La stagione dei Milwaukee Bucks non poteva chiudersi in modo peggiore. Dopo un’annata al di sopra delle aspettative, superando incidenti di percorso che potevano tranquillamente minarne il cammino—infortunio di Jabari Parker, il taglio di Larry Sanders, lo scambio Knight/Carter-Williams—, ai playoff si sono ritrovati accoppiati ai vicini di casa dei Chicago Bulls, riuscendo a riaprire una serie che sembrava chiusa sul 3-0 grazie a una reazione di orgoglio casalinga in gara-4 e un'insperata vittoria esterna nella successiva, puntando sul maggior punto debole della squadra di Thibodeau, l'incapacità di "fare la partita”.
La sesta gara doveva essere quella della consacrazione dei Bucks come Mina Vagante dei playoff: una vittoria al vecchio Bradley Center avrebbe aperto la possibilità di tornare nella Windy City per giocarsi la partita decisiva senza nulla da perdere. Invece è stata una disfatta: davanti al proprio pubblico, i ragazzi di Jason Kidd sono usciti dal campo e dalla stagione con un passivo di 54 (CINQUANTAQUATTRO!) punti, quarta peggiore sconfitta nella storia dei playoff NBA.
C'è un episodio però in quella partita che mi ha scosso più del risultato. A 1:34 dalla fine del secondo quarto, con la partita già ampiamente archiviata, visto il punteggio sul 58-28, Mike Dunleavy Jr. riceve palla in transizione, mette a posto i piedi e segna la sua quarta tripla della partita e in più subisce anche fallo. Immagino che il fallo sia stato commesso da Michael Carter-Williams, in quanto difensore più vicino a lui al momento del tiro, ma quando l'immagine televisiva si allarga lo ritrovo nel punto dove l'ho lasciato quando ho iniziato a seguire la parabola del pallone, mentre l'ala dei Bulls viene aiutato a rialzarsi dal pubblico in prima fila. È solo in quel momento che vedo Giannis Antetokounmpo allontanarsi dalla scena del crimine, ma fatico a ritenerlo colpevole: invece il replay toglie ogni dubbio—e proprio dal replay si capisce non era andato con l'intenzione di contestare il tiro, ma con quella di abbattere fisicamente Dunleavy. L’espulsione è sacrosanta. La sensazione è che il candore di Giannis sia svanito in un sol colpo.
In un certo senso, l’ennesima dimostrazione di reattività e capacità di correre il campo, solo per il motivo sbagliato.
Questo episodio inizialmente mi ha lasciato una sensazione di malessere riconducibile a un mix di delusione e sorpresa—quel tipo di sorpresa non piacevole, come se qualcuno a cui tengo particolarmente mi avesse tradito. Non mi aspettavo da lui una reazione così cattiva, non credevo fosse nella sua natura, come se la sua immagine data finora fosse una maschera di ingenuità costruita ad hoc.
Poco dopo ho realizzato con maggiore razionalità. La serie è stata una continua lotta di nervi, dove sono volati colpi proibiti da entrambe le parti e qualche parola di troppo. Niente di nuovo quando di parla di playoff, ma è chiaro che per uno non abituato a un certo tipo di gioco, il passaggio possa avere lasciato scorie notevoli. E Giannis, dopo aver avuto un assaggio da Jimmy Butler, ha subito le maniere forti di Dunleavy, che da veterano ha cercato di entrare nella testa dei giovani Bucks (vedi il trattamento riservato a Carter-Williams nella stessa partita) e all'ennesima uscita Giannis ha spento il cervello, facendo la scelta più sbagliata.
Con questo episodio Giannis ha lasciato intravedere una sfumatura dark del suo carattere, che riduce il contrasto tra l'Eterea Purezza dei suoi atteggiamenti nel suo primo anno e il timore che suscita se si pensa al giocatore che può diventare in prospettiva. A pensarci bene non è una mossa dettata dalla cattiveria, ma dalla frustrazione; una scelta non ponderata ma istintiva, selvaggia, ingenua. Perché è così: al momento Giannis Antetokounmpo è un giocatore molto ingenuo. E non potrebbe essere altrimenti.
Le origini del Freak
Potessi rubare la rubrica Preferiti della redazione calcio e riproporla in salsa cestistica, non avrei alcuna esitazione a prenderlo sotto la mia ala protettiva e sbrodolarne tutte le sue gesta sin dal momento in cui ha messo piede negli Stati Uniti, trasformandosi in un batter d'occhio in uno dei personaggi più interessanti della Lega. Non è una questione direttamente collegata al campo, di talento, di potenziale paurosamente illimitato, o di come il suo gioco rischi di cambiare la concezione classica dei ruoli—o almeno, non è solo quello.
È la parte umana di Giannis che inevitabilmente conquista: in un ambiente in cui i comportamenti, le frasi e gli atteggiamenti dei giocatori sono sempre estremamente misurati, lui ha agito con una combinazione di gioia e genuinità che ci ha spiazzati fin dal primo momento. Gli aneddoti sul suo primo anno da professionista ne tratteggiano un ritratto completo: si è esaltato per gli smoothies e per la quantità di cibo che può prendere dai buffet della squadra; si è arrabbiato con Caron Butler per la leggerezza con cui buttava un paio di scarpe («What are you doing? These good shoes!») e ha chiesto al suo amico e mentore Zaza Pachulia se c'era un modo per non pagare le tasse.
Un meraviglioso bozzolo di essere umano di 18 anni che grazie alla sua freschezza e schiettezza non riesce a vivere niente con distacco: è un libro aperto per tutti, ogni sua reazione è un’esplosione di facce, espressioni, gioia. Non fa niente per nascondere l'eccitazione di essere arrivato in un mondo, quello NBA o semplicemente quello statunitense, molto lontano rispetto a quello da cui proviene.
Giannis è cresciuto a Sepolia, sobborgo ateniese dove i genitori si sono insediati nel 1991 arrivando dalla Nigeria alla ricerca di una nuova vita e di un nuovo inizio. Un percorso burrascoso, perché nonostante i coniugi Adetokunbo facessero di tutto per abbracciare la nuova cultura, lo stato ellenico non era della stessa opinione: la condizione di immigrati irregolari non solo non gli permetteva di avere i diritti da cittadini, ma neanche di poter registrare all’anagrafe le nascite dei loro figli Athanasios (poi leggermente abbreviato in Thanasis), Giannis, Alexis e Kostas—tutti nomi di origine greca, non un caso—che per lungo periodo sono stati apolidi. Non erano riconosciuti dallo stato e non potevano prendere cittadinanza nigeriana, perché avrebbe portato all’espulsione di tutta la famiglia dalla capitale ellenica.
Per i due fratelli maggiori, Giannis e Thanasis, il basket era la via di fuga dalla realtà: quando non aiutavano i genitori a raccogliere qualche soldo facendo i venditori ambulanti per le strade di Atene, si rifugiavano nel playground di Sepolia con gli amici, con un solo paio di scarpe da dividersi tra loro due. Non c’era nient’altro: non c’erano problemi, non c’era fame, non c’era povertà. C’era solo la pallacanestro.
Ed è proprio in quel campetto che il coach Spiros Velliniatis nel 2007 lo scopre vedendolo semplicemente... correre. Ammaliato dalle caratteristiche fisiche e dalla relativa coordinazione nei movimenti, riesce a convincere tutta la famiglia a portarlo nel suo Filathlitikos, offrendo un lavoro ai due genitori. Niente di faraonico, quanto basta per sopravvivere. E questo ai coniugi Adetokunbo basta e avanza.
Alla fine della loro stagione Giannis e Thanasis sono tornati al playground di Sepolia per una partitella con i loro amici d’infanzia. Immaginiamo che il pubblico non fosse lo stesso qualche anno fa.
I due fratelli arrivano nel piccolo club greco e iniziano a lavorare costantemente, diventano quelli che in America vengono definiti gym rat: i primi a entrare in palestra e gli ultimi a uscire. Sanno di essere molto fortunati e non vogliono che questa opportunità venga loro portata via ora che l’hanno ottenuta. Sono ambiziosi, ma rimangono con i piedi per terra. Soprattutto Giannis.
Nel 2012 viene avvicinato dai dirigenti del CAI Zaragoza e strappa con loro un accordo che lo porterà a guadagnare 250mila dollari a stagione nel momento in cui si trasferirà in terra spagnola. Cosa che non succederà mai, per due motivi: le difficoltà nel mettere a posto le questioni riguardanti il suo passaporto e l’arrivo degli scout NBA nella piccola palestra dove gioca e si allena il Filathlitikos. Ci vuole poco prima che le voci riguardanti “the League” prendano il sopravvento e, con buona pace del club aragonese, quello che fino a quel momento era “il grande mistero”, viene scelto alla numero 15 dai Milwaukee Bucks nel Draft del 2013.
Il momento della scelta è significativo. Quando David Stern sale sul palco per annunciare il suo nome, si vede il sorriso malizioso di chi non sa come si pronunciarlo. Già, il cognome di Giannis non è più Adetokunbo ma Antetokounmpo, in seguito alla cittadinanza ottenuta un mese prima dal governo greco per lui e per i suoi fratelli. Quando viene chiamato, suo fratello Thanasis inizia a sventolare compulsivamente una bandiera greca gigante, in un misto di eccitazione, gioia e orgoglio. Il fratello ce l’ha fatta, lui ce la farà (nel Draft successivo verrà scelto dai Knicks al secondo giro), la famiglia intera ce l’ha fatta.
La pronuncia del nome non è un problema solo dell’ex-commissioner.
Nell’intervista immediatamente successiva alla scelta, al microfono di Craig Sager, stenta a crederci anche lui: non riesce a capire come abbia fatto ad arrivare in NBA dall’Europa, da quella piccola realtà in seconda divisione greca. Ma quando Sager gli chiede se effettuerà il salto o rimarrà ancora una stagione in Europa, non ha alcun dubbio: straight to the NBA. Ambizioso, ma con i piedi ben piantati a terra.
L’impatto con l’America è forte—il passaggio da New York, sede del Draft, piena di luci e grattacieli a Milwaukee, fredda, sorniona e pianeggiante—ma mai quanto l’impatto del mondo cestistico con Giannis, che diventa immediatamente “The Greek Freak”.
Come un videogioco
Può capitare che in una partita dei Bucks ci siano lunghi momenti di bonaccia offensiva. Lo stile di gioco di Jason Kidd è principalmente improntato sulla grande attenzione a ciò che succede nell’altra metà campo, dove le lunghe leve dei suoi giocatori devono sporcare linee di passaggio, visuali e facili conclusioni a canestro per dare la possibilità alla spiccata componente atletica della squadra di esprimersi in campo aperto. Proprio come agiva in campo, quando il coach ci deliziava con le più belle transizioni della storia del gioco dai tempo dello Showtime dei Lakers targati Magic.
Quando però la squadra deve attaccare a difesa schierata, vengono a galla i limiti tecnici dei giocatori e dell’allenatore (al secondo anno di panchina): le azioni possono allungarsi per 8, 10, 15 secondi senza costruire alcunché. In quei momenti una delle soluzioni più ricercate è un isolamento in punta per Antetokounmpo, che non è il miglior giocatore di 1 vs 1 della squadra, ma ha l’innata capacità di creare gioco dal nulla: prende palla, palleggia sul posto per qualche secondo, sceglie il lato su cui attaccare il proprio difensore, prova a cambiare direzione in corsa, incespica, sembra perdere il pallone e invece lo recupera con le sue manone e nello stesso movimento appoggia al canestro da una distanza che a un atleta quantomeno normale non riuscirebbe mai.
È la principale dimostrazione di come questo fenicottero con gambe e braccia infinite—226 centimetri di apertura alare e cresciuto di 6 centimetri dal giorno del Draft—sia dotato di un talento grezzo a cui ancora non è riuscito a prendere le misure.
Incontri ravvicinati del terzo tempo.
È impossibile capire dove può arrivare: in campo non c’è un singolo aspetto tecnico che non lasci intravedere un possibile miglioramento. È come se fosse creato alla PlayStation, con la possibilità di incrementare ogni valore in qualsiasi momento. È un pezzo di pongo da modellare a piacimento e trasformare in un’arma totale, un giocatore che ha la possibilità di diventare unico nel suo genere grazie a una naturale versatilità in un set fisico inedito. Un nuovo prototipo di all-around che supera il concetto dei ruoli predefiniti.
Il percorso intrapreso da coach Kidd vira proprio in questo senso. A differenza di chi l’ha allenato nel suo primo anno da pro, Larry Drew—che lo voleva coinvolto in un gioco di squadra nel quale le sue caratteristiche rimanevano inevitabilmente imbottigliate—l’ex playmaker di Mavs, Knicks e Nets molte volte gli ha lasciato carta bianca, come durante la Summer League di Las Vegas nella quale non ha esitato a proporlo come point guard. Una point guard di quasi 213 centimetri. Quella che sembrava essere una scelta pretenziosa si è invece rivelata vincente: il percorso di Giannis per diventare una PG è ancora lungo e tortuoso, ma questo ha permesso a Kidd di capire che, se può agire con la palla in mano, ne guadagnano lui e di conseguenza la squadra, visto che in campo è come fuori, altruista e generoso. Kidd gli ha restituito i compiti che aveva quando giocava in Grecia e Giannis lo ha ripagato con una stagione superlativa, durante la quale ha aiutato i Bucks a conquistare l’ingresso ai playoff nonostante le sventure citate a inizio articolo.
L’esperimento è tutt’altro che concluso: il prossimo step da raggiungere sarà quello che lo porterà ad agire più vicino a canestro per sfruttare nel migliore dei modi il gap di centimetri con chi lo marcherà in futuro, mettendo una pulce nell’orecchio enorme agli allenatori avversari nella preparazione delle partite nella scelta del tipo di difensore da mettergli alle costole. Dopodiché dovrà lavorare sulla pericolosità del tiro da fuori. Rispetto all’anno da rookie Giannis tira meno dalla grande distanza (118 conclusioni contro le 44 di quest’anno) e peggio (da 34.7% a un pessimo 15.9%), ma considerando il cambio alla guida della squadra e il differente uso, possiamo sostenere che queste cifre non siano così allarmanti come possono sembrare, anche perché realizzate in situazioni differenti che deve ancora assimilare del tutto. Nonostante le dimensioni delle mani non aiutino il rilascio del pallone, la tecnica rimane comunque molto buona, lasciando il più grosso dubbio sulla fiducia sul proprio tiro.
Kidd sta lavorando gradualmente proprio sotto l’aspetto mentale, cercando di aggiustare il suo gioco dalla media distanza per poi portarlo ad ampliare il suo range. Non a caso rispetto allo scorso anno tira meglio complessivamente, passando da 46.3% di eFG a 49.6%, mostrando anche ottimi passi avanti nelle percentuali ai tiri liberi, migliorati dal 68.3% al 74.1%. Segno che comunque il tocco c’è.
A sinistra la distribuzione dei tiri della scorsa stagione, a destra di quella appena conclusa. Meno perimetrale, ma più preciso: un work in progress intrigante.
Se a tutto questo aggiungiamo anche una versatilità difensiva che gli permettere di affrontare varie tipologie di giocatori nei ruoli dall’1 al 4, è facile capire che siamo di fronte a un progetto tecnico irripetibile.
Quando arriva Dark Giannis?
Probabilmente il cambiamento più difficile dovrà affrontarlo quando ci si aspetterà da lui un approccio mentale differente, quando dovrà imparare a essere più cinico, non solo verso il gioco ma anche verso tutto quello che gli gira attorno. Prima o poi Antetokounmpo perderà l’innocenza che lo contraddistingue, e dovrà farlo per il suo stesso bene: la feroce competitività della Lega lo porterà ad affrontare avversari che cercheranno sempre di più di entrargli in testa, di innervosirlo, come ha fatto Dunleavy ai playoff o come il trattamento riservatogli da Carmelo Anthony la prima volta che si sono incontrati. Non potrà più cadere in tranelli del genere, non ci saranno più scusanti per la sua ingenuità.
Un processo difficile e complicato per un ragazzo con quel carattere e quella storia alle spalle: dobbiamo sempre ricordarci che parliamo di un 20enne che sta esplorando e lentamente (ma neanche tanto) adattandosi a uno stile di gioco e di vita totalmente nuovo. È impossibile prevedere quali potranno essere i mutamenti anche a livello di personalità.
Ed è questa la domanda che tutti si fanno con un po’ di timore: esiste un limite alla crescita di Giannis Antetokounmpo? Probabilmente sì, ma per adesso il bello è godersi questa esperienza immaginando che la risposta sia negativa.