
«Visto che all’andata abbiamo subito un tiro in porta e un gol pensano poi che fosse colpa mia, ma…», ha detto Donnarumma dopo che il PSG ha passato il turno ribaltando lo svantaggio dei primi novanta minuti ad Anfield, vincendo 1-0 contro un Liverpool che per due terzi della partita andava a mille all’ora. E poi ha aggiunto stizzito, con la sicurezza di chi ha parato due rigori su tre nella serie finale, che le critiche venivano da persone «che non conoscono il mestiere di portiere».
È sempre molto facile avercela con Gigio Donnarumma. A ventisei anni porta (letteralmente) in faccia i segni di una vita più faticosa di quella che dovrebbe essere, almeno per uno dei migliori portieri al mondo, impiegato in una delle squadre più ricche del pianeta, che vive in una delle città fatta a misura del desiderio di fama e ricchezza dell’essere umano. Eppure qualcosa in lui, e soprattutto in noi, sembra volergli impedire di godere fino in fondo del suo destino eccezionale.
Il prossimo ottobre saranno passati dieci anni - DIECI! - da quando ha esordito non ancora sedicenne in Serie A. Donnarumma è il parente di secondo grado di tutti i tifosi italiani, il cugino che i milanisti odiano ogni Natale - ogni volta che sono costretti a vederlo, cioè - ma che anche gli altri tollerano a malapena. Sì ok, pensiamo quando lo vediamo scendere in campo in serate così importanti, se lo sarà anche meritato, ci avrà anche fatto vincere l’Europeo, ma se facesse una bella papera, una di quelle che riserva per le partite di Champions, sarebbe meglio.
E così quando Harvey Elliott, appena entrato al posto di Salah, al suo primo pallone toccato, una settimana fa ha messo la palla non proprio all’angolino, ma comunque abbastanza lontana da Donnarumma che ci è arrivato solo con la punta dei guantoni, senza riuscire a spingere la palla fuori dallo specchio, abbiamo provato un gusto perverso nel notare che in quella stessa partita il portiere opposto aveva eseguito addirittura nove parate, mentre a lui non era riuscita l’unica che doveva fare. La matematica dava ragione ai nostri pregiudizi.
Nel caso vi foste dimenticati di quel momento, tra l'altro nato proprio da un rilancio di Alisson.
Quella di Donnarumma, è una storia più piccola rispetto a quella che PSG e Liverpool hanno scritto nei 210 minuti totali - più recupero, più i rigori - ma è comunque significativa di quanto il calcio a un livello così alto sia quasi esclusivamente una questione di dettagli. Sarebbe potuta finire 4-1 o 5-0 la partita d’andata, gli eroi sarebbero potuti essere Kvaratskhelia e Dembélé, invece di Alisson e Eliott; allo stesso modo sarebbe potuto finire 2-1 per il Liverpool, o 2-2, ieri sera, se solo Salah avesse stretto un po’ di più il tiro finito sul ginocchio di Nuno Mendes, se Dominick Szoboszlai avesse angolato il rigore in movimento parato di piede da Willian Pacho, oppure se Barcola fosse riuscito a far passare la palla sotto le gambe di Alisson quando Kvara lo ha messo alle spalle della difesa del Liverpool dopo un quarto d’ora.
A questo livello non sembra essere neanche più una questione di “prestazione”, né di “stato di forma”, quanto proprio di destino. La Champions League ti spinge al fatalismo, all’accettazione passiva di eventi imposti dall’alto. Puoi correre quanto ti pare, cioè puoi correre quanto Vitinha o MacAllister, ma non puoi avere garanzie che serva a qualcosa, che i tuoi sforzi e quelli dei tuoi compagni, che tutta la qualità messa in campo da entrambe le squadre, verrà ricordata come merita. Prendiamo la partita di Nuno Mendes. Uno dei migliori in campo, l’incubo ricorrente che farà svegliare Salah sudato nei prossimi mesi, forse il singolo individuo con cui l’egiziano dovrà prendersela se a fine stagione non vincerà il Pallone d’Oro.
Eppure se Salah avesse stretto di più quel tiro al giro al sesto minuto, nell’unica occasione in cui ha saltato secco Nuno Mendes, lasciandolo a centrocampo a chiedere indicazioni come un turista smarrito, probabilmente sarebbe tutto al contrario. A Nuno Mendes sarebbero stati rinfacciati due gol tra andata e ritorno (dopo che si è lasciato superare da Elliott a tre minuti dalla fine, a Parigi) e Salah avrebbe fatto la differenza per l’ennesima volta in vita sua.
Proprio Salah però ha raccontato di essere venuto a patti col destino nei suoi anni da professionista. Sa che dipende da lui fino a un certo punto e che quello che può fare davvero è rimanere concentrato per farsi trovare pronto quando si presenta la sua occasione. Ai difensori che fanno trash-talking lui dice: attenti che a me basta una sola occasione per farvi rimpiangere le cose che avete detto.
Anche Donnarumma ha imparato ad aspettare il proprio momento. Certo, la pazienza è un pre-requisito per chi vuole giocare in porta: come si sarà sentito in quei minuti ad intensità folle, da mare in tempesta, in cui il pressing del Liverpool non lasciava uscire il PSG dalla propria metà campo? E come si sarà sentito quando Anfield ha iniziato a fischiare ogni suo tocco di palla dopo che aveva interrotto la partita, in un buon momento del Liverpool, chiedendo l’intervento dei sanitari. Anche lui ha pensato una cosa come: a me basta un rigore (meglio ancora: due)?
Donnarumma ha dovuto aspettare fino alla fine per azzittire i suoi critici. Prima ci hanno pensato i suoi compagni, e persino il guardalinee è intervenuto per salvare la porta del PSG al posto suo, annullando il gol di Szoboszlai per un fuorigioco precedente. E di nuovo il palo e un fuorigioco, sul colpo di testa di Quansah, hanno fatto le sue veci. Di suo, Gigio ha dovuto compensare le carenze nel gioco aereo della difesa parigina con qualche uscita coraggiosa (non il suo punto di forza) e con l’unica vera parata della serata, lo schiaffo a mano aperta con cui ha allontanato il colpo di testa di Luis Díaz all’ora di gioco circa.
Poi il suo momento è arrivato. Quello in cui sembrare più grande degli altri, fisicamente e metaforicamente parlando. Quello in cui girare nella piaga dei tifosi inglesi il coltello rimasto dall’estate del 2021, dalla finale dell’Europeo. Molti giocatori hanno avuto una presenza più rilevante della sua nei novanta minuti (per non parlare dei centottanta) e bisognerebbe passare in rassegna ruolo per ruolo, di entrambe le squadre, per provare a restituire la straordinaria ricchezza tecnica messa in mostra da queste due squadre (si farebbe prima ad evidenziare in negativo le prestazioni meno brillanti di alcuni, come Barcola, Diogo Jota, Salah, forse anche Hakimi).
Poi andrebbe sottolineato come Luis Enrique sia riuscito a trasformare il complesso di inferiorità del PSG in Europa in una sorta di determinazione suicida, sadomasochistica, di chi si vuole giocare il tutto e per tutto anche contro il Liverpool che ha vinto il girone unico di qualificazione in Champions e sembra instradato a vincere un’altra Premier (e che domenica giocherà la finale di Carabao Cup). Giocando davvero meglio, come aveva detto, senza Kylian Mbappé, con una squadra piena di ventenni dai nervi saldissimi - dal fenomeno Joao Neves a Desiré Doué, entrato in campo come se fosse stato il suo centesimo ottavo di Champions League - cambiando ruolo e rianimando persino il principe degli incompiuti Ousmane Dembélé.
Ma dopo una partita di calcio che sembrava un film della Marvel durata in tutto più di tre ore, il deus ex-machina che ha risolto un intreccio bloccato è stato proprio, appunto, Gigio Donnarumma. E sarà per quel soprannome infantile, o per il carisma negativo, ma sembra quasi che ci fossimo dimenticati che forse il giocatore più esperto e affidabile, la vera stella del PSG, fosse proprio lui.
Se ci sono partite che cambiano lo status di intere squadre, Liverpool-PSG è una di quelle. Luis Enrique e i suoi si sono dimostrati all’altezza di quella che era la squadra favorita fino all’altro ieri, anche nei momenti di sofferenza, tutto sommato meritando “ai punti” (se si considerano tutti e quattro i tempi regolamentari il PSG se ne è aggiudicati due e mezzo, più entrambi i supplementari). E per la prima volta nella loro storia i francesi-qatarini possono pensare di poter vincere la Champions non per diritto divino, o come conseguenza dello shopping estivo, ma per il proprio valore sportivo.