Gil Scott-Heron proviene da una “broken home”, una casa distrutta. Il poeta, musicista, pioniere dell’hip-hop e attivista afroamericano lo ammette senza problemi: è stato cresciuto da donne forti, non ha avuto accanto a se una figura maschile negli anni dello sviluppo. Non c’è amarezza, quando nel 2010 lo confessa in “On Coming From A Broken Home (Part1)”, brano di apertura del suo ultimo disco, “I’m New Here”. È una constatazione, una presa di coscienza che prende di mira più che altro chi pensa che questo debba per forza aver influito negativamente, non tanto il soggetto sottinteso del discorso: suo padre.
Il padre di Heron si chiama come lui ed è stato il primo giocatore nero nella storia del Celtic - il primo giocatore nero in assoluto a giocare professionalmente in Scozia. È giamaicano, ma durante la seconda guerra mondiale si è trasferito in Canada finendo per essere arruolato nella Canadian Air Force. Da lì si è spostato negli Stati Uniti, fino ad arrivare a Chicago, dove nel 1949 nasce il piccolo Gil; Heron padre lavora per la Western Electric e contemporaneamente gioca a calcio. Fin da ragazzo ha dimostrato delle ottime doti atletiche, cimentandosi anche nella boxe e nella corsa, qualità che esprime nel rettangolo verde interpretando il ruolo di punta veloce e tecnica. Per anni gioca nella defunta North American Soccer League con diverse squadre: Detroit Corinthians, Detroit Wolverines, Chicago Maroons, Chicago Sparta e Windsor Corinthians. È il solo professionista nero e tra i giocatori più forti di un torneo che annaspa ancora nel semi-dilettantismo. Vince il titolo di capocannoniere più di una volta e si fa selezionare per due volte dalla squadra all star che sfida la Nazionale inglese nelle amichevoli - dopo che da giovanissimo, ancora in Giamaica, aveva anche fatto parte dell’all star caraibica.
Il Regno Unito è nel destino di Heron senior proprio come in quello di innumerevoli caraibici e africani. Negli anni del dopoguerra in milioni emigrano dalle ex colonie inglesi verso l'isola, un movimento poi chiamato Windrush Generation - incentivato dal Regno Unito stesso vista la grande richiesta di forza lavoro. Il percorso di Heron è un po’ più contorto ma alla fine, nel 1951, si trasferisce in Scozia. Quello stesso anno il Celtic si trova negli Stati Uniti per alcuni match d’esibizione; in uno di questi Heron segna contro la Nazionale scozzese, impressionando allenatore e talent scout al punto tale da strappare un ingaggio professionistico. Nel Celtic sono tutti bianchi e giocano a migliaia di chilometri di distanza, Heron ha un figlio piccolo, ma non può dire di no all’occasione di una vita. La leggenda vuole che abbia segnato appena arrivato in terra scozzese, nel primo match giocato, guadagnandosi subito il soprannome, che oggi ci suona razzista, di “Freccia nera” - “The Black Arrow”.
Il tortuoso percorso di Heron, dalla Giamaica agli Stati Uniti e poi al Regno Unito, è una diaspora personale che finisce non solo per sovrapporsi alla diaspora afro-caraibica del secondo dopoguerra; rappresenta uno dei primi casi di calciomercato internazionale - a suo modo un altro tipo di movimento diasporico, a cui oggi nessuno fa più caso. Diamo per scontata l’idea che i giocatori possano muoversi tra paesi (a volte continenti) diversi, anche quando a spostarsi non sono professionisti maturi e affermati ma giovanissimi con un futuro incerto e tutt’altro che garantito.
Ma soprattutto oggi viviamo in un mondo in cui il calcio professionistico è lontanissimo da noi: i tifosi non hanno un rapporto diretto con la società, con i calciatori, l’allenatore e via dicendo. Ci rapportiamo solo con altri tifosi, la nostra squadra vive più che altro nei nostri pensieri, nelle nostre ansie e speranze, nelle parole che scambiamo con gli altri; i segni tangibili per la città sono i graffiti per strada, i bar con foto e maglie d’epoca, le sempre più sparute bandiere appese ai balconi. Le società professionistiche esistono in una bolla invisibile che si mescola al tessuto cittadino solo grazie agli uffici stampa; vi ci riferiamo per lo più con lo stesso tono usato per parlare del governo assente, o della burocrazia impossibile.
Il Regno Unito è forse l’unico paese Europeo in cui anche oggi continua a manifestarsi una vicinanza più “reale” tra squadra e città. Ma lo era certamente di molto di più negli anni ’50, in Scozia: Celtic e Glasgow erano indistinguibili. L’impatto della figura di Gil Heron deve essere letto in questi termini molto più che in quelli sportivi, peraltro decisamente modesti. Heron giocò una sola stagione con il Celtic: cinque partite in cui segnò due volte, senza riuscirsi ad abituare alla brutale fisicità del gioco scozzese e prima di esser fatto fuori dai senatori della squadra, che non gradivano la competizione per una maglia da titolare; per le successive due stagioni si trasferì prima al Third Lanark e infine al Kidderminster Harriers. Eppure ancora oggi è una figura di culto, a cui sono dedicati numerosi articoli da parte di blog specializzati e giornalisti appassionati, a dimostrazione di un impatto culturale che ha superato enormemente quello calcistico.
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Conoscendo la storia del club irlandese non c'è da essere sorpresi. Il Celtic è stata la prima squadra cattolica a contendere il primato cittadino e nazionale ai protestanti Rangers, con una marcata coscienza sociale e di classe (popolare e “working class”). Un’identità politica “a sinistra” che, seppur spesso indistinguibile dalla componente cattolica, ancora oggi identifica generalmente i tifosi del club con valori quali antifascismo e antirazzismo. Appena qualche mese fa, ha fatto il giro del mondo la risposta bianco-verde alla violenza e ai saluti romani di alcuni tifosi laziali in occasione dei due match di Europa League: prima uno striscione rappresentante Benito Mussolini a testa in giù, accompagnato dalla scritta “follow your leader”; poi la curva dei tifosi che si è colorata interamente di verde, trasformandosi per l’occasione da Green Brigade in “Brigate Verde” - con al centro una stella a cinque punte che era un evidente richiamo alla Brigate Rosse italiane.
Il Celtic e i suoi tifosi sono anche familiari con il concetto di diaspora. I primi accaniti supporter della squadra furono gli uomini della comunità cattolica irlandese, presente nell'ovest della Scozia a partire da fine ottocento. Come afferma l’accademico Frank Devine in un bell’articolo tradotto qui: «Il Celtic ha un'enorme base di tifosi all'interno della diaspora irlandese [...] È una particolare manifestazione di appartenenza irlandese all'interno della diaspora sparsa in tutto il mondo, e come ci si potrebbe aspettare da gente che ricava le proprie eredità e origini dalla storia irlandese, il tifo è caratterizzato da uno spirito anti-autoritario».
Molto più che “solo” calcio quindi: essere tifosi del Celtic ha a che fare con identità e rivalità storico-politiche, di classe, con un legame ombelicale con la Scozia ed in qualche modo anche, in modo ancor più complesso, con l’Irlanda. La storia di Gil Heron, soprattutto in tempi moderni, finisce quindi per sovrapporsi a quella dei tifosi e ai valori che molti di loro incarnano (o aspirano a incarnare) da generazioni, diventando un feticcio perfetto per ricordarle e sottolinearle.
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Ci sono pochissime foto che ritraggono Gil Heron durante il suo periodo scozzese. Heron è un bell’uomo. Ha un volto forte, pulito, asciutto: due linee nette gli scavano le guance, altre due partono dalle narici e spiovono sulla bocca carnosa. Un gioco di contrasti che sembra fatto apposta per dirigere lo sguardo verso i grandi occhi scuri e profondi. È il viso di un uomo maturo e severo; il fisico longilineo e nervoso, le orecchie sporgenti e un’espressione quasi divertita invece lasciano trasparire qualcosa di bambinesco, quasi dispettoso (caratteristica che sarà ancora più visibile nel volto del figlio).
Indossa completi oversize e a vita alta, cappelli a falda larga, scarpe colorate. Uno stile molto simile a quello della New York nera degli anni ’40, unito a un portamento da “dandy”. Anche qui Heron sembra un precursore involontario del calcio contemporaneo, in cui i calciatori sono i primi a seguire la moda e spesso la impongono. Ama la musica e la letteratura; ha scritto poesie dedicate ad i suoi compagni di squadra del Celtic. Un bel ragazzo nero dall’aria furba e colta che gioca a calcio e a cricket, frequenta i locali di Glasgow camminando per le strade grigie della città con ai piedi un paio di scarpe gialle che sembrano farlo fluttuare. È abbastanza per impressionare generazioni di scozzesi.
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Sono solo due le immagini che troviamo online e che ritraggono Heron sul campo. Senza potremmo quasi pensare che il suo passaggio nel Celtic sia stata una leggenda da pub: un miraggio collettivo emerso dai fumi di una serata ad alta gradazione alcolica.
In uno dei due scatti Heron è in una posizione stranissima, una specie di scivolata frontale verso il nulla, dato che l’inquadratura non indugia sull’oggetto della sua attenzione. Una posa plastica, stranamente elegante, che cozza con la sciatteria quasi comica degli enormi pantaloncini e calzettoni - all’apparenza di almeno un paio di taglie troppo grandi. Nel secondo Heron è in piedi; anche qui gli enormi calzoncini e calzettoni nascondono la forma delle sue gambe, longilinee e in tensione per lo scatto. Protagonista della foto diventano quindi l’iconica maglia a strisce ed il suo volto stravolto dallo sforzo, con le guance ancora più scavate del solito e gli occhi quasi preoccupati; sembra la faccia sfigurata dei piloti di caccia quando sperimentano per la prima volta l’enorme quantità di pressione a cui l'accelerazione del velivolo sottopone il corpo. Magari Heron non sarà stato veloce come un aeroplano, ma il soprannome “Freccia Nera” sembra essere giustificato dal dinamismo che emerge da questa foto. In entrambi gli scatti sullo sfondo intravediamo sfocato un pubblico nutrito e incredibilmente compatto; di avversari o compagni di squadra invece neanche l’ombra: sembra quasi che Heron giocasse da solo.
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Dalle cronache che leggiamo oggi non emergono episodi di esplicito razzismo nei confronti di Gil Heron durante il tempo passato nel Regno Unito. Sappiamo per certo che durante la sua carriera negli Stati Uniti fu costantemente preso di mira per il colore della pelle, fuori dal campo e non solo - sembra che alla fine di ogni partita l’allora moglie Bobbie (madre di Gil Scott) dovesse massaggiargli le gambe con l’alcol per mitigare il dolore dei colpi scorretti ricevuti dagli avversari.
È certo che, al netto della calorosa accoglienza riservatagli dai tifosi del Celtic, nel Regno Unito gli sia stato riservato un trattamento simile (soprattutto da parte dei tifosi avversari): parliamo degli anni cinquanta, un’epoca in cui il razzismo faceva semplicemente parte del costume della società. L’Inghilterra poi doveva fare i conti con un recentissimo passato coloniale e imperialista ancora vivo nelle coscienze inglesi.
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Michael Marra, cantautore scozzese, ha dedicato ad Heron un brano: “Flight Of the Heron”. Le parole del pezzo raccontano bene l’importanza del culto contemporaneo attorno al giocatore:
«Quando Miles era nei jukebox
E Monk era in radio
Gil attraversò l’oceano dall’altro lato
Per giocare con il Celtic con una falcata nobile
La freccia volò, sta ancora volando
Il suo scopo è vero così non dimentichiamo
Cosa vuol dire quando sentiamo il suo nome
Le speranze ed i sogni di ogni pioniere
Più in alto, alza l’asticella più in alto
Si fece largo attraverso il mare
In modo che tutti gli uomini potessero essere fratelli»
L’asticella di cui si parla qui è quella della cifra morale del popolo scozzese. Allo stesso modo in cui il pioniere Gil non è un precursore del bel gioco o di una tecnica calcistica sconosciuta, quanto un pioniere razziale: uno che attraverso la sua personalità e il semplice quanto coraggioso gesto di inseguire una carriera ha influenzato il mondo che ha attraversato. Marra (per altro tifoso del Dundee F.C. e non del Celtic) ci tiene a specificare che la “freccia nera” sta ancora volando: come a dire che l’impatto di Gil Heron (e conseguentemente di tutti gli e le altre Gil Heron della storia) continua a essere percepito dalla cultura scozzese.
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Nel 2008 il giornalista Gerry Hassan ha incontrato a New York Gil Scott-Heron, specificamente per fargli ascoltare il brano di Marra dedicato al padre. La descrizione dell’evento è densa di patos. Padre e figlio si sono incontrati di nuovo solo dopo il ritorno del primo negli Stati Uniti (negli anni sessanta), quando Scott-Heron ha ormai ventisei anni ed è nel pieno della sua leggendaria carriera artistica e dei suoi innumerevoli problemi - tra dipendenze e guai giudiziari. Due uomini diversi, separati a lungo ma che nonostante tutto si sono trovati a fare i conti entrambi con “il problema della linea del colore” quello che l’intellettuale afroamericano W.E.B. Du Bois ha definito come il “problema del ventesimo secolo” - purtroppo anche del ventunesimo.
Hanno entrambi sorpassato quella linea, l’hanno piegata, malleandola con coraggio; hanno assunto rischi per oltrepassare il pesante velo razziale da cui era ricoperta la società dei due paesi, guardando dall’altro lato, sollevandolo e creando le condizioni perché potessero passare anche altri dopo di loro. Padre e figlio sono stati a loro modo due pionieri. Il primo, grazie alla sola forza della sua presenza e della sua personalità ha lasciato una traccia locale indelebile, tutt’oggi celebrata. Il secondo, dall’altro lato dell’oceano, ha costruito un’eredità artistica interpretando alcune delle tematiche più cruciali e complesse della seconda metà del novecento americano. Canzoni immortali come “The Revolution Will Not Be Televised” (in questi giorni di proteste spesso si fa cadere il “not” quando la si cita), “We Almost Lost Detroit”, “Home Is Where The Hatred Is”; brani che non hanno mai smesso di essere considerati rilevanti e che continuano a ispirare, generazione dopo generazione.
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Sarebbe bello che questa storia si concludesse con un lieto fine. Che padre e figlio, così diversi ma evidentemente così simili nello spirito, negli interessi e nelle battaglie più o meno cerate, si ricongiungessero come se nulla fosse. Non sappiamo se ci sia stata una vera e propria riconciliazione tra i due; Scott-Heron non ha mai esplicitamente parlato male del padre e quando il suo tempo nel Regno Unito gli veniva citato si è spesso dimostrato distaccato, pur riconoscendo l’impatto della sua figura in Scozia (e ammettendo che negli anni gli è capitato di intravedere diverse maglie del Celtic tra il pubblico dei suoi concerti). Tuttavia, quando Scott-Heron chiude il suo ultimo album con “On Coming From A Broken Home (Part 2)”, la possibilità di una chiusura del cerchio è lontana: qui Gil Heron padre è veramente un fantasma, più presente nella storia del popolo scozzese che in quella di suo figlio. Grazie alla voce inimitabile di Scott-Heron, stanca, scura, roca e amara come il caffè, riusciamo a percepirne il peso dell’assenza.