Tutto dipende dal modo in cui ci si arriva, chi lo raggiunge in vaporetto dal Canal Grande o, in alcuni casi, per alcune partite, dal Canale della Giudecca, oppure dalle isole, chi da Murano, da Burano, dal Lido, chi addirittura da Mazzorbo e poi quelli che ci arrivano a piedi e questo è il modo che preferisco. Anche a San Siro, quando abitavo a Milano, mi piaceva arrivarci a piedi, è molto bello a un certo punto tirare su la testa e vedere spuntare la costruzione diversa dalle altre, quella verso cui ti stai muovendo, quella per cui ti stai muovendo. Lo stadio che compare di colpo dietro ai palazzi o sullo sfondo dietro l’ospedale San Carlo. A Buenos Aires, la Bombonera quando appare sembra un palazzo in mezzo agli altri, un condominio popolare (e lo stadio non lo è?) giallo e blu. Non ci puoi credere alle migliaia di persone che riescono ad arrivare (e poi andarsene) allo stadio tra quelle viuzze strette, ti chiedi se per entrare citofonino. Che meraviglia. A Napoli, la parte che puoi fare a piedi è solitamente breve, eppure ti si accendono gli occhi quando il Maradona compare. Niente è però nemmeno paragonabile al modo di arrivare e poi trovare il Penzo, lo stadio del Venezia.
La camminata più naturale è quella che ti porta da piazza San Marco a Sant’Elena, l’estremità del sestiere di Castello in cui si trova lo stadio. Non ne esistono molte così particolari al mondo. Ti lasci i leoni di San Marco alle spalle, cominci a camminare buttando un occhio alla tua destra verso San Giorgio, la laguna viene con te e segue questa gente con sciarpe arancioni, verdi e nere che procede a passo sostenuto ma non troppo veloce verso il destino, come direbbero gli spagnoli. A sinistra gli hotel di lusso, più avanti l’Arsenale, i giardini della Biennale, a destra la laguna, le barche, i vaporetti, chi va in direzione opposta alla tua, coppie che si tengono per mano, turisti seduti sulle panchine che guardano a destra verso Punta della Dogana o a sinistra verso il Lido. Chi non è di qui non direbbe mai che a poche centinaia di metri ci sia uno stadio, e, in fondo, nemmeno io lo direi, nemmeno adesso che lo so. Un campo da calcio regolamentare sull’acqua, ma dài. Tagliando in mezzo agli alberi di Sant’Elena chi viene a piedi si mischia con chi scende dai vaporetti, l’ultima parte di sorpresa è uguale per tutti.
Prima dell’ultimo lembo di isola svolti a sinistra, un canale costeggia un viale alberato bellissimo, qui camminarci in autunno è un incanto. Cominci a vedere qualche pezzo di struttura, i lunghi pali dei riflettori, qualche scritta sul muro, i colori della squadra che sporgono da qualche poltroncina che vedi avvicinandoti. Tre piccoli ponti separano il viale dallo stadio, che sta lì fermo e provvisorio sembra la stazione spaziale internazionale che è venuta a farsi un giro a Venezia, ma che è sempre pronta a ritornare lassù. Lungo il viale le biglietterie dipinte di rosso che hanno un sapore d’altri tempi, d’altri luoghi. Alle spalle della curva dove stanno gli ultrà del Venezia, facendo pochi passi, la chiesa di Sant’Elena, qui stanno le sue reliquie arrivate (secondo leggenda) su una nave che trasportava merci da Costantinopoli; l’imbarcazione restò incagliata in una secca e non riuscì a ripartire fino a che le spoglie della santa non furono portate a terra. Chissà se Elena, madre di Costantino, guardi lo stadio con occhio benevolo, lo protegga dalle maree e se, ogni tanto, soffra o gioisca per le sorti del Venezia.
Alle spalle dell’altra curva la darsena con le barche ormeggiate. Un pallone calciato troppo in alto può tranquillamente finire su una barca a vela. Si dice che i veneziani si distraggano a guardare le barche e che talvolta perdano delle azioni importanti. Si racconta che, conoscendo questa storia, una volta i tifosi della Triestina presero a urlare gol a caso ridestando i vecchi veneziani da altri discorsi. La prima volta che sono venuto al Penzo è stata nel 2017, il Venezia era in B (come adesso) e la allenava Pippo Inzaghi. La partita – ma è irrilevante – era un Venezia-Parma (vinta dagli emiliani 1-0 con un gol segnato verso la fine) di rara bruttezza, ma mi sono bastati dieci minuti per avere le prove di quello che mi avevano anticipato, ovvero che la partita al Penzo conta poco, cioè, sì, il risultato, meglio che il Venezia vinca, eccetera, ma lo scenario vero vince: il posto, la precarietà, la differenza con gli altri stadi, il fatto che nei distinti e in tribuna la gente parli d’altro. Ho cominciato a guardare cosa facessero le persone e ad ascoltare le loro voci: Pippooooo, caveo viaaaa (sostituiscilo), per esempio. Calaiò che giocava ancora nel Parma ricevette un: Calaiò ti xe un desgrasià. Oppure, a un certo punto: Mi hanno cavato via il vecio. Tutto però molto lieve, come se in fondo ciò che stava avvenendo sul campo non li riguardasse davvero. Mi hanno raccontato che anni prima a un calciatore del Venezia che correva sulla fascia palla al piede fu urlato: Marioooo ragiona e che questo Mario di cui nessuno ricorda il cognome si fermò e rivolto al pubblico disse: Ma cosa cazzo devo ragionare? Dopo quella volta sono tornato al Penzo non per guardare la partita ma per sentire di nuovo quelle voci, per sentire i vecchi che parlano di barche e di pesca e di alta marea e del Mose, e che si distraggono e si perdono l’unico gol del Venezia; gol - visto come è andato il campionato scorso e come sta andando questo – quasi sempre inutile.
Torno a dove eravamo, fuori dallo stadio, è il 29 ottobre il Venezia sta per cominciare a giocare con l’Ascoli, per la prima volta – guardando un anziano seduto su una panchina che guarda il Penzo – capisco che l’unica cosa sensata da fare è rimanere accanto a quel signore e la partita semplicemente immaginarla. La giornata è calda, i colori delle foglie d’autunno contrastano con il clima estivo. Mi siedo e fischio il mio personale inizio partita. E allora il pallone non rotola, ma sull’acqua non può far altro che scivolare. Stamattina ho visto due persone vogare in aperta laguna, la luce del sole appena velata, la calma piatta data dall’assenza di vento. La piccola barca spinta dai remi sembrava scivolare sull’acqua, calma e inesorabile, nessuno poteva fermarla, nessuno poteva avvicinarla per interrompere quegli istanti di silenzio e bellezza, perfino i gabbiani stavano fermi sulle bricole a godersi lo spettacolo. Se i giocatori del Venezia scivolassero sull’erba del Penzo, sospinti da lunghi remi di legno non perderebbero mai un contrasto, non fallirebbero un dribbling, finirebbero tutti i campionati a punteggio pieno. Sarebbero in grado di stoppare la palla a prescindere dalla marea - che salga o che s’abbassi –, di dribblare gli avversari come se si muovessero tra barche ormeggiate, di controllare ogni rimbalzo dettato dallo scirocco, dall’umidità. Il pallone così scivoloso che mai si potrebbero battere le rimesse laterali, che i portieri dovrebbero giocare solo con i piedi, che l’uscita da dietro sarebbe possibile solo attraverso dei piccoli moli messi qua e là lungo le linee laterali. I tackle non avrebbero la possibilità di fallire. L’incrocio dei pali sarebbe null’altro che una coppia di ormeggi costruiti in diagonale.
La mia partita immaginata è un vero spettacolo e anche se la giornata è limpida io ci aggiungo un po’ di nebbia, eccola che sale dal Lido, da San Giorgio, attraversa i giardini e rende invisibile il Penzo, la chiesa, la panchina dove stiamo io e il vecchio. All’interno: sforbiciate, terzini che sembrano Messi, punizioni calciate contro barriere formatesi a mezz’aria. Acqua alta fino ai calzettoni, eppure la palla scorre, zampilla, finisce in rete come una spigola, ci si appiglia e poi torna indietro. Uno viene richiamato in panchina ma se ne frega e comincia a nuotare. Dagli spogliatoi entra una gondola e va verso il cerchio di centrocampo. Come pioveva, canta il gondoliere insieme a Ceppitelli che si scopre intonatissimo. Lo stadio si muove e balla, assecondando la sua vera natura, si solleva verso l’alto e poi s’appoggia di nuovo giù, e quell’erba banale si trasforma nelle alghe ghiacciate di Brodskij e nel loro odore.
Nel sole di qua fuori il vecchio mi sorride, forse sta immaginando come me o soltanto ricordando, che a volte è la stessa cosa. Nel mondo reale il Venezia perderà 2-0 ed è terzultimo in classifica, ma a noi ragazzi che immaginiamo non importa, giochiamo un altro campionato, completamente affascinati e preda della città. Stiamo sospesi in un non tempo in cui lì dentro stanno giocando insieme Maradona, Cruijff, van Basten, Zico, Messi, Franco Baresi, Zoff, Zidane e Iniesta. E davvero in qualche modo stanno ballando tra le alghe e l’acqua: giravolte, croquete, dribbling estesi, colpi di tacco perpetui, tuffi (!) di testa a pelo di laguna, calci di rigore piazzati dentro delle porte d’acqua appena socchiuse. Se pensate che questa cosa sia una poesia avete ragione.
Se si è svolta una vera partita deve essere finita, la gente comincia a uscire e a tornare verso quest’altra riva, ci guardano, osservano le nostre espressioni sorridenti e forse intuiscono qualcosa perché abbozzano un sorriso di rimando. Da questa panchina e dal passato abbiamo scritto lettere indirizzate agli spalti sostituendo il verosimile al vero, l’acqua al prato, il non tempo a quello regolamentare, il rosso e il giallo delle foglie cadute sul selciato a quello dei cartellini, la nebbia che tutto avvolge e nasconde a questa assurda giornata di sole. Lo stadio si è completamente svuotato, mi volto e il vecchio non c’è più. Guardo lo stadio, scatto una foto per convincermi ancora una volta che è tutto vero, per tornare a casa prendo la direzione opposta, mi tengo le case di Sant’Elena sulla sinistra e lo stadio a destra, supero la darsena e svolto a sinistra, il Penzo è alle mie spalle, mi volto per controllare se c’è ancora, se non me lo sia inventato. Prendo il telefono e guardo online il risultato della partita, è falso, noi sappiamo che è andata diversamente.
Me ne vado con dei versi di Louise Glück in testa che mi riportano alla realtà: «Questa è la luce dell’autunno, non la luce della primavera. / La luce dell’autunno: non sarai risparmiata». E mi dispiace per il Venezia che non è risparmiato, dovendo giocare il campionato reale in un luogo inventato.