gara-3 contro Brooklyn (un orrendo 86-83 che sembrava uscito direttamente dagli anni ’90 in cui lui e Khris Middleton hanno segnato 68 punti in due) pur di rimanere aggrappati alle serie. E alla fine Antetokounmpo ha avuto la meglio, segnando il canestro della parità a 72 secondi dalla fine dell’overtime di gara-7 con i punti numero 39 e 40 della sua partita. Il tutto superando Durant, uno dei suoi idoli di infanzia.
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“Vai a prenderti il tuo titolo” dice Durant a Giannis dopo gara-7.
In finale di conference ha dovuto superare gli Atlanta Hawks, la squadra che più di tutte lo ha cercato, voluto e coccolato ai tempi del Draft del 2013 facendolo visitare in gran segreto la città e la practice facility, portando il suo agente a bloccare le richieste di informazioni per il suo assistito pur di farlo arrivare alla 17. Invece i Bucks, pur senza aver mai visto le sue cartelle cliniche (aneddoto: quando era ancora in Grecia era talmente malnutrito da avere il fegato di un 70enne alcolizzato, lui che in vita sua non ha mai toccato alcool o sigarette), decisero di usare la scelta numero 15 al Draft, anche se neppure loro si sarebbero mai immaginati di avere tra le mani un due volte MVP della lega.
I Bucks hanno vinto un bel pezzo del loro titolo quando sono riusciti a battere gli Hawks per due volte senza poter schierare Antetokounmpo, dimostrando di avere abbastanza armi per potersela cavare (pur contro una squadra priva del miglior Trae Young) anche nelle situazioni più difficili. Magari un avversario più preparato di Atlanta avrebbe potuti metterli in seria difficoltà — cosa sarebbe successo contro dei Philadelphia 76ers con tutte le sinapsi accese? —, ma Milwaukee ha sempre trovato il modo di superare chi si è trovato davanti, indipendentemente dalle circostanze. Ed è l’unica cosa che davvero conta se vuoi arrivare ad alzare il Larry O’Brien Trophy.
Un nuovo e tradizionale Antetokounmpo
Se i Bucks hanno dovuto cambiare un po’ il loro modo di attaccare e di difendere per adattarsi più alla pallacanestro dei playoff, non si può non sottolineare come Giannis abbia modificato il suo stesso gioco per essere più efficace. Dopo aver vinto due titoli di MVP come “iniziatore” dell’azione con la palla in mano, Antetokounmpo ha avuto l’umiltà di abbandonare la formula che lo aveva portato fino a quel punto dopo le due eliminazioni ai playoff contro Raptors e Heat, accettando di avere meno il pallone in mano a inizio azione e di mettersi al servizio della squadra. Come ha scritto anche Zach Lowe, Antetokounmpo ha accettato di essere meno LeBron James per diventare più Anthony Davis, un giocatore che porta blocchi e riceve in movimento piuttosto che uno che comincia l’azione.
Un cambio di paradigma sensibile per un giocatore entrato nella NBA sostanzialmente come una point guard di 2.06 tutto gambe e braccia e diventato di fatto la forza più incontenibile vista dai tempi di Shaquille O’Neal. E invece di imporre il suo ego sulla squadra, ha avuto l’intelligenza di lasciare a Middleton il pallone nei momenti più importanti e a Holiday la gestione dei pick and roll anche quando nulla sembrava funzionare, coprendo le spalle a tutti in difesa (5 stoppate nella decisiva gara-6) e abbassandosi sulle gambe per contenere i portatori di palla avversari, anche navigando su quei blocchi che spesso in passato gli avevano reso la vita difficile (e ci mancherebbe, con quelle dimensioni).
Antetokounmpo ha messo da parte il suo essere un giocatore unicornesco ed è diventato un giocatore migliore “tradizionalizzandosi”, lavorando anche lontano dalla palla per procurarsi ricezioni facili vicino a canestro e non avendo alcun timore a continuare a buttarsi verso il ferro nonostante i suoi demoni in lunetta. Alla fine ha chiuso i playoff con il 58.7% ai liberi su quasi 10 tentativi a partita, un dato inferiore alle sue (già non eccellenti) medie in carriera, ma nel momento più importante ha tirato fuori un incredibile 17/19 di pura forza mentale, quella che non gli è mai mancata anche quando i suoi tiri finiscono corti di un metro e su Twitter lo prendono in giro dicendogli che non sa giocare a pallacanestro. E se pensate che sia scontato avere il coraggio di esporsi così al pubblico ludibrio, pensate solo a quanta fatica faccia mentalmente Ben Simmons nelle partite di playoff. Bisogna essere fatti in maniera diversa per sopportare quel peso, e Antetokounmpo decisamente lo è.
Per chiudere il cerchio dei suoi playoff ha dovuto superare Chris Paul, lo stesso che dopo gara-5 ha detto «tutti si aspettavano che sbagliasse i liberi, persino lui» e che ha zittito tirando col 90% dalla lunetta in una prestazione da 50 punti per chiudere le Finals, come solo Bob Pettit prima di lui nel preistorico 1968. Lo stesso Chris Paul che era in campo quell’1 settembre del 2006 contro la Grecia di Big Sofo, quando Giannis Antetokounmpo capì che la sua strada era il basket. Pensate se non ci fosse stata quella partita, che grande storia ci saremmo persi.