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L'impresa storica delle fate
31 lug 2024
31 lug 2024
Era quasi un secolo che l'Italia non vinceva l'argento nella prova a squadre della ginnastica artistica.
(foto)
IMAGO / PanoramiC
(foto) IMAGO / PanoramiC
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Nello sport spesso si abusa del termine "storico" ma questa volta sono i fatti a parlare. Era infatti quasi un secolo che l'Italia non vinceva una medaglia nella prova a squadre della ginnastica artistica, come sono riuscite ieri Manila Esposito, Alice D’Amato, Elisa Iorio, Giorgia Villa e Angela Andreoli. Le prime, e fino a ieri le ultime, a essere in grado di salire sul podio alle Olimpiadi, erano state le cosiddette “piccole pavesi”, che secondo la leggenda nella rassegna di Amsterdam 1928 venivano accompagnate dal coro: "Ecco quelle della Pavia, che il diavolo se le porti via".

Insomma: corsi e ricorsi storici, come si dice. Allora era il debutto olimpico per le donne dell’artistica, oggi è la prima edizione in cui sono presenti lo stesso numero di atleti e di atlete.

Quello che importa è che 96 anni dopo l’Italia è di nuovo seconda con il punteggio di 165.494 alle spalle di chi ha fatto una gara a parte, ovvero gli Stati Uniti dell’eterna Simone Biles, 171.296, e davanti al Brasile di Andrade (165.494).


Questo incredibile successo ha riacceso la curiosità sulla squadra italiana, a partire dal suo soprannome. Alcuni giorni fa, in un’intervista, Manila Esposito ricordava: «Ci chiamano Fate, ci sarà un motivo no?».

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Il motivo nasce dalla produzione TV andata in onda sui canali della federazione qualche anno fa, che ha cercato di restituire così la magia che associamo a questa disciplina, e che ieri si è respirata fin da subito quando in pedana è scattata la finale all’Arena Bercy. Tutti erano lì per vedere cosa si sarebbe inventata Simone Biles, per osservare quei corpi che riescono letteralmente a fluttuare in aria e fare movimenti proibitivi per gran parte dei comuni mortali.

La squadra azzurra arrivava alla finale dopo un ottimo secondo posto in qualifica, sempre alle spalle degli Stati Uniti. «Questo piazzamento è indicativo dello stato di salute dell’intero movimento», aveva detto il direttore tecnico, Enrico Casella «Abbiamo rifatto nuovamente la storia, come ci capita spesso. Perché, per carità, la competizione odierna non assegnava medaglie, ma siamo pur sempre all’Olimpiade». Le sue atlete hanno fatto di meglio, confermandosi in finale, dove c’era la complessa e insidiosa formula del 5-3-3, ossia cinque atlete della squadra, tre per ogni attrezzo, e tutti e tre punteggi.

Nella fase preliminare, domenica, l'Italia aveva ottenuto lo score di 166.861 che non lasciava troppo tranquilli, anche per un problema fisico accusato da Elisa Iorio. La modenese, al termine delle rotazioni, aveva riportato un trauma distorsivo e per questo, ieri, non è riuscita a competere a trave e volteggio, ma solo alle parallele. Martedì sera, "le Fate", inserite nella stessa rotazione degli Stati Uniti, hanno però preso in mano il proprio destino, come si dice.

La prima a competere, al volteggio, è stata la più giovane della squadra e di tutta la spedizione femminile azzurra, cioè Manila Esposito. La campana, classe 2006, è esplosa quest’anno grazie al titolo di campionessa d’Europa All Around. Esposito ha iniziato subito bene, terminando il primo esercizio con un salto teso e due avvitamenti da 14.166. Poi, è toccato ad Alice D’Amato con 13.933 e all’altra “piccolina” del gruppo. La diciottenne Angela Andreoli, cresciuta nel mito della Biles (14.900 senza portare nemmeno il suo salto) e di Vanessa Ferrari, si è ritrovata a competere contro la prima e ad allenarsi con la seconda. Tra un esercizio e l’altro ha dato pure un cinque al suo mito, portando a casa 13.566.

Alle parallele è stata la volta di Giorgia Villa. Per la bergamasca di Ponte San Pietro bisogna spendere qualche parola in più. In qualifica, dopo aver terminato il suo esercizio, si era subito commossa. Le compagne, inizialmente preoccupate, temevano un infortunio, ma fortunatamente le sue erano soltanto lacrime di gioia. Villa, capitana della "Fate", classe 2003, pure in finale è stata impiegata solo sugli staggi, da sempre il suo attrezzo preferito.

La condizione dell’azzurra, però, non era al top come non lo è stata negli ultimi anni. Villa è stata costretta a saltare, qualche mese fa, gli Europei di Rimini e un anno fa i Mondiali, per il solito cronico problema alla schiena che la tormenta da anni. A Tokyo 2020, a una settimana dall’inizio di Giochi, con la carta d’imbarco già stampata, dovette dire addio al suo sogno a cinque cerchi, all’epoca era stata la caviglia a giocarle un brutto scherzo. Questa edizione di Parigi, quindi, è più di un riscatto: interpellata prima della finale aveva espresso ai canali FIG tutta la sua gioia, rappresentata solo dal fatto di esserci. «Sono stati anni di tanto lavoro, posso essere solo soddisfatta di essere qui. Mi sembra ancora un sogno, posso dire finalmente di aver fatto un’Olimpiade. Tanta emozione davanti ad un palazzetto pieno. Non è stato certo il mio esercizio migliore, anche perché in questi giorni ho avuto qualche problema con la parallela, ma aver fatto un’esecuzione discreta mi rende comunque felice. Ho rotto il ghiaccio. Ieri sera [domenica, nda] ho fatto pure fatica ad addormentarmi. Siamo entrate in pedana nel boato, roba da brividi. Alla fine, avevo il braccio insanguinato, anche alla gamba ho preso una botta. Sono acciacchi che ci stanno. Ripeto non è importante come, ciò che conta è esserci». E alla fine Villa ce l’ha fatta.

Dopo di lei, Alice D’Amato, una delle due gemelle della ginnastica azzurra (l’altra, Asia, è alle prese con una lesione del legamento crociato) cresciute nel centro federale di Brescia. La ligure ha totalizzato 14.633, un punteggio migliore di quello di Simone Biles. Seppur le parallele non siano l’attrezzo di punta dell’americana, questo la dice lunga sull’eleganza e la perfezione dei movimenti dell’atleta, unica del gruppo alla seconda edizione dei Giochi Olimpici (presente a Tokyo 2020).

Poi è toccato a Elisa Iorio, modenese nata nel 2003, che pochi mesi dalla precedente edizione delle Olimpiadi si era dovuta operare per un brutto infortunio alla caviglia. All’Arena Bercy è riuscita a terminare un esercizio nonostante il dolore fisico la stesse torturando. La caviglia faceva male e la preoccupazione di non poter aiutare le compagne come avrebbe potuto fare probabilmente pesava. Salita agli staggi, in trance agonistica, ha saputo gestire il suo problema e ha chiuso l’esercizio, stoppando l’arrivo, zoppicando fuori dalla pedana con un punteggio da 14.266.

A metà gara le azzurre erano ancora seconde, davanti a tutte le possibili avversarie per la corsa medaglia, ovvero Gran Bretagna, Brasile e Cina. Mancava la trave, l’attrezzo più insidioso che invece, al netto di una piccola sbavatura in uscita della Andreoli, non ha arrecato nessun danno. L’unico momento di difficoltà è arrivato al corpo libero, quando forse si è iniziata a sentire la tensione. Esposito e D’Amato hanno compiuto due piccole imprecisioni: la prima con una mano finita fuori dalla pedana, dopo la seconda diagonale; la seconda con un piede fuori. Tutto è stato così rimandato all’esercizio di Angela Andreoli.

La ginnasta bresciana, lettrice accanita, spesso è stata accostata all’eleganza dei gesti di Vanessa Ferrari (presente sugli spalti insieme ad Asia D’Amato). Investita di una responsabilità importante ha fatto uno dei migliori esercizi di sempre regalando alle azzurre l'argento. «Avevo ansia», ha detto «Sapevo che dal mio esercizio passava il podio, ma le mie compagne sono venute da me a dirmi di rilassarmi e divertirmi. È l'emozione più grande che abbia mai provato, che mi ripaga di tutti i sacrifici fatti: rinunci alla tua vita da adolescente per inseguire il sogno delle Olimpiadi e coronarlo con l'argento dietro gli Stati Uniti. Simone Biles mi ha fatto i complimenti».

Uscito il suo punteggio, le azzurre si sono abbracciate. Non è retorica dire che in quell’unione di corpi c’è più della semplice condivisione di un traguardo sportivo. Quasi tutte, a eccezione di Esposito, che si è formata alla Ginnastica Civitavecchia, sono cresciute a Brescia, dove ha sede non solo la Brixia, società più titolata d’Italia, ma anche il centro federale. Lì le atlete che fanno parte della selezione azzurra crescono insieme, vivono in palestra e seguono corsi di studio. Ora che sono più grandi, Villa e le D’Amato continuano a condividere gli spazi lontano alla palestra, abitando in un loro appartamento. Loro tre, con Elisa Iorio e Martina Maggio (presente a Tokyo), hanno sull’avanbraccio un tatuaggio che suggella questa “sorellanza”: la sagoma della fatina di Peter Pan, Trilly, che porta lo chignon come le ginnaste.

A coordinare il tutto, da oltre 20 anni Enrico Casella, storico allenatore di Vanessa Ferrari. Il Direttore Tecnico della Nazionale è il deus ex machina che ha costruito questo successo. «C'è tanto lavoro alle spalle e tanto stare insieme, siamo una famiglia. Abbiamo lavorato tanto, con principi sani, abbiamo anche saputo perdere e quando una entra dà sempre il suo contributo, è questo il nostro punto di forza».

L’allenatore, che dal 1996 con l’individualista Francesca Morotti ha sempre portato individualiste o squadre ai Giochi Olimpici, dopo un passato da rugbista e una laurea in ingegneria nucleare, ha fondato la Brixia e plasmato generazioni di ginnaste.

Per molti è una figura ingombrante. Spesso, come succede per un qualsiasi allenatore, le sue scelte sono sotto la lente di ingrandimento. Per alcuni non ha saputo gestire al meglio infortuni e i problemi fisici delle ragazze. Oggi queste polemiche sembrano lontanissime.

Quello di Casella è un sistema di lavoro costruito nel tempo. Tra tutti i risultati, ha portato anche un bronzo di squadra ai Mondiali del 2019 e il titolo mondiale di Vanessa Ferrari nell’All Around 2006, anno in cui nasceva Andreoli. Un percorso di vent'anni anni che ha condotto le azzurre su quel podio olimpico.

Il sogni delle "fate", comunque, non è finito qui. Dal 3 al 5 agosto ci sono le finali di specialità e l’Italia potrà contare su Alice D’Amato e Manila Esposito, impegnate giovedì pure nell’All Around.

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