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Kobe Bryant, gioia e ossessione
30 gen 2020
Kobe Bryant dopo e oltre il basket.
(articolo)
13 min
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Se fosse possibile stilare una classifica dei vocaboli accostati con maggior frequenza a Kobe Bryant nei tanti profili a lui dedicati durante la lunga carriera, “ossessione” si piazzerebbe senza dubbio ai primi posti. Nella parabola che l’ha portato a diventare uno dei più grandi atleti d’ogni epoca tutto è caratterizzato dalla profonda, costante, inesauribile ossessione per il gioco della pallacanestro. Tutt’altro che un predestinato pur essendo figlio d’arte, Kobe Bryant ha scolpito il suo profilo nel duro granito del monte Rushmore del basket picconata dopo picconata, attraverso un lavoro quotidiano massacrante e una devozione quasi mistica nei confronti dello sport di cui si era innamorato da bambino.

D’altro canto, come noto, l’ossessione è una condizione patologica che porta con sé diverse controindicazioni. Controindicazioni che tendono a farsi problematiche nel momento in cui l’oggetto dell’ossessione, per qualche motivo, viene a mancare. Così, quando al termine del capitolo conclusivo della sua avventura sui parquet Kobe Bryant prendeva per l’ultima volta la via degli spogliatoi, dubbi, curiosità e timori riguardanti il prosieguo della sua vita apparivano legittimi. Troppo ingombrante la sua figura per sparire dai radar come Karl Malone; troppo radicato il suo ego per accomodarsi in un ruolo secondario, magari tra i quadri tecnici di qualche franchigia, nel contesto di una NBA che ormai era saldamente in mano a James e Curry. Il tratto comune degli interrogativi che lo riguardavano era l’assioma “Kobe non potrà resistere lontano dalla pallacanestro” che, unito a qualche indizio seminato a dovere, faceva guardare al suo futuro come a un percorso ancora tutta da costruire.

E invece, proprio come quando da adolescente annunciava convinto che sarebbe diventato un campione NBA - spesso elargendo ai suoi interlocutori vaticini particolareggiati su come e quando avrebbe portato a termine la missione - Kobe Bryant aveva pianificato tutto. Il giorno dopo l’ormai celeberrimo Mamba out” aveva già un progetto concreto, un altro sogno realizzabile. Quello che forse nemmeno un pianificatore maniacale come Kobe poteva prevedere, tuttavia, era come la vita dopo e oltre il basket l’avrebbe in qualche modo cambiato.

Ispirare e raccontare

Oltre ai premi individuali e ai cinque anelli di campione NBA, oltre al repertorio dogmatico e a volte un po’ vacuo genericamente catalogato alla voce Mamba Mentality, è probabile che il vero lascito di Kobe Bryant ai posteri - non solo e non tanto agli amanti del basket e agli sportivi in generale - sia la sua capacità di ridefinire i confini tra megalomania e autostima. Proprio la sconfinata fiducia in se stesso, alimentata da una visione chiara e cosciente di chi e cosa avrebbe voluto diventare, gli ha permesso di accedere al valhalla dello sport mondiale.

Lo schema che la stella dei Lakers ha inteso seguire dopo il ritiro dalle competizioni non si discosta da quello adottato in canotta e pantaloncini, bensì ne è la mera prosecuzione con altri mezzi. Il traguardo, esplicitato fin dal principio, è tanto chiaro quanto ambizioso: mettere l’esperienza accumulata a disposizione delle generazioni successive. Non solo: l’idea è quella di trasformarsi da history-maker, protagonista le cui gesta indirizzano il corso della storia, a story-teller, narratore di storie proprie e altrui. Siccome nella concezione di Bryant il confine di cui sopra non esiste, o se esiste è solo un malinteso che non lo riguarda, in entrambi i casi l’investimento emotivo ed economico è pari all’ambizione.

Invece di limitarsi a organizzare qualche clinic o campo estivo, magari accompagnato da una consulenza specifica a richiesta, Kobe Bryant ha creato una vera e propria struttura permanente, la Mamba Sports Academy, con due sedi californiane e un’offerta formativa per ogni età che va dal ju jitsu al beach volley, passando ovviamente per il basket. Nella visione di Bryant la missione filantropica non contraddice la volontà di gestire al meglio un patrimonio personale stimato attorno ai 2 miliardi di dollari, ragion per cui il cinque volte campione NBA non esita ad avvalersi dei consigli di diversi imprenditori di spicco.

Kobe telefona e scrive, spesso in orari assurdi, ai campioni dell’economia americana, che ritiene suoi pari nel campo dell’industria e negli affari. Non si tratta di conoscenze superficiali o recenti, perché la rete di relazioni di cui Bryant si avvale una volta smessi i panni da giocatore è frutto di un’opera di networking avviata ben prima dei 60 punti rifilati agli Utah Jazz. Kobe infatti aveva già cominciato a tessere reti e incontrare personaggi di spicco durante gli ultimi anni di carriera a ogni trasferta coi Lakers che glielo consentiva, incoraggiando i suoi giovani compagni a fare lo stesso.

Nondimeno, per quanto riguarda l’aspetto dello storytelling, Kobe muove i suoi primi passi su basi piuttosto solide gettate nel sodalizio con artisti del calibro di Michael Jackson e Spike Lee. Non che lui avesse bisogno di particolari ragguagli su come usare parole e suscitare emozioni: come rivelato a Ramona Shelburne, aveva già scritto personalmente il 90% delle pubblicità che lo vedevano protagonista.

Tra le tante della sua carriera, ci piace pensare che Kobe abbia scritto il copione di questa perla firmata da Robert Rodriguez.

Dopo la celebre lettera d’addio al basket, poi, Bryant si lascia ispirare dal confronto - e in qualche caso collabora direttamente - con autori del calibro di J.K. Rowling, Paulo Coelho e J.J. Abrams. Attraverso i Granity Studios vengono prodotti documentari, format televisivi, podcast e libri. I risultati, dal punto di vista del successo commerciale e di critica, assomigliano un po’ a quelli del Bryant giocatore: picchi altissimi come l’Oscar per “Dear Basketball”, scelte coraggiose come la serie Detail per ESPN e altre che lo espongono al pubblico ludibrio per il godimento dei suoi tanti detrattori mentre colloquia con un infeltrito mamba viola.

Nel complesso Kobe dimostra una disinvoltura esemplare nella transizione che lo porta verso una nuova fase della sua esistenza, senza palla tra le mani ma con la medesima voglia di eccellere e imporsi all’attenzione del pubblico. Non c’è discontinuità apparente tra il Bryant dominatore della NBA e quello lontano dai parquet, forse perché l’attitudine con cui si pone nei confronti di questo nuovo progetto è identica a quella riservata al basket. Un basket che, tuttavia, non esce mai dalla sua vita e che anzi, pur senza scendere in campo, gli riserva ancora le soddisfazioni più sorprendenti.

Gli amici vanno e vengono, i titoli sono per sempre

La leggenda che vorrebbe Kobe disinteressato a coltivare qualsiasi relazione personale è, per l’appunto, una leggenda. Per smentirla bastano le testimonianze dei tanti giornalisti e addetti ai lavori con cui, nel corso degli anni, la stella dei Lakers ha prima costruito e poi mantenuto un rapporto stabile ma soprattutto autentico. La cruda verità è che il Bryant giocatore agiva secondo una rigida scala di priorità al cui vertice c’era una primaria, ineludibile urgenza: vincere. E se il personaggio Kobe, sprezzante nella sua introversione ai confini della sociopatia, non poteva essere completamente inventato, di certo era per buona parte frutto di una minuziosa costruzione della persona pubblica il cui intento era prima di tutto quello di isolarsi dall’ambiente circostante per massimizzare le sue chance di successo.

Per contro, il Kobe visto dopo il ritiro è apparso da subito più spontaneo e aperto al mondo esterno, addirittura disposto a mostrare in pubblico le proprie emozioni. Lo scarto con il monolite dall’espressione imperscrutabile, gli occhi spiritati e la mascella serrata a cui si era abituati è notevole. E allora viene da chiedersi se quel Kobe più estroverso e sorridente - in definitiva più umano - non sia sempre esistito, celato sotto una scorza temprata dalla competitività e dalla smania di prevalere. Una volta appese le scarpe al chiodo e cessata la necessità di dimostrarsi sempre e comunque il migliore, gli altri sono diventati un universo da scoprire e di cui occuparsi. Tutta quella ferocia, tutta quel rigoroso autocontrollo forse non erano disposizioni d’animo connaturate nella sua personalità, bensì atteggiamenti che Kobe adottava per raggiungere lo scopo a cui aveva consacrato tutta la prima parte della sua vita: diventare il più grande giocatore di basket di sempre. Difficile stabilire se ci sia riuscito, anche se l’opinione condivisa è che abbia solo sfiorato l’impresa; quello che appare chiaro è come la frase “friends hang sometimes, banners hang forever” (liberamente traducibile con “gli amici vanno e vengono, i titoli sono per sempre”), a lungo motto personale da professare con ortodossia, abbia perso di senso una volta esaurita la premura agonistica.

Si tratta forse della lettura semplicistica di un fenomeno ben più complesso, nondimeno questa nuova e inedita versione di Bryant ci pone anche di fronte a una riflessione su come percepiamo e raccontiamo i cosiddetti “miti sportivi”. Quel Kobe diverso ci ricorda come dietro a ogni mito, spesso abilmente costruito con il contributo del diretto interessato, si celi un essere umano con tutte le sue complessità e debolezze, pregi e difetti, sfumature che male si accordano alla compattezza immutabile del monumento.

E il rapporto con le figlie, riassunto nelle tante immagini in compagnia di Gigi che in questi giorni hanno messo a dura prova anche i cinici più accaniti, può rappresentare la chiave per investigare l’evoluzione del Bryant uomo. Ma la profondità di questo cambiamento va ricercata fuori dall’ambiente familiare. Per provare a comprendere i motivi di quella che potrebbe quasi sembrare una mutazione genetica occorre passare, ancora una volta, dalla palla a spicchi.

Il rapporto di Bryant con i colleghi, in primis i compagni, è sempre stato caratterizzato da modalità comunicative alquanto distanti dal concetto di empatia, ispirate da una durezza nell’approccio praticata con mezzi sibillini quando non addirittura urlata in faccia. Quello con gli avversari, poi, è stato ancora più tortuoso, improntato al rispetto reciproco almeno quanto alla reciproca freddezza. Nonostante questo, o forse proprio per questo, Kobe ha rappresentato un modello per la generazione immediatamente successiva alla sua, quella dei Chris Paul e dei Carmelo Anthony, giocatori entrati nella lega proprio quando lo standard su cui misurarsi era lui. Le due esperienze olimpiche con Team USA hanno senz’altro contribuito ad accorciare le distanze, anche nel rapporto - parecchio romanzato - con LeBron James. Non hanno quindi sorpreso le reazioni alla sua tragica fine di chi ha vissuto buona parte della propria carriera con Kobe non solo come compagno o avversario, ma soprattutto come inesorabile termine di paragone.

Decisamente più sorprendenti, per numero e partecipazione emotiva, sono state invece quelle di atleti come Trae Young e Devin Booker, Ja Morant e Luka Doncic, che per ragioni anagrafiche avrebbero dovuto guardare a Bryant con maggiore distacco o, quantomeno, con una coinvolgimento meno intimo. Invece tra le pieghe dei ricordi affiorati dopo il drammatico incidente di domenica emerge un Kobe inedito, che risponde alle chiamate dei giovani colleghi e dispensa consigli come un mentore a tutti gli effetti. Proprio lui, protagonista di un rapporto tormentato con i genitori e con le successive incarnazioni della figura paterna, Phil Jackson in primis.

È complicato capire cosa Kobe abbia trovato nel rapporto con Young e compagni: di certo la passione condivisa con la figlia gli ha aperto le porte verso una una generazione di ragazzi cresciuti quando lui già battagliava per il Larry O’Brien Trophy. Forse, una volta cristallizzata la sua immagine di giocatore, non più scalfibile dal confronto diretto sul parquet, qualcosa è cambiato. Forse, nel relazionarsi con chi è arrivato parecchio dopo di lui, Kobe ha rivisto il se stesso diciottenne all’esordio in NBA, schiacciato prima tra la smania di detronizzare Michael Jordan e la difficile convivenza con Shaquille O’Neal e quindi spinto verso la spirale dell’isolamento dalle conseguenze del caso di violenza sessuale. Oppure, più semplicemente, nel rapportarsi con quei ragazzi con tutta la carriera davanti Kobe ha trovato un modo per continuare a respirare pallacanestro.

Kobe prova a rivelare qualche segreto del gioco alla figlia, ma gli occhi di Gigi sono tutti per Trae Young.

Solo dopo la sua scomparsa ci si è inoltre resi conto di come Bryant abbia potuto godere di un’esposizione maggiore rispetto ai suoi predecessori nel ruolo di uomo immagine della lega, grazie alla popolarità nel frattempo conquistata dalla NBA. Non si spiega altrimenti il tributo sincero di atleti che con il basket hanno poco o niente in comune, dai protagonisti degli Australian Open a quelli del Super Bowl.

E ancora più complicato risulta capire cosa questi ragazzi abbiano visto in lui, perché per quanto sia banale è inutile negarlo: Kobe era il prodotto di un’era di videocassette e sms e sembra incredibile che il suo ascendente sia stato così forte sulla generazione di Netflix e di Instagram. L’importanza di Kobe per questi ragazzi, poi, assume contorni ancora più singolari se si considera come le caratteristiche del suo gioco, dalla preferenza smaccata per il mid-range alla tendenza a monopolizzare la palla, siano in aperta antitesi con ciò che l’NBA contemporanea chiede ai suoi discendenti, cresciuti forgiando la loro idea di pallacanestro su James e Curry, Leonard o Durant, modelli decisamente diversi da Bryant.

Eppure solo ora appare chiaro come per i nati a cavallo degli anni 2000 Bryant fosse più tangibile di Jordan, di come Bryant sia stato il loro Jordan, perché quando da bambini Booker o Doncic accendevano la tv c’era Kobe a recitare la parte del supereroe in carne e ossa. Chissà se Kobe se n’era accorto, compiaciuto dall’aver se non superato, almeno eguagliato il maestro.

Ad attrarre questi ragazzi come un magnete non è stato tanto lo stile di gioco di Kobe o gli incredibili risultati raggiunti, quanto la dedizione genuina e assoluta al gioco della pallacanestro. Più che il Kobe che segna tiri decisivi e vince cinque anelli, quei ragazzi amavano il Kobe che si allena da solo alle 5 del mattino di una domenica di metà agosto o quello che gioca sugli infortuni. Young e Morant cercavano i suoi consigli e bramavano la sua approvazione, come se questa di fatto fosse la convalida definitiva per il loro amore per il gioco, come se la connessione con Kobe fosse un lasciapassare verso un futuro da eroi della NBA.

Infine, i racconti di chi aveva incrociato Kobe nel suo percorso dopo il ritiro concordano su un particolare non di poco conto, ovvero su quanto fosse palese come Bryant stesse vivendo con serenità, addirittura con gioia, questa nuova fase della vita. Una gioia che, anche se suona un po’ stucchevole affermarlo ora, Kobe voleva condividere con chi sul parquet si sarebbe conquistato il palcoscenico che era stato suo per così tanto tempo. Quella gioia voleva condividerla con Gigi, certo, ma non solo, anche con tanti altri ragazzi e ragazze che avrebbe potuto e voluto incontrare in questa sua nuova veste. Lo schianto fatale sulla collina di Calabasas ci ha privato della possibilità di vederlo portare a compimento questo nuovo capitolo della sua storia, e ancor più drammaticamente di una possibile futura stella della WNBA.

Pochi, forse nessuno dei suoi ammiratori vecchi e nuovi si avvicinerà mai ai risultati ottenuti da Kobe Bryant nella sua carriera, ma poco importa. Ciò che importa è che in ognuno di questi giocatori e di queste giocatrici, in ogni loro tiro preso e forzato, in ogni loro trionfo o sconfitta, in ogni loro allenamento solitario mentre fuori albeggia o è già notte inoltrata ci sarà qualcosa di Kobe Bryant.

La palla continuerà a far muovere la retina o rimbalzare sul ferro, le vittorie vanno e vengono, ma la devozione per il gioco è per sempre.

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